Il mercato dei Gold Farmer è stato stimato per circa 500 Milioni di dollari. La notizia non stupisce visto che qualsiasi gioco online è letteralmente piagato dal farming illegittimo. E’ difficile pensare che chi esercisce un MMOG ed ha la possibilità di creare milioni di dollari di merce virtuale a distanza di un click ne sia totalmente estraneo, anche se asserisce di combattere il fenomeno (facendone peraltro lievitare i prezzi).
Ma concentriamoci sul farmer: distuttore di modelli economici che sono comunque votati al collasso by design (le risorse in un MMO aumentano all’infinito grazie al primordiale sistema di drop e ai troppo superficiali modelli economici), schiavista senza scrupoli (poco importa se quasi tutto quello che comperiamo di fisico viene da sweatshop simili), ecco come spesso vengono definiti i farmer dagli esercenti di MMOG.
Dall’altro lato i developer, tranne aggiornare la EULA dando carta bianca ai ban a tappeto senza appelli, non fanno nulla per limitare il design che porta a grind cronici e alla progressiva morte del divertimento. Da un punto di vista economico, sbarramenti progressivamente sempre più ardui per il gioco occasionale sono l’unico sistema che continua a rendere interessante il gioco ai veterani, che in definitiva sono gli unici che pagano con regolarità gli abbonamenti. Nonostante ciò le reprimende verso chi farma sono sempre più esplicite, quasi che si trattasse ancora dei falsari di Diablo II (che creavano oggetti dal nulla crackando i client ed i server), piuttosto che di semplici giocatori mercenari che (con o senza bot) prelevano solo le risorse che il mondo mette loro legalmente a disposizione. Quello che fanno può essere fatto da chiunque ed anche per questo l’industria del farming prolifera sino al livello amatoriale ed arriva a coinvolgere persino gli stessi giocatori tramite sistemi di intermediazione online.
La realtà è che un farmer non è diverso da un broker o da un commercialista: mette in contatto reciproco i giocatori per uno scambio di servizi oppure li eroga in prima persona a persone che non vogliono o non sanno intraprenderli.
Certo è difficile condonare chi usa gli “aiutini” per essere competitivo nei mondi virtuali (specie quando per alcuni diventa motivo di vanto e orgoglio), eppure è comprensibile che pagare un abbonamento per divertirsi è cosa diversa dal pagarlo per loggare e farsi qualche serata di ripetitivo lavoro solo per passare con spensieratezza quell’unica uscita di gilda settimanale. Ottimo il sentirsi parte di un gruppo e collaborare per un obiettivo comune, ma il sentirsi obbligati a farlo per non rimanere indietro è spesso il componente disgregante per qualsiasi dinamica sociale legata all’intrattenimento: non si può imporre il divertimento a scadenze regolari.
Sicuramente, limiti meno castranti, contenuti orizzontali (distribuite su tutte le fasce di giocatori) anziché verticali (solo su una determinata categoria, solitamente i fedelissimi endgamer) renderebbero più vivibile il contesto sociale del grind, mantenendo interessanti anche aspetti normalmente ritenuti ormai noiosi o inutili dai veterani. Anche in World of Warcraft (nonostante gli oltre 3 milioni di giocatori ancora attivi in occidente) è diventato frustrante trovare un gruppo per un’istanza di livello intermedio senza spendere almeno un’ora in ricerche attive. E’ chiaro che con questi sbarramenti d’entrata (che vogliono dire almeno un 200-300 ore di gioco da passare praticamente da soli, al massimo chattando con la gilda che è quasi tutta in zone endgame inaccessibili) il numero di chi lascia aumenta, ma aumenta anche quello di chi è disposto ad affidarsi ad un powerleveler e godersi il tutto solo quando si è in una condizione tale da poter realmente partecipare al gioco.
I numeri citati parlano chiaro (e la stima è molto cauta, c’è chi arriva a sostenere che in realtà è un’industria che vale due miliardi): con cifre del genere è praticamente garantito che il vostro guildmaster che ci tiene tanto a dire di essersi fatto da solo potrebbe non aver fatto proprio tutto da solo (ed avere quell’enciclopedica conoscenza solo grazie a molto tempo passato su Thottbot).
Ai puristi, quelli che non possono far altro che dare dello sfigato a chi utilizza questi mezzi, non resta che avere fede cieca nell’estraneità dei loro developer al proliferare del fenomeno, sperando che, nel loro prossimo lavoro, correggano tutte quelle storture che sin’ora non hanno fatto che accentuare.
Realisticamente, è difficile credere che un’azienda che ha la capacità di vendere beni virtuali al “mercato nero” con uno sforzo nullo e per milioni di dollari non lo faccia perché ci tiene a far “divertire” la propria userbase. A dispetto delle dichiarazioni ufficiali, è sempre vero che l’abbonato che compra aiutini non sarebbe più tale se non potesse evitare di fare il criceto nella ruota.
Ding! Due piccioni con una fava.