È da qualche anno che ho adottato un rigoroso piano di letture che alterna un libro di narrativa ad un saggio.
Mi sono auto imposto questa norma di igiene culturale perché ho realizzato che imparare cose, quando non è un’istituzione che ti ci obbliga, è una figata, specie se si tratta di scienza; e poi mi permette di essere infinitamente più preparato nelle discussioni rispetto a voi altri peracottari dell’internet che campate di Wikipedia nel tempo che intercorre tra una risposta e l’altra nei dibattiti sui forum.
Sostanzialmente, grazie alle mie letture, posso permettermi di essere aggressivo e supponente anche nella vita di tutti i giorni, snocciolando al tavolo di una birreria informazioni incomplete e distorte dalla mia scadente memoria, tratte da libri di mera divulgazione.
Mica che leggo testi specializzati, che vi credevate?
I saggi scientifici sono quelli che apprezzo di più, la scienza è fatta di certezza (ma anche no), pertanto qualsiasi informazione riesca, per grazia divina, a mandare a memoria, è ammantata della sicumera e dell’incontestabilità che solo il metodo scientifico può infondere.
Amo alla follia tutti gli argomenti in grado di porre drasticamente fine alle discussioni degli studenti fuorisede di filosofia, degli attivisti politici e dei vegani.
L’ombra di terrore che puoi leggere nei loro sguardi quando proferisci le parole “esperimento”, “dati alla mano”, “ricercatori dell’università del Michigan”, è in grado di ripagarti ben oltre quei 16 euro spesi alla Feltrinelli.
Questo e il fatto che con una copia di David Foster Wallace sotto braccio, di questi tempi, a Milano, non si rimorchia più. Quindi tanto vale spendere la metà del proprio tempo sul gabinetto tentando di farsi una cultura vera, relegando solo l’altra metà a tutta quella letteratura che potrebbe salvarci la vita in un salotto della sinistra borghese promotrice dei diritti umani e del governo di Israele.
Capito così, grazie a quella santa donna della mia ragazza, sull’interessantissimo saggio di Gary Marcus, Kluge, che spiega brillantemente, e con riferimento a numerosissimi esperimenti, come il nostro cervello, in quanto frutto dell’evoluzione, sia una stratificazione di sistemi che poggiano sul sistema più anziano (il sistema “riflesso”, che è prioritario), che essendo ovviamente lì da parecchio prima, si è conformato per rispondere rapidamente alle necessità di un animale costantemente in pericolo di sopravvivenza, piuttosto che a quelle di un pendolare del Friuli.
Nonostante siamo in grado, in molti casi, di affidarci consapevolmente al sistema deliberativo razionale, pare sia estremamente facile mettere in crisi tutta la baracca e fare in modo che sia l’apparato riflesso a prendere il sopravvento, portandoci a prendere decisioni illogiche. Queste e altre cose interessantissime che dovrebbero venire insegnate in tutti i licei al posto di poemi in endecasillabi, paraculi e inutilmente lunghi.
E i videogiochi in tutto questo?
Solo poco accennati ma, e qui viene la parte in cui gongolo, quello che ne viene detto conferma parte delle intuizioni che scrissi in un articolo qua su Ars Ludica.
<(…) il nostro attuale stile di vita è caratterizzato dall’abbondanza di quelli che gli psicologi definiscono “stimoli ipernormali”, ovvero stimoli talmente perfetti da non trovare equivalenti nel mondo ordinario (…). I videogiochi ne sono un esempio perfetto: traiamo piacere dal senso di padronanza che ci offrono, e ci affascinano nella misura in cui possiamo riuscire nelle sfide che ci propongono, tant’è che nel momento stesso in cui non sperimentiamo alcun controllo potenziale, il piacere scompare.
Un gioco in cui non abbiamo possibilità di vittoria non ci diverte, proprio perché non ci permette di assumere il controllo della situazione, di dimostrare la nostra maestria. Ogni nuovo livello al quale giungiamo è congegnato in modo da intensificare l’eccitazione. I videogiochi non sono semplicemente una questione di controllo, ma un distillato di controllo: variazioni ipernormali del processo naturale di ricompensa per l’acquisizione di nuove abilità, strutturate in modo da trasmettere sempre più velocemente le emozioni positive associate al controllo.
Se i videogiochi (che vale la pena ricordare, sono prodotti da un’industria il cui fatturato ammonta a miliardi di dollari ogni anno) conquistano i favori del pubblico, al punto da essere considerati più divertenti della vita stessa (e al diavolo i geni!), è proprio perché sono stati congegnati per approfittare dell’intrinseca imprecisione del nostro meccanismo di ricerca del piacere. [nota: Thompson 2007]>
Siamo quindi tutti schiavi del piacere, non è una novità, vale per i videogiochi come per i film e la musica: ci sono parecchie teorie a riguardo, ma l’unica convincente è quella che definisce il nostro cervello come un accrocchio di apparati facili da bypassare o da mandare in tilt.
E voi direte “se era per copiare quattro righe da un libro ci potevi risparmiare il cappello introduttivo sulla vita tua”, avete ragione, ma siccome l’Anelli dice che sono volgare quando racconto i fattacci miei non posso esimermi dal continuare ad esserlo, altrimenti poi lui ci rimane male.
La citazione è tratta dal libro “Kluge” di Gary Marcus, edizioni Codice, pagg. 148-149.
Questo articolo è stato scritto ascoltando:
Animals as Leaders – Animals as Leaders (2009)
Sono molto più portato a credere che sia un Gary Kluge quello che sta esternando le sue frustrazioni in ambito di controllo: includendo i videogiochi nella sua teoria e “controllandoli” così, su due piedi, in one feel swoop.
In secondo luogo, se è proprio necessario imbastire queste forme di categorizzazione così semplici, allora posso pensare che il videogioco, come molte altre cose, e nella sua forma più superficiale, è nè più nè meno una forma di evasione e distrazione da una realtà che effettivamente ogni possiamo sentire di non riuscire a controllare o sopportare. Ma da qui a convincerci di star sublimando questo controllo in altri modi, credo che ce ne corra.
Beh ci sono numerosi esperimenti, fatti su gruppi di soggetti eterogenei, che hanno svelato quanto sia importante la meccanica del controllo per il nostro cervello ancestrale, e come questa incida sui centri del piacere.
Poi oh, c’è anche gente che dice che siamo macchine perfette frutto della mano di un ingegnere onnisciente che passa gran parte del suo tempo su una nuvola a spiarci.
Sei libero di scegliere quale analisi della realtà che ti circonda ti soddisfa di più 🙂
Ho già letto di teorie molto simili a quella presentata da Markus, anche se il suo ragionamento, da come lo hai sinteticamente descritto nell’introduzione, sembra
sviluppato in modo abbastanza originale, nonché “scientifico”.
Se interessa a qualcuno c’è anche un libro – che io personalmente ho adorato – di un famoso neuroscienziato statunitense, Steven Johnson, intitolato “Tutto quello che fa male ti fa bene”, edito da Mondadori, che attraverso uno stile divulgativo, accattivante ma mai banale, argomenta la tesi per cui media come videogames, cinema e serie tv, proponendo sfide e stimoli sempre più complessi finiscono per migliorare alcune specifiche capacità cerebrali del “consumatore”. Gli esperimenti e le dimostrazioni, anche qui, non mancano, e la sezione dedicata ai videogiochi, seppur meno corposa di altre, è comunque ricchissima di spunti e ben approfondita.