[Retrospec] L’Avventura secondo Westwood – parte III

[alla seconda parte]

The Legend of Kyrandia – Book Two: The Hand of Fate | PC MS-DOS: 1993 / PC CD-ROM: 1994

kyra2_1Più che del seguito, questo secondo “libro” della saga di Kyrandia ha il sapore dello spin-off: pochissimi gli accenni alle vicende passate, e l’unico raccordo dato dalla ricomparsa di alcuni personaggi e segnatamente della protagonista, l’alchimista Zanthia. L’introduzione preannuncia oltretutto una decisa (e sempre più marcata, fino agli estremi farseschi del terzo episodio) virata verso il demenziale e il paradossale: una nuova emergenza minaccia la terra di Kyrandia nella forma della sua progressiva sparizione, del lento e graduale collasso del suo stesso destino. I Mistici regali non sanno raccapezzarsi e si rassegnano ad accettare l’intervento dell’avventuriero Marko e del suo compagno, la Mano (letteralmente una mano guantata e semovente alta quasi quanto un uomo): con un entusiasmo giustificabile solo da una tacita ammissione di inettitudine accolgono il piano di quest’ultima, consistente nel recuperare un’ancora magica e di portarla al centro della terra. Senza che si muova un fiato la Mano sceglie per la missione proprio Zanthia, la più giovane e inesperta dei Mistici, che deve subito far fronte a un tentativo di sabotaggio: qualcuno ha messo a soqquadro il suo laboratorio nella palude, e qui inizia l’avventura anche per il giocatore.

The Hand of Fate riprende le caratteristiche fondamentali dell’episodio precedente, limandone alcune asperità: l’interfaccia è sempre costituita dal punta e clicca ai minimi termini che avevamo già descritto, ma gli ambienti ora sono decisamente meno dispersivi e più consoni allo standard già consolidato nel genere (la palude, sezione iniziale del gioco e decisamente la più intricata, non fa affatto sentire il bisogno di disegnare una mappa), la capienza dell’inventario ha subito un salutare raddoppio (nelle immagini si vedono solo dieci spazi ma è possibile scorrerli), la possibilità di sprecare gli oggetti è persino maggiore ma si ha sempre modo di recuperarli, esiste una pur rara necessità di combinare due oggetti in inventario (inesistente nel primo episodio) e le sequenze di morte, finale a parte, sono così telefonate da fare quasi da easter egg. Del resto la protagonista si mostra fin da subito ben più perentoria e adattabile (con tanto di cambi d’abito a tema con uno schiocco di dita) del volenteroso ma ingenuo Brandon, che si lasciava divorare dallo stesso mostro paludoso a cui Zanthia annoda la lingua con ramanzina al seguito.

kyra2_2La novità più importante, al di là dei perfezionamenti di design e dal brusco cambio di atmosfera – accentuato, peraltro, dal fatto che grossa parte dell’avventura consiste in trasferte fuori dalle terre di Kyrandia – sta nelle capacità della protagonista: ben presto avremo modo di mettere mano agli oggetti più importanti dell’avventura, il libro delle pozioni (ancorché mutilato e depositario soltanto di formule poco appariscenti) e il paiolo da viaggio. Il grosso degli enigmi del gioco, infatti, richiede la preparazione della pozione più adatta alla situazione e si riassume nel recupero degli ingredienti, da trascinare poi nel paiolo: alla riuscita della ricetta corrisponde il cambio di colore della base acquosa, e a quel punto non c’è che da riempire le ampolle. Il sistema, visto fra l’altro che gli ingredienti nel paiolo scompaiono e non possono esserne tirati fuori, fa sì che sia sempre in agguato l’errore; ma ovviano al problema la già accennata possibilità di recuperare sempre tutto e la dotazione del paiolo di uno sciacquone (bisogna letteralmente tirare la catenella!) che fa da pratico reset.
Subito si nota come la manipolazione degli oggetti si sia fatta nettamente più elastica e che ci siano diversi modi, tutti rispondenti a plausibilità, di procurarsi un ingrediente: la richiesta nella prima ricetta di acqua calda, per esempio, può essere soddisfatta riempiendo un’ampolla direttamente dal paiolo o da qualunque altra sorgente d’acqua nell’ambiente e usandola con una qualsiasi delle fonti di calore disponibili, dalla candela insettifuga del saggio dei rospi (!) al braciere nel laboratorio di Zanthia.

