We want to believe in Duke

A noi non piace barare.

E’ vero, tutto ciò è scorretto, ma non possiamo fare a meno di mostrarvi queste due immagini che significano tutto e niente allo stesso tempo.

Ciò che state vedendo rappresenta il regalo finale per chi sblocca tutti gli achievements di Duke Nukem 3D su Xbox Live. E’ una cosa vergognosa spoilerarli così agli acquirenti di questo secolare FPS, ma abbiate pazienza, stiamo parlando di screen reali di gioco. Come faccio a dirlo? C’è tutto, il faccione del duca (giovane oggi come 12 anni fa), ci sono gli alieni macrocefali, zinne e i culi for free e tanto, ma tanto aliasing (che oggi come oggi testimonia la genuinità di uno screenshot). Ringrazio Tom’s Hardware per avermi fatto provare un paio di sussulti dopo averli visti a pieno schermo. Sì perché in fondo sono ancora legato al Duca tridimensionale, ne ricordo con piacere l’ambientazione urbana, le sue battutacce, i suoi soldi, i boss esagerati, il suo riflesso sullo specchio, il suo pisciare con godimento nei bagni pubblici, il suo carisma e il Build (primo motore grafico su cui mi sono dilettato a creare alcuni livelli, tramite il suo potente e semplice editor). E’ vero che ad oggi è puro Vaporware, Broussard può dichiarare ciò che vuole ma ormai sono rimasti in pochi a dargli credito, 11 anni di prese per il culo non le si dimenticano tanto facilmente, ditelo ai Megadeth che nel lontano 1999 realizzarono la colonna sonora di gioco (okay, era solo il main theme del gioco, che alla fine ha realizzato anche il nostro Monopoli, ma che bel pezzo!) e da allora sono passati tre album, due motori grafici e una reunion.
Però devo ammettere di non essergli del tutto indifferente e quel povero pirla di videogiocatore sognatore che c’è in me probabilmente ci crede ancora.
E voi?

American McGee’s Grimm

Sviluppato da Spicy Horse | Pubblicato da GameTap | Piattaforme PC | RIlasciato nel 2008 / 2009


Ma che senso ha?

Nei panni di un nano petomane a cui stanno sulle balle le fiabe, il nostro compito sarà “ridipingerle” di nero, ovvero ribaltarne la morale rendendole oscure. Perché? Perché al nano petomane stanno sulle balle le fiabe con il lieto fine. In effetti, a livello narrativo, American McGee’s Grimm è poco meglio di un peto del protagonista, fatto piuttosto strano visto che ruota intorno ad alcune delle favole più famose del mondo (a parte quella secondo cui la CAI ha fatto un’offerta migliore dell’Air France per comprare Alitalia).

In cosa consiste il gioco? Beh…

Aprite un qualsiasi programma di grafica che permetta di usare dei pennelli. Create una nuova immagine con lo sfondo completamente bianco delle dimensioni che volete. Selezionate il pennello che più vi piace e il nero come colore. Cominciate a colorare l’immagine di nero (niente gradiente, non barate) passando il pennello in ogni dove. Ecco, questo è il gameplay di Grimm.

Vabbé, nel gioco, a differenza di Photoshop, ci sono anche dei tipi che ricolorano di bianco il foglio e, miracolo, si può saltare dando una culata a terra per ampliare il raggio della “pennellata”. Tutto qui? Tutto qui.

Dopo quasi un’ora di gioco passata a ribaltare la manciata di (piccoli) scenari (sono 6 in totale) dell’episodio provato ho… finito? Già finito? E… quindi?

Non c’è un vero nemico, non c’è alcuna difficoltà da superare (a parte un paio di piattaforme in uno dei livelli e gli oggetti non ribaltabili con i livelli di potere insozzante più bassi), non ci sono pericoli di sorta, non c’è nessun tentativo di creare qualcosa di originale da riportare… ma è un videogioco o una demo senza scopo? L’unica nota di merito potrebbe essere l’aspetto visivo dallo stile peculiare, ma visto che a molti non è piaciuto, guardate le immagini e il filmato e fatevi un’idea vostra.

Oltretutto non è neanche interessante a livello tematico. Pensando a delle “favole ribaltate” viene subito in mente Alice dello stesso McGee. Purtroppo il nostro ha dimenticato che lì il bello non era soltanto la favola ribaltata in se, quanto i rapporti tematici che si creavano tra la protagonista e lo scenario, oltre che la particolare rilettura del racconto di Carroll, con la nostra chiusa in manicomio. Alice era bello per molti motivi (che non posso mettermi ad elencare nella recensione di Grimm), non certo per il semplice fatto che era stato fatto un dispetto alla favola originale (che poi è quello che viene fatto da Grimm).

