La città fantasy
Entrare in una città di un qualsiasi gioco fantasy medio è un esperienza che possiamo definire “uniforme”. In realtà anche altri generi presentano in buona parte quello che andrò a descrivere, e che probabilmente, da appassionati di videogiochi, ben conoscete… ma rimaniamo ancorati al fantasy che è il genere cardine di un certo modo di concepire lo spazio cittadino.
La città fantasy videoludica non è mai molto grande. Anche quando si tratta di una capitale le sue dimensioni sono comunque contenute. Dove la città è molto grande, ad esempio la Neverwinter dei due Neverwinter Nights, si trovano degli escamotage per limitarne le dimensioni, come renderne visitabili solo alcune aree d’interesse, lasciando il resto rappresentato soltanto su una mappa generale. All’interno di una città fantasy ci sono delle strutture fisse che assumono un’importanza cardine per il gameplay. Vediamone alcune.
Non esiste città senza un negozio di armi, uno di armature, uno di incantesimi e uno di merce varia ed eventuale, a seconda del livello di complessità ruolistica implementata. Ad esempio in Oblivion si trovano moltissimi tipi di negozio in tutte le città più grandi, partendo proprio dalla Città Imperiale, suddivisa in quartieri in modo molto rigoroso (ogni quartiere viene caricato a parte quando ci si accede). Ovviamente non è difficile comprendere la funzione dei negozi: vendere oggetti per soldi così da poterne acquistare altri, in modo da potenziare maggiormente il proprio avatar. In alcuni titoli è previsto anche il baratto come forma di scambio e i prezzi, generalmente svantaggiosi per il giocatore, vengono equilibrati dalla presenza di abilità apposite, comunque non presenti in tutti i GDR. Possiamo ben affermare che il “negozio” è un elemento fisso del genere, sia che si parli di GDR in stile Giapponese, sia che si parli di GDR in stile occidentale. Non è un caso che io abbia citato i negozi per primi, rispetto ad altre strutture onnipresenti, vista la loro importanza a livello di gameplay. I negozi e il modo con cui il giocatore ci interagisce determinano la rappresentazione di un modello di economia all’interno del gioco, generalmente molto semplificata e senza implicazioni per la società rappresentata, che da questo punto di vista si dimostra sempre estremamente statica. Non ci sono fluttuazioni, non ci sono impoverimenti o arricchimenti dovuti al volume degli scambi. Spesso si possono portare decine di oggetti di grandissimo valore ad un negoziante vedendoseli pagare tutti immediatamente senza battere ciglio. Sono pochi i casi in cui si cerca di inserire variabili che rendano più complesso questo aspetto (limite alla somma a disposizione del negoziante, impossibilità di vendere oggetti ottenuti illegalmente ecc) ma non si è mai arrivati a pensare un modello che renda più meditato il modo di gestire le risorse a disposizione. Ovviamente il discorso cambia parecchio se parliamo di MMORPG, dove l’economia è molto più complessa rispetto ad un GDR single player, ma proprio per questo non terrò in considerazione i giochi multigiocatore, dove il discorso si amplierebbe e deriverebbe verso questioni più ampie.
Altro tipo di edificio sempre presente è la locanda (o taverna), insomma, un luogo pubblico di aggregazione molto modesto, dove si servono alcolici, frequentato solitamente da gente poco raccomandabile. La locanda ha normalmente anche funzione di negozio ma viene più spesso utilizzata come luogo di scambio di informazioni. Non ricordo gioco fantasy in cui non sia presente una visita ad una locanda, normalmente per parlare con qualche personaggio “ben informato” su questioni inerenti ad una o più quest. Normalmente, quindi, la locanda è un luogo che viene sfruttato narrativamente (probabilmente è il fascino dei luoghi malfamati a farlo amare così tanto ai giocatori e agli sviluppatori) e in cui vengono fatti recitare ai personaggi non giocanti alcuni stereotipi che portano dritti a scene classiche del genere (la rissa nella locanda con qualche ubriacone su di giri, ad esempio).