kyra2_3Un’altra caratteristica del precedente episodio, l’ammassamento di luoghi e situazioni in maniera aleatoria, non solo viene mantenuta ma viene anzi portata al limite, in conformità alla svolta demenzial-fiabesca (più in stile Coktel – si veda la saga di Gobliiins – che non LucasArts, lo ribadiamo) che diventa così una fonte continua di diletto. Le pozioni stesse sembrano talvolta quasi una presa in giro, specialmente la Sandwich Potion che crea due panini imbottiti a partire dal miscuglio delle materie prime (formaggio, grano, insalata, ecc.) o la Skeptic Potion, necessaria a liberare gli abitanti della zona del porto dalla catatonia, ottenuta unendo ogni sorta di simboli scaramantici con tanto di consacrazione presso un altare. Non mancano sibillinità e giochi di parole per quanto concerne gli ingredienti (un semplice fungo non soddisfa la richiesta di un “toadstool”…) e la sperimentazione, già incoraggiata di per sé, viene lautamente premiata. L’esempio più eclatante, sfuggito a diversi giocatori, è quello della bacchetta alchemica: la sua proprietà di trasformare il metallo vile in oro e viceversa, infatti, fa sì che se usata sugli esseri senzienti possa estrarne la “golden truth”, equivalente d’Albione della nostra “pura verità”; ed esprimendo ciò che pensano intimamente forniranno molti indizi utili al proseguimento. Non mancano del resto gag metareferenziali (la ricomparsa a più riprese e nei luoghi più impensati del bastone di legno, ovviamente sempre utilissimo) e incontri bizzarri, da armature vuote parlanti a marinai che riforniscono di mostarda una tribù di cannibali passando per yeti galanti, alberi paurosi, agenzie di viaggio che offrono pacchetti per giungere sulla cima di un vulcano (le cui richieste sono molto tediose e oltretutto completamente aggirabili, decisamente una falsa nota nell’insieme del gioco) e dinosauri di origine minerale dentro il vulcano stesso. La trama si concede persino un’inversione, seppure non certo difficile da indovinare, laddove si scopre che la Mano è la sinistra di un diabolico arcimago smembrato eoni addietro, che il piano dell’ancora non farebbe che accelerare la fine di Kyrandia e che anche il dissolvimento di quest’ultima è una sua responsabilità, avendone sabotato gli ingranaggi nelle Stanze del Fato: proprio qui si svolge il bizzarro ma un po’ frettoloso finale, che comprende un enigma quasi degno di Myst (la celebre torre di Hanoi inversa) e uno scontro finale al sapore di laser game, visto come richiede di cliccare gli elementi giusti con tempismo per spacciare la Mano e ricongiugersi a Marko, personaggio che dà ampia prova di semplicioneria ma con cui una Zanthia in tenuta militare troverà tuttavia l’amore.

The Hand of Fate, per design e direzione artistica (forse meno austera e ricercata rispetto al primo episodio, ma decisamente più interessante) si rivela complessivamente l’episodio migliore della saga, e uno dei maggiori traguardi della concezione avventurosa di Westwood che qui arriva a una piena maturazione – coincidente, è bene sottolinearlo, con il sempre maggiore assottigliamento degli elementi ruolistici nell’ottica di una maggiore ricerca della semplicità di interazione ed elasticità di gioco. Westwood con questo titolo cambia definitivamente pelle, e il risultato è decisamente apprezzabile.
La chiusura della saga si avrà col terzo capitolo; con un nuovo cambio di protagonista, nuovi motivi di interesse e, a parere di chi scrive, anche qualche motivo di perplessità. Ma per questo rimandiamo alla prossima parte.

[continua]

OnLive: The Future of Video Games?

Lo ammetto: pur non essendo una novità che illustri personalità dell’industria videoludica si siano sbilanciate nell’illustrare un futuro privo di console war e caratterizzato da servizi avanzati di digital delivery, mai avrei pensato, prima di leggere la notizia postata dal nostro prode Matteo Anelli nel forum di Ars Ludica, che un progetto di tal sorta fosse in un così avanzato stato di sviluppo (tanto da essere ufficialmente presentato alla Game Developers Conference di San Francisco, che si chiude proprio oggi). Il progetto cui faccio riferimento si chiama OnLive, e verrà commercializzato nel mercato USA quest’inverno (già da quest’estate, comunque, i cittadini statunitensi potranno provarne una beta).

La natura e il funzionamento del servizio appaiono semplicissimi: permettere all’utenza di giocare a qualsiasi titolo semplicemente connettendosi a Internet (attraverso un plugin per browser se su PC o Mac, oppure mediante l’apposita MicroConsole da collegare ad un TV). Come avveniva negli scenari a divisione di tempo dei grandi calcolatori mainframe di trent’anni fa, gli apparecchi sui quali si gioca sono dei semplici terminali di un software che viene eseguito in remoto da appositi server. Questo significa che persino configurazioni entry-level, o per l’appunto semplici televisori, sono sufficienti per gustarsi prodotti del calibro di Bioshock, Unreal Tournament 3, GRiD, F.E.A.R. 2 e via discorrendo.