Sinceramente non mi va di sprecare troppe parol(acc)e per Grimm, un progetto complessivamente insulso che non solo non riesce a divertire, ma che non riesce neanche a comunicare i presupposti del suo esistere, ovvero il perché qualcuno dovrebbe interessarsi a quello che contiene.

Intervista a Stephanie Morrow

Stargrace, al secolo Stephanie Morrow, è una giovane arredatrice virtuale. Il suo hobby preferito, infatti, è allestire, rimodernare o arredare le case dei personaggi di Everquest II.

La casa in Everquest II è sempre stato un elemento di distinzione sociale: ogni risultato in-game può diventare un trofeo da esporre, la stessa locazione o dimensione della casa dimostra che il giocatore ha un credito più o meno elevato presso una determinata fazione. In Everquest II la casa base non ha colonnati, decorazioni murarie o punti luce: è solo collezione di stanze, sono i giocatori che devono allestirle usando quasi un migliaio di oggetti craftabili o ottenibili da quest. La casa è anche un punto d’incontro sociale per fare affari, fondare alleanze, pianificare gli eventi di gilda. Se inizialmente viene vista come un elemento secondario dal giocatore neofita (distratto da altri milioni di cose da fare), ben presto essa diventa un elemento topico del gioco che crea appartenenza ed orgoglio nei giocatori più esperti, diventando una proiezione del proprio spazio personale nel mondo virtuale di Norrath.

Stargrace è riuscita a sfruttare al meglio questo volano sociale, impiegando i limitati mezzi che Everquest II mette a disposizione in maniera molto creativa. Agendo anche su aspetti banali come i materiali, la scelta del mobilio e l’illuminazione giusta, nonché utilizzando in maniera anticonvenzionale oggetti pensati per ben altro scopo per crearne di nuovi (quasi tutto il mobilio che usa è derivato da composizioni di oggetti diversi), Stephanie ha saputo ottenere dei risultati estetici, che le hanno giustamente procurato una discreta fama come meta-architetta di un mondo virtuale che, evidentemente, non è solo raid e punti esperienza. In fondo come potrebbe non essere diversamente se riesce persino ad aprire finestre in case che non ne hanno nemmeno una?

Sentiamo cosa mi ha detto:

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Ti amo… Elaine Marley

Ho attraversato mari e monti per tornar da te…

… e ancora oggi mi tratti con sufficienza

Quando c’è una sola donna, c’è una sola scelta, ed io l’ho fatta!

… Non è colpa mia se non sono mai riuscito a formare frasi di senso compiuto

Ho dimostrato di saper tenere il fiato per 10 minuti!

… ma qualche bastardo ha voluto testare la mia resistenza, mandandomi all’altro mondo
… E dicevano che la morte la si rischiava solo sulle montagne della Sierra

Un vestitino viola indossai per incontrarti ancora

… Mentivo, è vero, ma della tua mappa abbisognavo mai come allora

Un costoso regalo ti feci, e d’oro massiccio diventasti

… Il pollo diablo imitai pur di liberarti

Per te lottai contro scimmie, zombie e pirati fantasma

…Fin dentro un distributore di birra di radice perché io non soffro d’asma

Però alla fine abbiamo coronato il nostro tenero sogno

… anche se un certo Ron ha rinnegato la nostra unione sin da quel giorno

Poco mi importa, se hai deciso di affrontare una carriera in politica,

… attraverserò anche il fiume del tempo, pur di assisterti

Tante altre cose vorrei dirti, ma una sola domanda vorrei porti:

Se un albero cade nella foresta e non c’è nessuno a sentirne il rumore, di che colore è l’albero?

Intervista a Francesco Serino

Francesco Serino è coordinatore editoriale presso Play Media Company (editore della rivista multipiattaforma Game Republic e di varie altre testate dedicate al videoludo quali RetroGamer, PS Mania 3.0 and so on) ed ha recentemente compiuto il grande balzo dalla realtà della carta stampata alla grande Rete. Ho ritenuto dunque interessante approfondire la conoscenza e la simpatia di un personaggio che si è speso in prima persona per seguire e far maturare un progetto – gamerepublic.it – che sicuramente si ritaglierà uno spazio consistente nel panorama internettiano dell’informazione videoludica italiana.

