Ogni mondo virtuale ha una sua geografia dentro cui il giocatore individua relazioni di causa effetto a seconda di come viene impostato il racconto ludico. Nei videogiochi la narrazione non è un elemento di gameplay vero e proprio ma è sicuramente un elemento strutturante che permette di definire alcuni generi rispetto ad altri e che, spesso, differenzia opere altrimenti indistinguibili. Non si tratta soltanto di un movente che spinge ad andare avanti, ma anche di un modo per definire una visione d’insieme legando tra loro locazioni altrimenti amene. La narrazione gestisce i passaggi, li fluidifica nel discorso ludico rendendoli significanti e definendo lo spazio-tempo complessivo che altrimenti risulterebbe anonimo. Per capire meglio la questione basta esaminare Painkiller che lavora in modo esattamente opposto a quanto descritto: c’è una storia di fondo che lega i diversi livelli, ma i passaggi tra una mappa e un’altra non vengono mai gestiti in modo narrativo e quindi sembra sempre di attraversare degli scenari di cartone, delle mere scenografie messe su per rendere coreografici gli scontri. Per quanto belli possano essere, i livelli di Painkiller risultano irrimediabilmente slegati, frutto di un montaggio brutale che li rende contingenti senza strutturarli in un “mondo”, rendendoli di fatto più simili ad arene dove quello che conta è soltanto sopravvivere. Ma riprendiamo il nostro discorso.
Molta della bellezza narrativa di un gioco passa davanti al giocatore che quasi non si rende conto di quanto sia importante nell’economia del suo divertimento quello che invece percepisce soltanto come un aspetto accessorio del videogiocare. Eppure quanto del fascino di, per fare un altro esempio, Half-Life 2 dipende dall’ambientazione? Ovvero da come è stata pensata la geografia dei vari livelli? Non stiamo parlando del level design in senso stretto, ma più propriamente di ciò che c’è intorno e che raramente viene considerato. Il level design è l’atto di scavare un tunnel in una montagna per permettere di arrivare dall’altra parte. In base alle scelte fatte dal designer, il percorso sarà più o meno tortuoso, ci saranno più o meno bivi, trappole, enigmi da risolvere, nemici da eliminare e via di questo passo. Purtroppo non possiamo addentrarci troppo nella materia per non finire lontani dal bersaglio. Quello che ci interessa in questo caso non è tanto il come vengono pensati i livelli a livello di rapporto diretto con l’interazione del giocatore, quanto di come vengono “rivestiti” e di come S.T.A.L.K.E.R.: Shadow of Chernobyl sia la massima espressione di una ricerca che sta finalmente portando alcuni autori a produrre coscientemente del senso attraverso la descrizione ambientale, tutto questo grazie al genere dei giochi cosiddetti free roaming, nati ufficialmente con GTA, che hanno iniziato ad imporre alcune problematiche di tipo socio-architettonico ai designer. Come rendere “viva” una città virtuale? Ovvero come descriverla in modo tale da renderla plausibile per il giocatore?
La città riflette le ansie, le aspettative, le risposte alle difficoltà ambientali dei suoi abitanti, che finiscono per essere rappresentate in modo funzionale e simbolico, strutturando il potere e definendo le distanze tra i diversi cittadini. Quando l’Impero Romano crolla, le sue città si rimpiccioliscono diventando implicitamente il simbolo del declino. Quando l’Inghilterra diventa potenza commerciale e coloniale, Londra inizia a mostrare al suo interno il nuovo potere, ridefinendosi nelle sue strutture e ridefinendo contemporaneamente il modo di vivere dei suoi abitanti. La vita delle città è una serie di segni prodotti dal variare della società stessa che se ne serve per rappresentarsi, una visione che traduce l’essere oggi e le aspettative degli abitanti. Come rendere la complessità di una città all’interno di un videogioco? Ovvero, ampliando la domanda, come riprodurre un ambiente al presente, la sua geografia, con tutte le trasformazioni che lo hanno riguardato e lo hanno fatto diventare quello che è?