I produttori promettono un’interazione realistica, l’assenza di tempi morti (neppure per il download!) e la massima resa tecnologica dei videogiochi offerti: non si può che rimanere inebriati dinnanzi alle potenzialità di simili caratteristiche, se solo si pensa al fatto che per accedere a tutto ciò potrebbe bastare una comune connessione a 1.5 megabit al secondo (5 se si desidera una risoluzione 720p): le applicazioni con interazione in tempo reale richiedono un flusso dati costante, con latenze contenute e stabili nel tempo, affinché le prestazioni siano soddisfacenti per l’operatore umano (ad esempio, in una conversazione telefonica, lag fino ai 400 millisecondi, sebbene percepiti, possono ancora risultare sopportabili per gli operatori umani, ma per preservare il senso di istantaneità bisogna per forza di cosa scendere al di sotto dei 150 millisecondi); il problema è che l’infrastruttura su cui poggia OnLive è Internet, concepita con una filosofia antipodale rispetto alla cura per la consegna del pacchetto dati entro strettissimi vincoli temporali, per cui è sufficiente un solo collegamento congestionato nel tragitto giocatore – server (e ritorno) per far decadere sensibilmente la qualità del servizio. E se consideriamo che le latenze ottimali di una DSL sono di circa 100 ms, allora capiamo le proporzioni della sfida.

La curiosità di vedere il sistema in azione, dunque, coinvolge molteplici aspetti che solo la release definitiva potrà soddisfare. La portata di OnLive è immensa, perché se l’operazione dovesse tradursi in un ampio successo ci troveremmo dinanzi alla ridefinizione del concetto stesso di fruizione dell’opera videoludica, balzando in una nuova era.

Fallout: breve commento al filmato introduttivo

Il minuto e mezzo iniziale del video introduttivo del primo Fallout è un capolavoro di sintesi che dovrebbe essere studiato da chi nei videogiochi realizza filmati di ore per raccontare il nulla. In poche immagini e in una sola inquadratura viene descritto alla perfezione il mondo di gioco, con la zoomata analogica che apre dal particolare del televisore all’ambiente circostante, in un ellissi di senso magistrale quanto efficace, trasformando di fatto l’intera sequenza in un piano sequenza. C’è tutto: si inizia con una trasmissione di stato fatta per spargere ottimismo e per dare un senso di sicurezza, con tanto di pubblicità dei Vault antiatomici e personaggi sorridenti che ci entrano. La pellicola mostra i segni del tempo e lascia presagire che qualcosa è successo. L’immagine è disturbata e si capisce che stiamo assistendo a un vecchio filmato, vecchiezza sottolineata anche dall’uso del bianco e nero. Dopo qualche secondo in cui si avvicendano brevi sequenze, le quali fanno intendere che c’è (stata) una guerra, sull’inquadratura dal basso di una figura vestita da un’armatura futuristica, alle cui spalle sventola una bandiera, inizia la zoomata e ci si rende conto che si sta osservando un vecchio televisore.

La zoomata prosegue e si allarga ancora, mostrando il mondo circostante. Il televisore è posto all’interno di un appartamento in rovina di una città completamente distrutta, con i colori del cielo (giallo/violaceo) immediatamente associabili a quelli di un disastro nucleare. Il contrasto tra le macerie e il senso di sicurezza e di controllo della situazione propagandato dalla trasmissione è immediato. L’ironia dell’intera scena, accentuata dalla musica di sottofondo (un motivetto d’amore dedicato alla solitudine), dà immediatamente al fruitore l’idea generale di quello che è successo. La seconda parte dell’introduzione descrive in modo più diffuso gli accadimenti storici che hanno condotto il mondo allo sfacelo, sfruttando finte foto d’epoca e lasciando la descrizione dei fatti a una voce narrante. Nulla viene svelato sulla trama del gioco, eppure viene svelato moltissimo. Dopo la creazione del personaggio ci si trova in un Vault e, pur non avendo compiuto alcun passo, si è già coscienti del mondo che si dovrà affrontare e di cosa è successo “prima”, ovvero il filmato ha svolto egregiamente l’opera di contestualizzazione che spesso manca anche in produzioni molto ricche, le quali magari si affidano a filmati pomposissimi e pieni di effetti speciali per creare delle cartoline, utili soltanto a illustrare la ricchezza della produzione più che a introdurre il videogiocatore nell’universo ludico che si sta preparando ad affrontare.

Bloody Fun Day

Ormai sto a ruota nel proporvi un gioco in flash a settimana (tanto il sabato che dovete fare? Siete videogiocatori, quindi niente sesso e niente vita sociale; torniamo ai cari vecchi valori di una volta, quando l’unica compagnia che si aveva davanti al PC erano i brufoli). Bloody Fun Day è uno strategico molto semplice che consiste nel… ma perché invece di far faticare me nel dover descrivere il gioco non premete il tastino play e ve lo vedete da soli? Grazie per la collaborazione!


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Dynasty Warriors 5: Empires

Sviluppato da Omega Force | Pubblicato da Koei|
Piattaforme X360, Xbox, PS2 | Rilasciato nel Settembre 2005, 2006 (X360)

Dynasty Warriors 5: Empires nasce come un ibrido tra Romance of the Three Kingdoms e Dynasty Warriors, con le meccaniche di entrambi i giochi notevolmente semplificate. La semplificazione ha permesso di ottenere un game design conciso, chiaro ed immediatamente comprensibile, senza limitare però la profondità di gioco.