Eri ormai da anni alla guida di Game Republic quando, quest’estate, hai annunciato di aver raccolto la sfida del Web e sei passato a capitanare l’incarnazione internettiana della rivista. Come si può leggere tale decisione da parte tua? Cosa può spingere un senior editor ad abbandonare la carta stampata per proiettarsi nella grande Rete?

In tutta sincerità, col tempo era divenuta alquanto dura digerire gli attacchi della rete. Si prepara per mesi un’esclusiva, si rispettano tempi e segreti e poi, all’improvviso, il sito sconosciuto di turno capitato in un evento quasi per caso copia e incolla info e immagini super segrete in rete. La fonte? Sempre anonima. Con buona pace di chi aveva pianificato una copertina e un bell’articolo d’approfondimento per settimane. Certo, dal punto di vista del lettore l’iter che accompagna un gioco a comparire su una rivista piuttosto che un’altra potrebbe essere visto come una semplice perdita di tempo: “vogliamo saperlo, subito!”. E in un certo senso lo capisco – d’altronde è anche per questo che ho scelto di fare questo lavoro, volevo prima di tutto approfondire, saperne di più, discuterne proprio con chi i giochi li pensa e poi li trasforma in realtà. Ciononostante la rivista cartacea ha ancora la sua innegabile forza, sopratutto per quel che concerne contatti, possibilità e sì, persino autorevolezza, e per chi come noi ha a disposizione entrambe le infrastrutture è una fortuna, una fortuna che in Italia pochissimi possiedono ed è per questo che l’entusiasmo per tale possibilità è stato alto fin da subito.
Inoltre bisogna prendere atto dei cambiamenti che hanno investito la nostra società trasformando di conseguenza molti dei suoi usi e costumi. La banda larga sta arrivando ovunque e l’avvento di tecnologie come WiMax faranno fare un balzo notevole al numero di persone che naviga quotidianamente per cui, di riflesso (ma questo già accade da qualche anno), si sposteranno anche gli investimenti pubblicitari. In poche parole, chi parla di tecnologia e non si accorge di tutto questo forse non dovrebbe più parlare di tecnologia. Infine bisogna anche cominciare a chiedersi in che modo sceglieremo i nostri acquisti in futuro: servono informazioni a più livelli, dare la possibilità a chi naviga di scegliere come e quanto approfondire ogni singolo argomento e tutto questo con una rivista stampata non è possibile e vi assicuro, i costi di una stampa con e-ink sono ancora troppo alti, ce lo conferma la recente copertina di Esquire.

Quali sono le feature mediante cui intendi caratterizzare gamerepublic.it e su quale strategia punti per farlo emergere in uno scenario estremamente concorrenziale?

Non volendo ho già risposto in parte a questa domanda con la mia prima risposta. Avere i mezzi di una rivista e al tempo stesso la possibilità di essere tempestivi come non mai grazie a un sito ben strutturato è secondo me, secondo tutti noi, una grande possibilità da sfruttare al meglio. Il sito ben strutturato naturalmente non è ciò che possiamo vedere oggi ma quel che ci siamo immaginati per un domani sempre più vicino. Su Game Republic.it stanno cambiando molte cose e nei prossimi due mesi chi vorrà potrà farsi un’idea chiara su quali sono i nostri intenti e, cosa ben più importante, se saremo in grado di catturare l’attenzione di chi frequenta altri luoghi della rete. Serve una struttura flessibile e al tempo stesso scalabile a piacimento da chi la consulta, serve un’idea aperta al mondo e non più chiusa all’interno delle mura redazionali, serve ripensare il modo in cui scrivere una recensione e il modo in cui sono strutturate le anteprime. Ma prima di ogni altra cosa servono articoli interessanti e sempre tempestivi, serve sbattersi e servono buone firme, nessuno passa davanti alla tua bottega se in vetrina non c’è niente, nessuno entra se gli scaffali sono vuoti o impolverati, nessuno tranne i collezionisti, quelli che imbustano tutto e amano questo genere di negozi, l’esempio non è per voi, ok? E serve passione poiché ce n’è meno di quanto si pensi.