Anche il “centro del potere” è un luogo sempre presente e si presta ad una moltitudine di rappresentazioni, a seconda del modello di amministrazione ipotizzato per il territorio. Normalmente si entra in contatto con questo luogo, che può essere la fortezza di un imperatore, la villa di un sindaco, la tenda di un capo tribù, la sala del consiglio degli oligarchi locali ecc, quando si è ottenuta una certa fama e le quest passano dall’essere di tipo particolare all’essere di natura più generale, facendo segnare una svolta nella trama principale in cui la minaccia, prima generica e vaga, diventa più consistente e arriva a toccare la società tutta. In questo senso il recente Neverwinter Nights 2 è paradigmatico: il gioco inizia in un villaggio attaccato da forza misteriose senza un apparente perché, la fase successiva è un viaggio verso la città che detiene il potere della regione, all’interno della città si è costretti a salire di rango per poter accedere ad un’area segregata in seguito ad un omicidio, con l’accesso a quest’area si chiarisce parte della natura della minaccia contro cui si combatte. Dopo una sequenza topica per il proseguo della trama ci si ritrova nella città con la possibilità di accedere al centro del potere, da cui si ottiene una vera e propria investitura entrando in contatto con il reggente. Piano piano, insomma, senza svelare altro della trama, ci si trova ad ottenere un potere “politico” sempre maggiore, arrivando ad acquisire interi possedimenti ma rimanendo sempre un gradino sotto il reggente, che è il simbolo vivente del potere costituito. Un discorso simile è fattibile anche per Oblivion: dove ogni questline termina con un incremento di potere “politico” da parte del giocatore, tranne quando il potere in gioco è quello del governo dell’Impero; e per Gothic III, dove però la questione è trattata in modo leggermente più complesso, vista la possibilità di associarsi a diversi poteri. Ovviamente ci sono delle eccezioni ma questo pare essere il modello di sviluppo della trama preferito dagli sviluppatori, nonché quello che consente di ipotizzare una serie di momenti catartici più standardizzati rispetto ad altri modelli che richiedono abilità narrative maggiori. Ovviamente il cosiddetto centro del potere è anche un luogo dove mettere in scena una serie di personaggi secondari, utili per la definizione e quindi la rappresentazione, del modello di società scelto per il mondo di gioco.
Esistono altri luoghi tipici che possono essere aggiunti al novero: ad esempio il tempio, luogo di guarigione e spiritualità che, inverosimilmente, difficilmente viene messo in rapporto con il centro del potere; il cimitero, ovviamente luogo aberrante pullulante di non-morti e di personaggi che vorrebbero sfruttare i deceduti per i loro scopi maligni (negromanti e affini). Ce ne sono anche altri, ma possiamo limitarci a quelli appena elencati (già mi vedo ABS sgranare gli occhi per la lunghezza di questo post… scusate la nota di colore arsludico NDKarat) che permettono comunque di capire più che bene il senso di quello che voglio dire.
Che cosa manca?
Le città dei videogiochi sono piene di “tipi” e poco di persone. Si incontra l’avido, il rozzo, il nobile snob, la prostituta, il povero e tutto il resto del campionario dei personaggi tipizzati in secoli di cultura, ma non si cerca mai una rappresentazione dinamica e, in un certo senso, più “viva”, della società. Prendiamo la figura del povero in Oblivion (rimanendo su un titolo recente). Normalmente vivono all’aperto nelle zone più marginali delle città. Hanno dei sacchi a pelo dove dormire e qualche razione di cibo. Durante il giorno vagano indisturbati in mezzo agli altri cittadini senza svolgere attività particolari (non chiedono neanche la carità, a guardarli bene). Non hanno una funzione precisa nell’economia del luogo, se non una di tipo folcloristico. Mettiamo che durante i nostri viaggi abbiamo accumulato un patrimonio decente (50000 pezzi d’oro), cifra che consente di acquistare una casa e di arredarla completamente, mettiamo quindi di voler donare l’intera cifra ad un povero. Cambierebbe qualcosa nel suo status a parte il fargli provare una maggiore simpatia nei nostri confronti? Assolutamente no. Il povero rimarrebbe paradossalmente povero pur disponendo di risorse economiche superiori a quelle della maggior parte dei cittadini di Cyrodiil. Lo stesso discorso è fattibile per tutti gli altri videogiochi in cui è presente la possibilità di donare soldi ai poveri.