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Le attività da svolgere in Empires si dividono in due fasi principali (che potevano essere presentate molto meglio), quella strategica dove si ha di fronte la mappa delle provincie cinesi e quella di combattimento, in tutto e per tutto un Dynasty Warriors Light. La fase strategica è divisa in due sotto-fasi, quella politica e quella bellica: nella prima si decidono i provvedimenti amministrativi da prendere per gestire provincie, ufficiali e tecnologia, nella seconda si decide se attaccare, difendersi o dare una mano ai propri alleati qualora ce la chiedano.

Empires rientra in una categoria mai troppo esplorata di strategici in cui in ogni turno il giocatore può compiere azioni solo entro un limite massimo. In Empires esse sono tutte rappresentate da un’opzione nel menù delle azioni che, in ultima analisi, si sintetizzano nel giocare una o più carte. L’intera gestione strategica di Empires si basa infatti sull’uso di carte (che hanno un costo in oro) da giocare durante il proprio turno. Il giocatore può scegliere se giocare una carta tra il pool di azioni e provvedimenti che conosce oppure delegare le azioni ad uno dei suoi generali. Come in ogni struttura gerarchica che si rispetti, ogni generale ha delle specialità che dipendono dal personaggio e dal ethos, inoltre i generali sono più efficienti del giocatore e possono giocare due carte per ogni azione. L’unico problema è che il giocatore non può entrare nel merito delle singole azioni scelte dal generale, ma solo approvarle entrambe. Questo crea una dinamica piuttosto interessante perché il giocatore, pressato dalla scarsità di azioni a sua disposizione lo è anche costantemente sullo scegliere autonomamente la politica da applicare oppure delegare a terzi per un risultato, nella maggior parte dei casi, solo sub-ottimale. Delegare ai generali è anche uno dei pochi modi per acquisire nuove carte (si imparano automaticamente la prima volta che un generale le usa) e quindi diversificare le strategie a nostra disposizione, che inizialmente sono veramente poche.

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Questo stringato sistema di gioco (che non sfigurerebbe affatto in un boardgame) costituisce l’intero sistema di gestione della politica interna. Ci sono carte buone, carte cattive e carte neutrali che influenzeranno l’ethos del regno e quindi l’attrattiva che esso genererà su generali cattivi e generali buoni. Anche la politica estera, l’upgrade delle strutture nelle provincie, la produzione di oggetti speciali e lo sviluppo economico e tecnologico (che influenza l’efficienza delle truppe in battaglia) si gestisce tramite apposite carte-editto. Le provincie sono gestite come in Romance of the Three Kingdoms: ogni provincia ha un contatore che definisce il livello di fortificazione, la produzione di oro e il numero di ufficiali che la sorvegliano. Tramite questi pochi elementi si gestisce l’intera situazione geopolitica della Cina.

Le sezioni di combattimento sono altrettanto semplificate: il sistema di gioco rimane quello di Dynasty Warriors ma con quasi nessun evento dinamico, e con la possibilità di comandare singolarmente tutte le unità in campo (piuttosto che rimanere in balia dei loro spostamenti) rendendo molto più semplice la conquista di fortezze ed obiettivi strategici. Solitamente i combattimenti finiscono se uno dei due comandanti viene ucciso in battaglia o se l’obiettivo principale dell’avversario viene conquistato. Ogni provincia ha una mappa predefinita ma l’entità delle fortificazioni e la loro natura varierà in base al livello di sviluppo della stessa. Come al solito ogni combattimento porta punti esperienza a tutti gli ufficiali partecipanti. L’unica grande limitazione è che l’upgrade delle armi con attributi ed abilità speciali è possibile solo per il generale che il giocatore ha impersonato durante la battaglia. Se si trascura questo elemento si corre il rischio di sprecare moltissimi upgrade e di avere molti generali sì di alto livello, ma senza alcun bonus sull’equipaggiamento, il che nel medio-lungo termine vuol dire sconfitta automatica in battaglia.

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Poiché il giocatore può prendere parte ad un solo scontro per turno di gioco è fondamentale avere una forza bilanciata e ben equipaggiata, visto che non sempre sarà possibile controllare direttamente lo svolgimento delle battaglie. Anche se si impersona un generale, vincere un conflitto con ufficiali poco equipaggiati spesso è molto arduo e frustrante: anche se si gode di una superiorità numerica schiacciante i bonus applicati alle armi fanno moltissima differenza sull’esito dei duelli contro gli ufficiali avversari.

Il combattimento però non è finalizzato solo alla conquista: esso porta prestigio e permette di arruolare gli ufficiali che durante la battaglia abbiamo costretto ad arrendersi (e quindi catturato). Per fare arrendere un generale o un ufficiale è necessario sconfiggerlo più volte sul campo, sino a che il suo morale crollerà e si arrenderà a noi. Inizialmente questa modalità è l’unica che permette di accrescere il proprio parco ufficiali: le azioni di arruolamento effettuate da noi o dai nostri delegati saranno molto poco efficaci, in quanto ognuno dei 250 ufficiali disponibili esige non solo soldi ma anche una combinazione di oggetti speciali craftabili, molti dei quali saranno disponibili solo a scenario inoltrato.