Stiamo indubbiamente vivendo un periodo di transizione all’interno dell’industria: oggi esistono business e servizi (come il digital delivery nelle sue infinite sfaccettature) non ancora perfettamente censiti dagli analisti di mercato; in più, l’offerta videoludica sta diversificandosi con sempre maggiore insistenza per venire incontro a nuove platee (basti pensare ai rinnovati sforzi di Nokia in merito al progetto Ngage, oppure al proliferare dei browser game). L’intera metamorfosi sta di fatto portando i videogiochi presso la consacrazione definitiva della quotidianità. La stampa di settore quanto è consapevole di tali mutamenti, e quale paradigma intende adottare (se ne avverte la necessità) per interpretare il divenire della scena?

Penso che la stampa di settore ne sia ben più consapevole dei suoi lettori. È per questo che le testate che cercano di approcciarsi all’argomento in modo diverso e sicuramente più approfondito vengono viste come tediose, ridondanti, un po’ come il progressive rock. Nel mondo dei videogiochi assistiamo a un fenomeno nuovo, si scelgono i prodotti in base alla marca e non alle sue reali qualità. Atteggiamento infantile per una guerra inutile poiché in questo contesto le vere stelle sono le varie PlayStation, il 360, il Wii, e a loro volta le console vengono suddivise mentalmente in line-up. In poche parole il videogioco è al secondo piano, quello interrato però; non è giusto, anzi, è schifosamente ingiusto. Nel cinema non ci si priva di un’opera straordinaria solo perché stampata su DVD Philips, non esistono film che possono esser visti esclusivamente su lettori Sony. È il film l’oggetto da rispettare e non l’hardware che lo farà girare. Siamo sicuri che tutto questo non sia l’origine di ogni male, di ogni fraintendimento, persino tra fasce di potenziali lettori?
Abbattendo questa situazione potremo finalmente ripartire di nuovo e garantire a tutti prodotti ben più mirati poiché suddivisi in fasce d’età e di interesse e non in base alle varie case produttrici. Su, cazzo, ma voi lo avete mai visto Ufficiale Quattroruote Audi?

Per opera di alcuni (illuminati) pionieri, in Italia sta timidamente prendendo piede l’idea della dimensione fieristica come estensione dell’attività giornalistica: se da un lato le riviste e i siti si muovono nel dominio della teoria, le fiere e le conferenze (come la Game in Italy o il Webbit di qualche anno fa) agiscono nella pratica, dando un volto “umano” ai vari spiriti del settore (sviluppatori, distributori, critici, e, naturalmente, il pubblico dei videogiocatori).
Ciò aumenta l’autoconsapevolezza all’interno dell’ambiente e costituisce un efficiente esempio di informazione e divulgazione. Hai fiducia nelle potenzialità didascaliche degli eventi “live” e ritieni preventivabile un impegno in tal senso da parte tua o del tuo editore?

Assolutamente d’accordo nonché grato a chi, fino ad oggi, si è sbattuto per organizzare al meglio eventi italiani di un certo rilievo. È a dir poco indispensabile per me un impegno futuro in tal contesto. Mi preoccupa solo la dispersione di energie, non vorrei che in modo prettamente italiano si venissero a creare tante piccole realtà, il sogno ci deve vedere tutti a bordo in modo da riuscire nella sua interezza.

Non trovi strano che in un Paese che fa della creatività e del buon gusto un vessillo l’industria dei videogiochi sia praticamente inesistente?

La creatività penso ci sia ancora ma sul buon gusto avrei da ridire. Ma voi non vi siete stupiti nello scoprire che hanno prodotto un altro film a uno che si chiama Pappi Corsicato? E che Milestone per fare dei giochi decenti sia obbligata a firmare per Capcom o EA? È ingiusto. Come è ingiusto spingere migliaia di appassionati ad iscriversi a corsi di ogni genere (non che sia impossibile trovarne uno valido, solo che orientarsi è una giungla). Questo non fa bene a quella che potrebbe essere un giorno chiamata l’industria dei videogiochi italiana. Il governo francese si inventa degli incentivi economici per salvare Ubisoft dalle grinfie straniere e i nostri distributori fuggono all’estero dal giorno alla notte con un KOTOR nei negozi. Renaud Donnedieu, l’ultimo ministro alla cultura francese, si è preso la briga di assegnare a Shigeru Miyamoto, Frédérick Raynal e a Michel Ancel il titolo di Cavalieri dell’Ordine delle Arti e delle Lettere (assegnato in precedenza a gruppi come Supertramp, attori come Clint Eastwood e poi tenori, soprani, Peter Molyneux, Vangelis…). Credo non serva altro per capire in che fossa culturale siamo finiti. Almeno siamo fortunati che la figura di Mussolini sia più provinciale di quella di Hitler, da noi la censura ci permette ancora di mostrare due gocce di sangue nella stessa scena, ma niente figa, quella fa male ovunque.