La Chernobyl di S.T.A.L.K.E.R. è la Russia di oggi: il cadavere radioattivo di un impero ormai razziato da sciacalli di ogni provenienza (locali e stranieri). In questo senso il titolo si propone come una vera e propria allegoria politica, mostrando una consapevolezza rara nei videogiochi. Il realismo degli scenari non è lezioso e immotivato, ma è la ricerca di un visivo/presente che illustri la realtà, metaforizzandola e scavalcandola in modo da metterla in gioco svelandola. Una città moderna a cui è scoppiato il cuore deflagrando la vita come si era configurata, ma anche il colosso sovietico stesso, mostrando al mondo la fragile immagine di un modello ormai allo stremo. Chernobyl è un’istantanea spettrale di ciò che fu: palazzi, fattorie, fabbriche, istituti di ricerca e la gloriosa centrale nucleare non sono altro che gusci vuoti di un territorio tornato ad uno stato preurbano popolato soltanto da rovine e mostri. La GSC è riuscita a narrare la storia di questo sfortunato territorio rappresentandolo in modo coerente e narrandolo continuamente in ogni dettaglio. Una sovra-storia senza la quale la narrazione esplicita, che inizia e termina l’esperienza ludica, non avrebbe alcun mordente e sarebbe anzi la solita storia di mutanti, esperimenti andati male e ambizioni di varia, perversa, natura. Ambientare uno sparatutto in un luogo così potente da punto di vista simbolico, sfruttandone la tragedia, è sembrata a molti una scelta ardita, soprattutto perché il genere non è quasi mai andato oltre le tematiche classiche con cui vengono infarciti, genericamente, i videogiochi.
S.T.A.L.K.E.R. porta all’estremo il cinismo degli FPS, brutalizzando la realtà e rendendola campo di battaglia fra forze politiche che si scontrano per il potere, incuranti di quello che hanno prodotto e di quello che potrebbero proporre. Ma ancora di più è il giocatore stesso ad essere proiettato in questo mondo sventrato diventandone attore consapevole: per tutto il gioco è chiamato a comportarsi più o meno come quelli contro cui spara, senza distinzioni precise fra buoni e cattivi e senza nemmeno doversi curare di dare una giustificazione al suo agire. Paradossalmente, in un gioco narrativo fino al midollo (pur avendo relativamente poche sequenze narranti intese in senso classico), l’unico elemento “sorvolabile” è proprio la storia principale che, anzi, non è determinante per poter arrivare alla fine del gioco. È il giocatore che deve impegnarsi per “scavarla” tra i detriti, per poter arrivare ad esprimere un desiderio finale che non sia scelto pescando nell’egoismo umano (come avviene, invece, altrimenti), ma che tenga conto della tragicità di ciò che lo circonda cercando di combatterla. È una presa di coscienza che avviene attraverso l’esplorazione e che non viene servita su un piatto d’argento come conclusione ovvia dell’aver giocato, ma diventa un premio nel momento in cui ci si è impegnati a comprendere, ad investigare, cioè, sul proprio passato. Non per nulla il finale più comune è quello per cui si chiede a Chernobyl di diventare ricchi, creando un crollo strutturale che ci sommerge, facendoci diventare detrito tra le macerie di un simbolo di potere di un impero decaduto. Un finale che si ottiene giocando in modo classico, ovvero accumulando grandi quantità di soldi e avanzando come un carro armato verso la fine, senza considerare null’altro che l’accumulo di risorse per essere più “potente” del nemico da abbattere. La fine degli sciacalli, insomma, che sfruttano le tragedie per arricchirsi. Il rapporto tra Chernobyl e il protagonista non è quindi distaccato e ininfluente. Le mappe non sono state progettate soltanto per affascinare il giocatore / passante mentre massacra il nemico di turno. Possiamo invece parlare di un rapporto d’identità tra il mondo e il suo unico punto di vista possibile (quello del giocatore, ovviamente) in cui l’uscita dall’anonimato e la riconquista della coscienza passa attraverso uno sforzo di ricerca e viene definito dalle regole del gioco, diventando quindi un contenuto attivo del gameplay e non soltanto un elemento passivo da guardare in modo distratto pensando soltanto alla sparatoria successiva.
Mi sento leggermente uno sciacallo… :look:
Bel pezzo, sio Karat!
Prima o poi ci giocherò anch’io, da come ne parli sembra che finalmente superi quell’impostazione vetusta del videogioco 3d che pare ormai insuperabile. Ovvero il presentare un mondo coerente e interattivo non solo in potenza.
Anche se secondo me il free roaming di San Andreas, non è veramente interessante, è quasi come ripetere un livello di Super Mario World che si è già giocato, tentando di recuperare ulteriori power-ups. È un wannabe, ma meglio un tentativo che nulla.
A questo punto mi piacerebbe un confronto tra STALKER e Pathologic scritto da te! 🙂
so che è un articolo vecchio, ma è eccezionale,ci tenevo a scriverlo.
Grazie 🙂
Anche se son passati tanti anni, vorrei complimentarmi per l’articolo, veramente ben scritto, descrive perfettamente cosa vuol lasciare questo gioco che per me rimarrà indimenticabile.