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Il gioco prevede diversi scenari storici che seguono le vicende geopolitiche dell’era dei Tre Regni e uno scenario libero in cui sarà possibile usare tutti i personaggi indipendentemente dell’era in cui appaiono storicamente. Il replay value è molto alto perché ogni ufficiale ha caratteristiche specifiche e soffre di difficoltà diverse, le campagne sono molto configurabili ed è persino possibile generare un personaggio customizzato in maniera molto simile a come avviene in Soul Calibur (si personalizza il personaggio e poi si decide un’arma e uno stile di lotta tra quelli disponibili e sbloccati). La durata media di una campagna, dopo le prime sonore batoste, si aggira tra le cinque e le dieci ore. Gli scenari vanno inizialmente giocati in sequenza: ciò ha un senso perché le campagne successive incrementano la difficoltà rispetto alle precedenti ed il giocatore può beneficiare dell’esperienza precedentemente accumulata. Sbloccare tutti gli oggetti, gli ufficiali e tutte le azioni disponibili non è cosa semplicissima e richiede più replay, anche perché tutto dipende anche dai territori in nostro possesso (alcuni oggetti possono essere prodotti solo da determinate province ad esempio) e dalla linea di condotta che abbiamo nei confronti del regno. Le carte nere (quelle da cattivo) difficilmente saranno disponibili se giochiamo con una politica benevola.

Paradossalmente, il punto debole di Empires sono proprio le battaglie giocate. Sarebbe stato carino avere avuto solo una supervisione di alto livello degli scontri, limitandone la durata e la ripetitività. L’idea che molti upgrade possano andare persi solo perché non sono utili al personaggio impersonato nella battaglia è un po’ stupida: in questo modo, almeno inizialmente, si obbliga l’utente ad essere coinvolto in scontri dall’esito difficilmente prevedibile e frustrante (specie se si devono upgradare ufficiali con statistiche non proprio bilanciate) solo per garantire che ognuno dei generali di punta del nostro esercito abbiano l’equip giusto, pena trovarsi del tutto sguarniti e prendere una mazzata dietro l’altra dall’ottima AI nel mid e late game.

Una grande nota positiva invece la guadagna il sistema di gestione strategico e politico, aiutato da un’AI competente e da una diplomazia molto più credibile e pragmatica di quella che anni di sistemi basati sul do ut des alla Civilization ci hanno abituato. Verrebbe quasi la voglia di avere un gioco con supporto multiplayer basato solamente su di esso, che non fa affatto rimpiangere la complessità ed il tedio dell’intero sistema strategico di Romance of the Three Kingdoms.

[Retrospec] L’Avventura secondo Westwood – parte II

[alla prima parte]

Lands of Lore: The Throne of Chaos | PC MS-DOS, NEC PC-9801: 1993/PC CD-ROM: 1994, 1996 (edizione speciale “White Label”)

La vulgata vuole che il progetto Lands of Lore sia nato come una sorta di risposta da parte di Westwood allo smacco di non essersi vista commissionare il terzo episodio di Eye of the Beholder. Comunque siano andate le cose, dal risultato finito traspare chiaramente come la casa abbia voluto approfittare dell’occasione per proporre una deviazione del genere RPG verso una declinazione sempre più leggera nella gestione e vicina al concetto di gioco di avventura in senso lato, in ciò decisamente più coadiuvata che danneggiata dal fatto di non poter più ricorrere alle basi di AD&D, che costituivano l’ossatura della saga abbandonata. Westwood fu tra le iniziatrici di questa tendenza di cui, a tutt’oggi, cogliamo i frutti (ahimè, non sempre dolci), anticipata di un annetto scarso dalla Origin con Ultima VII: The Black Gate, celebre oltre che per le elevatissime qualità ludiche intrinseche anche per tutta una serie di snellimenti nell’interazione (il cui ulteriore sviluppo vedremo nel non meno straordinario Ultima VIII: Pagan, tacciato tuttavia da molti fan della serie di costituirne persino una deriva arcade).

lol1_1L’ambientazione è tutta nuova e, invero, non certo più spessa dei Forgotten Realms dei predecessori: il regno di Gladstone e i paesi limitrofi (che rientrano nella semplice definizione di “The Lands”, le Terre) in effetti si segnalano giusto per la particolarità delle razze civili non umane. Eliminate le derivazioni tolkieniane in forma di elfi, nani e mezz’uomini di varia fatta ci imbatteremo, oltre agli umani, nei meditativi Draconidi, nei combattivi Huline (una sorta di uomini-gatto), nei Thomgog dalla pelle spessa e con quattro braccia; e in razze meno diffuse quali i Gorkha delle paludi. La trama, abbastanza ramificata ma essenziale nei fondamenti, vede il regno di Gladstone minacciato dalla strega Scotia, entrata in possesso dell’anello noto come Nether Mask, che le conferisce formidabili poteri di trasmutazione e la cui disfatta costituisce la quest principale. Quest’ultima si articolerà inoltre nel salvataggio del Re Richard, che inizialmente ci affida la missione, dall’avvelenamento a opera di Scotia passando per il recupero dei rarissimi ingredienti dell’antidoto, e nel recupero del Ruby of Truth, anello regale capace di contrastare la Nether Mask.