Una volta affermasti che la (allora ventura) rivoluzione nintendiana avrebbe potuto non rivelarsi alla portata dei videogiocatori tradizionali, e che per tale ragione avrebbero potuto non capirla. Vi sono ormai i numeri sufficienti per esprimere valutazioni sensate, per cui ti chiedo: confermi quella tua intuizione e quanto ti ritieni soddisfatto della missione di Nintendo?

Dobbiamo tutti essere grati alla Nintendo di oggi, esattamente come dobbiamo esserlo alla prima PlayStation. Senza dimenticare il mitico NES e il Commodore64, ma solo quello marroncino.
Tutte macchine che hanno fatto fare un balzo all’industria di anni luce. Questo non significa che io debba per forza di cose farmi bastare un Wii, non potrei mai vivere senza un 360 collegato in Live o una Ps3 sempre pronta a macinare poligoni. Tutto questo spiega in che modo la mia affermazione si sia di fatto avverata, ciò nonostante il gap che paventavo è stato creato in parte proprio dalla stessa Nintendo, ma questo perchè il coraggio di Iwata è sorprendente e Miyamoto è il primo pilota di un caccia Zero a sopravvivere dopo un attacco kamikaze.

Una donna col volto rigato dalle lacrime: ecco il manifesto di David Cage per Heavy Rain, titolo Quantic Dream che dovrebbe assurgere a prova definitiva delle capacità dei videogiochi di trattare e suscitare un vasto spettro di emozioni. Come prevedi saranno concretizzate le dichiarazioni d’intenti della compagnia francese? Si avvicinerà al massiccio uso di cinematiche come Kojima insegna, si tradurrà in un perfetto esempio di motion capture o tirerà fuori dal cilindro un gameplay inedito e sconvolgente per gli attuali stilemi?

Ho avuto la fortuna di vedere il gioco all’E3 e la sfortuna di non averne potuto parlare fino alla presentazione ufficiale di Lipsia. Che dire? Io adoro David Cage, è il solo che ha portato avanti il concetto di videogioco visto in Shenmue, perfezionandolo, snellendolo, spostando l’ago della bilancia verso un approccio più cinematografico e senza dubbio più digeribile. Omikron ne è la genesi, un titolo eccezionale, Farhenheit però era molto più complesso e a tre quarti di gioco è stato necessario un taglio di intenti; in parole povere con Heavy Rain, per la prima volta, la Quantic Dream ha la possibilità di lavorare a un prodotto ad altissimo budget e sopratutto senza fretta.
Penso sia lampante il modo in cui lo stile di David Cage differisca da quello di Kojima, ne è praticamente l’opposto. In Heavy Rain si gioca in prima persona ogni piccolo momento mentre nelle opere di Kojima, sopratutto quelle col numero pari nel titolo, si agisce su ben altre leve emotive.
Concedo molta importanza a questo titolo e penso seriamente che sia il vero asso nella manica di Sony – ci sconvolgerà? Senza dubbio. E mi sento anche di rilanciare! Nascerà un trend poiché quel gameplay si adatta ad ogni storia ma sopratutto a tante opere interattive minori, come per esempio Tale of Tales, Cage dà voce a un sentimento comune a molti, quel che serve sono sceneggiatori con le palle e nei videogiochi, porca miseria, ce ne sono davvero pochi.

Hai dei progetti futuri (ovviamente segretissimi) cui vuoi renderci partecipi?

Penso di riportare a breve la Gioconda in Italia, riconquistare la Corsica, liberalizzare le droghe leggere e finire The Witcher.

Socialità e videogames

Questo post nasce dalla convinzione che le relazioni sociali abbiano un ruolo fondamentale nel determinare la nostra “dieta videoludica”; non ci si può, tuttavia, limitare a tale prima constatazione. Le riflessioni in materia potrebbero spaziare tra gli ambiti più diversi: in questa sede ne proporrò alcune che, con il beneficio d’inventario, potrebbero fornire spunti e approfondimenti a chi voglia cimentarsi nell’affrontare la tematica.