Ma non tirate conclusioni affrettate. Non voglio andare a parare dove sembra. Apparentemente sembra che io abbia voluto esporre una serie di limiti, mentre, invece, voglio solo sottolineare una necessità. È impossibile, allo stato attuale della tecnologia e dei fini videoludici, pensare di rappresentare un modello fluido in cui mettere in scena delle dinamiche sociali così complesse. Questo permette però di superare il mito del videogioco come “infinito”, ovvero come medium in cui ogni giocatore scrive la sua storia. Il fatto che in una città fantasy virtuale siano sempre presenti degli schemi consolidati, a livello di edifici e cittadini, dovuti soprattutto all’affermarsi di alcuni luoghi comuni dettati dai gusti dei giocatori, rende necessario prendere coscienza del fatto che, per quanto in un videogioco esista la possibilità di creare una rappresentazione complessa e articolata di un mondo, ci si trova comunque di fronte ad una rappresentazione statica. Il giocatore l’attraversa, ma non la modifica, la osserva, ci interagisce nelle modalità previste dal programma, che sono moltissime ma mai infinite, ma non partecipa direttamente alla creazione del senso. Il giocatore può solo “spostare”, ovvero ondeggiare tra intervalli di senso già previsti. Non è mai, però, creatore in senso stretto. Per diventare tale deve uscire dal gioco e mettersi dall’altro lato della barricata (quello che fanno, ad esempio, i modder) modificando il programma (tramite editor predisposti dagli sviluppatori o tramite un lavoro di decostruzione e ricostruzione del codice) ma perdendo il ruolo del giocatore che è quello che qui ci interessa. Gli stessi MMORPG presentano questa rigidità, pur ampliata, e, paradossalmente, si tende a “filtrare” quasi tutto ciò di quello che viene creato dagli utenti. In questo senso World of Warcraft è molto più statico di un Oblivion qualsiasi, perché ogni modifica viene vagliata dal creatore originale che decide se ammetterla o meno, limitando l’espansibilità del programma. Eppure l’utente medio percepisce al suo interno molta più libertà rispetto ai giochi single player e anche rispetto a MMORPG più complessi e con maggiori possibilità d’interazione (come Ultima Online, ad esempio)… perché mai?
I “luoghi” comuni vengono messi in scena proprio per accontentare l’utente medio che, in essi, trova una forma di affermazione e di consolazione. In pochi si chiedono come mai nella città fantasy standard manchino spesso i bagni, anche nelle case dei nobili, mentre i mercanti di armi si trovano pure nei paesi più piccoli e sperduti. Pochi altri si chiedono come mai tutti i cimiteri di questi luoghi “fantastici” somigliano a quelli Cristiani (o a quelli Giapponesi, a seconda del tipo di GDR) mentre difficilmente si pensa di creare dei sistemi funerari diversi da quelli più comuni e magari più adatti alle religioni fittizie rappresentate (esiste un gioco fantasy senza un pantheon di divinità inventate all’uopo?). I giocatori cercano quello che già sanno, una rappresentazione del loro pensare e sognare quotidiano, della loro cultura insomma, non certo un mondo che li ponga di fronte a problemi e sfide veri. Il potere così come l’economia e moltissimi altri aspetti, esistono solo in funzione del gioco e fino ad oggi non sono quasi mai andati oltre uno schema di fondo introdotto da Richard Garriott con i suoi Ultima (ovvero le categorie di “Bene” e “Male” comunque non certo inventate da lui). Spesso gli sviluppatori si limitano a definire cosa è bene e cosa è male, partendo dalla propria esperienza, cercando comunque di adattarla il più possibile all’esperienza comune, e permettendo al giocatore comportamenti oscillanti soltanto all’interno di una scala di grigi generata con l’intento di sottolineare i due estremi. Forse è per questo che nella rappresentazione delle città fantasy, così come in quella della maggior parte dei mondi ludici, vengono omessi costantemente gli elementi più disturbanti e veri, ovvero vengono prodotte delle città parco giochi in cui si entra e si esce con una percezione alterata della realtà, che non ammette la profondità della vita ma soltanto qualcosa che vorrebbe somigliargli, senza però avere il coraggio di farlo.
Karat, sei un Dio.
Gran bel post.
Emack, sei un idolatra.
(vabbe’, una cosa un pelo più costruttiva…)
Alla fine la “città fantasy” in questione non è altro che una città da GDR – che si sa, perlopiù sono fantasy. In effetti le eccezioni alle regole poste da Karat si possono trovare proprio nei GDR non-fantasy, tipo i miei amatissimi Fallout. Un mondo anarcoide, con centri di potere piccoli e tra loro rivali secondo equilibri che il giocatore può effettivamente alterare. La cosa più notabile, alla luce di quanto scritto da karattolo, è che il centro di potere “assoluto” in effetti esiste… ma soltanto come aspirante, e lo scopo del gioco è, in entrambi gli episodi, quello di annientarlo e praticamente di salvare lo status anarcoide della Nuova California.
Quindi… boh. Forse che l’ambientazione fantasy si è ormai fatta docile strumento dell’infantilizzazione dei temi? E dire che quello di Britannia, nonostante tutto, mi pare anche un epos apprezzabile… non so che concludere in effetti 😛