La prima avvisaglia dello snellimento compiuto si manifesta proprio alla schermata iniziale, nella quale siamo chiamati a scegliere il nostro alter ego tra quattro personaggi già pronti e con attitudini marcate, indicate da tre soli parametri: forza, difesa e magia. Le scelte sono il guerriero Michael, il draconide versato nella magia Ak’shel, il rapido huline Kieran, manchevole in tutti e tre i parametri principali ma che spicca in quello occulto della velocità (all’atto pratico, la pausa che intercorre tra un’azione di combattimento e l’altra) e il factotum Conrad. Nel giro iniziale per le stanze del castello di Gladstone, secondo i dettami del più classico movimento a caselle, abbiamo già modo di constatare la semplicità delle regole e dell’interfaccia: il personaggio, abbiamo detto, è definito da tre soli parametri numerici; nonostante la possibilità di reclutare compagni per via, fino a un party di tre elementi, l’inventario è unico e accessibile dalla schermata principale (a onor del vero, però, la rappresentazione in forma di una sola fila scrollabile di slot per gli oggetti lo rende alla lunga di difficile gestione, contando che deve ospitare anche tutte le armi da lancio disponibili) e non ci sono specificazioni di classe pur essendoci le classi stesse. Ogni personaggio dispone infatti di tre barre corrispondenti alle tre classi – guerriero, mago e ladro – con un’indicazione del livello raggiunto (1 per tutte e tre, inizialmente) che si accrescono man mano che performiamo azioni corrispondenti, secondo un sistema ad allenamento che ricorda quello di Dungeon Master: colpire i nemici accresce la barra del guerriero, flagellarli con incantesimi accresce quella del mago e bersagliarli con armi da lancio o da tiro accresce quella del ladro, classe cui è connessa anche l’abilità di scasso. Com’è ovvio, ad ogni riempimento di una delle barre corrisponde la relativa salita di livello. Ogni personaggio gode tuttavia di attitudini di partenza tali che il progresso in ciascuna classe dà luogo a incrementi disomogenei; così che, ad esempio, da un avanzamento nella classe del mago Conrad riceverà più benefici rispetto a Michael ma meno rispetto ad Ak’shel, che a sua volta non sarà un guerriero all’altezza dei primi due a parità di livelli acquisiti.

lol1_2Molto agile altresì la gestione della magia: basata sulla spesa di punti magia che si rigenerano col tempo, richiede di scegliere l’incantesimo da una pergamena comune a tutto il party e le cui voci aumentano in corso d’opera (inizialmente abbiamo solo il debole incantesimo offensivo Spark, cui segue a ruota una cura), dopodiché non resta che sceglierne il livello di potenza in una rosa da 1 a 4 (ancora Dungeon Master!), compatibilmente coi punti magia disponibili.
Il più notabile (e criticato) degli alleggerimenti si trova ben presto sotto forma di oggetto: un’automappa che tiene automaticamente traccia dei percorsi già esplorati. L’affidamento ai punti cardinali e a una risma di fogli quadrettati è, con questo titolo, per sempre alle spalle.

Quanto al resto, l’interazione avviene attraverso il click semplice e il drag & drop già tipico di Eye of the Beholder e di The Legend of Kyrandia e qui esteso anche alla compravendita (la schermata di un negozio richiede di cliccare sugli oggetti che ci interessano piuttosto che ricorrere ad asettici menu) e, analogamente a quanto accade in quest’ultimo, richiede che le peculiarità degli equipaggiamenti vadano scoperti attraverso la sperimentazione attiva: non che non sia indicato l’aumento di potenziale offensivo quando si imbraccia un’arma o la protezione offerta da un’armatura o da uno scudo, ma solo la prova sul campo ci dice che, per esempio, le apparentemente deboli spade di smeraldo sono ottime per combattere gli spettri, così come l’effetto degli incantesimi nuovi, di quelli inscritti su pergamene monouso e il cui apprendimento non è sempre possibile e di vari artefatti usa e getta che concedono attacchi speciali. Lo stesso metodo, e la cosa in effetti già risale in forma embrionale a Eye of the Beholder, è richiesto per combattere i nemici e particolarmente i saltuari boss: solo provando e sperimentando si può scoprire a che cosa sono più resistenti e a che cosa più deboli.