I profili dei videogamers sono quanto di più difficile da tracciare ci sia; le distinzioni fatte sin’ora sono piuttosto grossolane e, pur utili per orientare un discorso, non esauriscono affatto il tema delle motivazioni che spingono a videogiocare. Per un casual gamer potrebbe essere dominante la voglia di evasione, per un hardcore gamer la sfida e per un “conscious gamer” apprezzare il videoludo come arte; c’è però un aspetto fondamentale, comune ai videogiocatori, che “detta il tempo” che dedicano alla loro passione: la socialità.
Urge ovviamente un pronto chiarimento sul senso da attribuire al termine in questa sede. Partiamo proponendone un’accezione provvisoria e limitata definendola come: “la relazione sociale che spinge due o più potenziali videogiocatori a interessarsi al giocare un certo titolo”.
Mi sto riferendo a tutte quelle volte che veniamo influenzati nell’iniziare un gioco da un discorso con gli amici, da tutte le volte che sentiamo parlare di un videogame su un forum, su una chat, e magari più spesso un domani sulla tv e sui libri. La necessità di condivisione dell’esperienza ludica (anche solo potenziale, ipotizzata) alimenta i discorsi e le narrazioni sui videogame che a loro volta determinano in modo forte l’attrattiva che un certo titolo ha per gli “attori” di questa relazione e il tempo che gli dedicheranno.

L’hype generato sui titoli più importanti fa leva su questi discorsi con diversi strumenti di marketing. La rinnovata attenzione a ciò che le community di videogiocatori dicono sui titoli in uscita e su quelli già pubblicati testimonia la rilevanza di quest’aspetto (anche alla luce del fatto che molti titoli vendono sull’effetto della long tail, in questo senso sono prodotti piuttosto atipici).
Ma, tralasciando le implicazioni commerciali di queste considerazioni, mi pare molto interessante sottolineare come il videogame sia fortemente influenzato dalle relazioni sociali che ne attivano un “utilizzo” maggiore. Questo fenomeno interessa ovviamente tutti gli artefatti culturali e più in generale le forme espressive ma, a mio avviso, nei vg non solo ha una portata particolare, ma ha delle conseguenze assolutamente rilevanti se pensiamo alla dimensione che ha assunto negli ultimi tempi.

Di seguito cerco di sintetizzare sia i motivi di questa rilevanza sia alcune caratteristiche della stessa:

i vg sono artefatti desinati e fruiti in larga misura dai cosiddetti nativi digitali, inseriti dunque in un contesto relazionale fino a 10 anni fa sconosciuto: internet,

la continuità tra la natura digitale del medium videoludico e il contesto relazionale in cui spesso si attivano le discussioni (il web) favorisce e rende particolarmente coerenti e rilevanti gli effetti della socialità che attivano

il medium videoludico non ha un riconoscimento culturale e artistico, solo la socialità che attiva ne “autorizza” una fruizione massiva

il videogame non solo è un medium “performativo” ma gli utenti definiscono in modo forte la natura e il senso della performance; le relazioni che gli stessi hanno tra loro, quindi, determinano non solo quanto utilizzeranno i videogame o quanto saranno loro legati ma anche come li utilizzeranno (per approfondire)

I primi due punti individuano due elementi di contesto, il terzo indica uno dei motivi per cui le relazioni sociali hanno un effetto così “autorizzante” la pratica videoludica e l’ultimo mette in evidenza una peculiarità assolutamente rilevante del medium: la socialità è funzionale tanto alla condivisione quanto alla produzione di contenuti.

Inutile dire che la questione necessita di un ulteriore approfondimento, magari più focalizzato sui singoli aspetti emersi da queste considerazioni “esplorative”, ma questo può essere un buon inizio.
Voi cosa ne pensate? Quante volte siete stati spinti al giocare (o rigiocare) un titolo perché avete visto qualche discussione in merito, o perchè ve ne hanno parlato condividendo con voi le sensazioni che suscitava? Allo stesso modo: quanti periodi di inattività dai videogame sono stati influenzati da un contesto sociale poco stimolante?

Mi piacerebbe sentire la vostra, magari anche su un singolo aspetto che vi ha incuriosito particolarmente : )

Wik and the Fable of Souls

Per la serie “ecco un altro di quei dannatissimi casual game intrippanti”. Wik and the Fable of Souls è un titolo molto semplice, con un periodo di demo di 120 minuti (poi va comprato), in cui il protagonista, evidentemente figlio di un’unione tra una rana e un elfo, si muove per la foresta alla ricerca dei piccoli Grubs da affidare al pacifico Slothum prima che questi abbandoni il livello. Un po’ platform e molto puzzle, il titolo dei Reflexive Entertainment merita almeno una fugace occhiata.

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