lol1_3L’azione tende a mantenere di fatto gli schemi di un classico dungeon crawler ma tenta un’operazione cosmetica di mascheramento tale per cui vedremo il passaggio da foreste a roccaforti passando per miniere, caverne e paludi sotterranee. Le transizioni da una fase all’altra passano per schermate animate, già utilizzate per le sequenze di interazione con altri personaggi (si vedano le locande e i negozi, che ricordano molto un’avventura grafica in soggettiva vecchio stile), che rappresentano navi in viaggio, imbocchi di caverne e cancelli spettrali da esorcizzare; ma nulla di tutto questo riesce a cancellare la sensazione di una mera progressione in livelli sostanzialmente non dissimile dalla discesa da un piano a quello inferiore tipica del dungeon crawler classico. Se c’è un elemento distintivo, di gameplay e non più solo di interfaccia, lo si ravvisa nell’enfasi data ai puzzle e alla scoperta di segreti: gran parte di ciò che ci è richiesto per proseguire passa per la pressione di pulsanti in sequenze corrette, l’azionamento di leve e pulegge di ogni sorta, lo sbloccaggio di aree segrete (gran parte dell’equipaggiamento migliore, in effetti, può essere mancato trovandosi in aree facoltative e spesso passa per combattimenti particolarmente difficili), il tutto affidandosi a messaggi sibillini e secondo la stessa logica aleatoria e orientata alla sperimentazione che a suo modo caratterizzava già Kyrandia. E le accuse di scarsa logicità e di inclinazione allo spaesamento, peraltro, non mancarono dalla critica d’epoca neppure per Lands of Lore; particolarmente per ciò che pertiene la famigerata White Tower, zeppa di combattimenti durissimi ma che diventano una passeggiata se conserviamo un oggetto specifico che è però possibile sprecare altrove senza che la necessità di trattenerlo risulti con una qualche pur blanda evidenza, e le fasi finali nel Castle Cimmeria – causa dell’arenamento ineluttabile di più di un giocatore. Si usò maggiore accomodanza giusto nella misura in cui erano ancora ritenute caratteristiche accettabili, se non perfino canoniche, all’interno del genere.
Inoltre la rosa di personaggi reclutabili denota scarsa elasticità: dopo gli avvicendamenti iniziali ci troveremo a usare gli stessi due compagni per buoni due terzi del gioco, il thomgog Baccata e il capo delle guardie reali Paulson, e nessuno dei due si dimostra particolarmente versato per la magia. Se non è il protagonista a metterci una pezza, bisogna rassegnarsi a farci poco affidamento.

Lands of Lore, da ottimo e giustamente elogiato titolo qual è, a posteriori resta sospeso tra novità e tradizione, tra una svolta avventurosa che era già nell’aria all’interno del genere e che Westwood teneva visibilmente a sviluppare e un assestamento nei binari del dungeon crawler classico da cui le scosse introdotte non riescono a scalzarlo; quasi frenate da un engine a caselle che proprio con questo titolo, con il progresso tecnologico che gli vorticava intorno (e che assume, tra l’altro, un nome piuttosto circostanziato: Ultima Underworld) e con le sue texture che da sole non riescono più a persuadere, se mai lo hanno fatto, che siamo in una foresta e non in un dungeon, inizia a mostrare i segni della vecchiaia.

Col seguito la svolta verso l’adventure sarà invece pienamente compiuta. Ma prima dovremo tornare a Kyrandia.

[continua]

[indie gamedev] Intervista a Petri Purho

Petri Purho è un simpatico studente finlandese che un bel giorno ha deciso di smettere di pensare di fare giochi e ha cominciato a realizzarli per davvero, abbracciando la filosofia dell'”experimental gameplay project” che consiste nel creare videogame entro un limite di sette giorni. Petri, autore di parecchi titoli il più noto dei quali è sicuramente Crayon Physics Deluxe, è così diventato un importante esponente della scena indie, spesso vera fucina di idee fresche e originali. Conosciamolo meglio, dunque.

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Ciao Petri. Comincia col raccontarci qualcosa di te.

Mi chiamo Petri Purho e sono uno sviluppatore indie di videogiochi (a dire il vero sono semplicemente disoccupato). Ho cominciato a realizzare giochi dopo aver visto Super Mario Bros, ma per i primi 15 anni i miei progetti sono rimasti inconclusi, si sono rivelati orribili e molto simili a Super Mario Bros.

Verso il 2006 ho preso la decisione di far qualcosa contro il fatto di non riuscire mai a portare a termine niente, e così ho fondato Kloonigames, un blog la cui idea di base era (ed è ancora) di rilasciare un gioco nuovo ogni mese.

Kloonigames è decollato molto bene e nel giugno del 2007 ho lavorato 5 giorni a un piccolo prototipo chiamato Crayon Physics; dopo il suo rilascio mi sono concentrato sulla versione Deluxe che è stata pubblicata nel gennaio di quest’anno.

Il tuo obiettivo consiste nel creare giochi su una base mensile per trovare nuove idee e nuovi gameplay. Come organizzi il processo di sviluppo?

Non sono una persona organizzata e perciò anche lo sviluppo tende a non esserlo. La realizzazione di ogni gioco che abbia creato è sempre stata un’esperienza unica. Qualche volta va tutto liscio ed è divertente, altre invece si rivela davvero dolorosa, altre ancora non succede niente, e infine talvolta il progetto subisce tante di quelle variazioni che per salvarlo ci metto semplicemente un po’ di umorismo scurrile.

Però sono un fissato per le scadenze, per cui per la maggior parte del tempo cincischio e quando mancano solo quattro giorni alla deadline mi concentro con tutte le mie forze e sforno il gioco. Questa tra l’altro è stata una delle ragioni per le quali ho messo in piedi Kloonigames, in modo tale da impormi una deadline pubblica che funzionasse da stimolo per lavorare.

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Quali strumenti usi più di frequente nei tuoi progetti?

Visual C++ 2005 per la programmazione, Photoshop per la grafica e Audacity per gli effetti sonori.

La tua ludografia mostra una grande eterogeneità estetica e meccanica: alcuni titoli rielaborano vecchi concept in un modo stiloso (come “Choke on my groundhog, YOU BASTARD ROBOTS“), altri sono più originali (mi riferisco a Crayon Physics). Il breve tempo di sviluppo rende molti di loro ancora incompleti: ti concentrerai ancora su di un progetto per ampliarlo o continuerai a sperimentare?

Al momento seguo due filoni principali. Uno è quello relativo ai giochi mensili, che è tutto imperniato sulla sperimentazione e sul divertimento. Nessuna pressione e totale libertà di fallire spettacolarmente. Lo sviluppo dei giochi non costa proprio nulla, e quindi posso rilasciarli senza preoccupazioni.

L’altro consiste nel lavorare su un titolo più grande, come ho fatto per Crayon Physics Deluxe, di solito basato su un concept che ha riscosso successo nella sua fase prototipa. Un progetto più importante mi permette di approfondire un concept e tentare di realizzare cose semplicemente impossibili a livello di prototipo.

Dunque mi concentrerò e amplierò alcune idee in futuro, ma in questo momento non so ancora quel che succederà.

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La tua storia suona come una conferma del fatto che per migliorare la qualità dei videogiochi la pratica è più importante di tonnellate di parole scritte e discusse da designer elitari. Sei apprezzato per questo tuo modo di fare e pensi di entrare nell’industria prossimamente?

Non ne ho idea. Mi piace lavorare liberamente come adesso, lo stile di vita indie sembra andarmi bene. Non so cosa rechi con sé il futuro, forse rimarrò fregato (in originale Petri ha usato un’espressione meno dolce, ndEmack) e allora vorrò ordine e burocrazia nel mio ambiente di lavoro così da voler entrare in uno studio da tripla A. Chi lo sa.

In generale credo vi sia troppa gente che parla, scrive e discute sulla cosa e troppe poche persone che si mettono a lavorarci. È più semplice analizzare, ed è per questo che, attratti dalla comodità dell’analisi, ci si stacca dalla realtà dei fatti. È importante studiare e discutere sulle cose, ma è ancora più importante fare qualcosa e pubblicarla in modo da mostrarla a tutti.

Pensi che eventi come l’Assembly e l’IGF siano utili per scambiare e pubblicizzare le idee o non sono nulla di più di competizioni artistiche?

L’Assembly è un evento strano perché è legato alla scena demo. In generale penso che happening e competizioni quali il già citato Assembly, l’IGF, l’IndieCade, il PAX e in special modo il TIGSource siano molto utili per spingere le persone a realizzare qualcosa. Come ho già ripetuto, a un sacco di persone piace parlare, ma solo alcune finiscono per rilasciare dei contenuti. Le competizioni sono una gran cosa perché ti danno scadenze e motivazione per realizzare i tuoi giochi.

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Crayon Physics Deluxe è stato il tuo primo titolo commerciale, distribuito via digital delivery. Sei soddisfatto dalle reazioni ricevute o credi che progetti indipendenti come questi siano destinati ad essere ignorati dal grande pubblico (sebbene siano magari indirizzati proprio a quest’ultimo)?

Sono molto felice delle vendite e dalle reazioni del pubblico. Il gioco ha goduto di una copertura mediatica decente e la gente ci sta giocando, il che va bene. Non è Halo 3, ma tanto il gioco non mi è costato venti milioni di dollari.

Credo che questo fumetto illustri molto bene cosa ci sia che non va nell’industria. E i videogiochi indie ne sono la cura.

In 4 Minutes and 33 seconds of Uniqueness l’utente vince se è l’unico al mondo, in tale lasso di tempo, a giocare. Non c’è alcuna interazione. Puoi spiegare con maggiore dettaglio cosa intendi per “è un’esplorazione di ciò che definisce attualmente un gioco”? E’ tutta una questione di limiti?

4’33” è stato uno di quei progetti nei quali ho voluto spingere tali limiti per me stesso più avanti di chiunque altro. Penso che copiare se stessi sia negativo quanto copiare gli altri, e così per trovare nuove direzioni devi andare oltre il tuo livello di comfort e provare soluzioni che potrebbero totalmente fallire.

4’33” si è rivelato interessante anche perché non richiede nessun input da parte dell’utente oltre all’eseguire il gioco stesso. Questa è stata la parte più affascinante per me: vedere se si può giocare a qualcosa che non richiede alcuna azione. E penso che il gioco abbia funzionato meglio di quanto mi aspettassi.