Ascoltare il prof. Lutrario è sempre piacevole: sin dal primo momento, è in grado di attirare l’attenzione su ciò che afferma creando una situazione confortevole. Ebbi la fortuna di incontrarlo la prima volta due anni fa al Webbit, e da allora ho mantenuto – seppur saltuariamente – i contatti con una persona che reputo importante nel mondo videoludico italiano; alcuni giorni fa gli proposi una nuova “chiacchierata”, della quale l’intervista che segue è una riproduzione.
A cura di Emanuele “[e]MaCk” Colucci
Sei stato per anni general manager di Ludonet, e adesso fai capo ad Infobyte. Contemporaneamente, hai promosso l’alfabetizzazione videoludica attraverso corsi accademici sul game design a Milano. Cosa ti ha spinto verso queste esperienze?
La convinzione che il gioco è un’attività molto seria ed importante per l’evoluzione stessa dell’uomo e soprattutto la voglia di combattere la discriminazione nei confronti dei giochi e dei videogame, ritenuti inutili e frivoli se non addirittura dannosi. Il gioco invece costituisce lo strumento che la natura ci ha messo a disposizione per adattarci al mondo, per permettere lo sviluppo motorio, cognitivo ed affettivo di un individuo, sia esso bambino o adulto. Inoltre il gioco e le simulazioni hanno molteplici possibili applicazioni (didattica, ricerca, comunicazione) che solo in minima parte sono state esplorate.
Cosa ti aspetti per il futuro in Infobyte?
Di traghettare le tecnologie e le forti competenze tecniche e metodologiche nel campo della realtà virtuale e delle simulazioni visuali real time proprie di Infobyte nel settore dei videogiochi e delle simulazioni a scopo didattico. Contemporaneamente, di conquistare una quota di mercato significativa nei new media (quindi nel settore mobile, della televisione digitale terrestre e della IPTV), sviluppando un’offerta specifica rivolta al target dei bambini in età scolare e prescolare (tramite giochi ed edutainment).
In cosa consiste precisamente il tuo impegno universitario, e come intendi farlo evolvere nel tempo? Pensi che sia un buon viatico verso il mercato lavorativo?
Il mio impegno universitario consiste nel tenere un corso di game design con tutte le attività connesse, che vanno dagli esami al supporto per gli studenti che intendono scrivere tesi legate al mondo del gioco del videogioco e delle simulazioni digitali. Io penso che siano fondamentali tanto le conoscenze teoriche sul gioco come attività e come strumento, quanto quelle metodologiche (a cosa serve e quali obiettivi può raggiungere), quanto ancora quelle legate al project management, ossia l’attitudine alla gestione e direzione di progetti nello specifico videoludici, ed ancora quelle connesse al mercato. Su queste basi vanno innestate e risultano vincenti specifiche competenze tecniche. Lo scollamento tra chi fa il design del prodotto, chi dirige la produzione, chi produce contenuti e chi opera nei mercati e chi, ancora, impiega le tecnologie è uno dei motivi dell’incapacità italiana di primeggiare in questo mercato.
Ritieni che l’Italia investa adeguatamente nello sviluppo dell’industria videoludica? Governi esteri hanno dimostrato esplicitamente una certa attenzione nei confronti del settore.
Sì, Gran Bretagna e Francia pongono molta attenzione allo sviluppo del settore videoludico e di tutto ciò che riguarda le simulazioni digitali. In Italia invece non c’è alcun impegno in questo senso. Tutto è lasciato alla buona volontà di pochi imprenditori e di alcuni accademici illuminati (come il Prof. Marini). In molte facoltà tecniche si continua a parlare di multimedia e ipertesti mentre si ignorano i giochi e le simulazioni nonostante sia evidente come questi rappresentino un mercato enorme e in continua crescita.
Matteo Bittanti, sulle pagine di Videogiochi, rilevava la presenza sempre crescente nella penisola di teorici del videogioco, come da anni accade nei paesi anglosassoni. Condividi?
Dall’inizio del nuovo millennio c’è un interesse crescente, in precedenza quasi del tutto assente, nei confronti del settore videoludico. Questo è dovuto prevalentemente alla dimensione che ha assunto il mercato (in senso economico e di attenzione dei media), e dalla crescita del comparto mobile, in cui l’Italia è una delle nazioni a più rapida crescita (a livello di consumi). Bisogna però dire che l’interesse di questi teorici si dirige più verso la critica piuttosto che verso i temi e la formazione di carattere produttivo-industriale (che ci occorrerebbe di più). In questo modo diventiamo bravissimi a recensire prodotti fatti da altri e in qualche modo ci prestiamo agli interessi dei soliti grandi player. Ossia non sviluppiamo una nostra identità e neanche una capacità critica autonoma perché non sappiamo creare alternative al flusso principale.
Pensi che il mobile gaming abbia margini di miglioramento, sia sul versante del mercato, sia su quello dell’esperienza di gioco?
Effettivamente la quota d’investimento riservata al design dei prodotti mobile oggi è molto bassa: è un mercato ancora agli inizi e dunque frenetico. La vita di ogni singolo titolo è molto breve, causando poche rendite. Questo porta i produttori a risparmiare sul design e a riproporre meccaniche già note (oltre che a scansare i tipi ludici più difficili). Lo sviluppo ci sarà ma il rischio è che gran parte di esso venga assorbito dalle major, che fino a un paio d’anni fa snobbavano questo mercato a cui oggi invece si rivolgono con grande impegno. Si riproporrà la situazione del mercato tradizionale: i grossi nomi, i titoli su licenza, saranno comunque in mano ai publisher più importanti. Ma, trattandosi di un mercato più ampio ed eterogeneo di quello tradizionale, esistono degli spazi dove una produzione italiana può assumere una dimensione interessante.
L’industria odierna sembra emarginare il design originale e approfondito a pochi progetti coraggiosi. Ravvisi delle probabili inversioni di rotta con l’avvento della nuova generazione di console? In particolare, prevedi che Nintendo con Revolution possa apportare innovazioni significative?
Purtroppo temo che la componente tecnologica di un videogioco (cioè mostrare i muscoli attraverso una grafica pompata e un’elevata velocità d’interazione) causerà il riposizionamento degli stessi prodotti in un contesto definito dalle nuove console. Penso che neanche Revolution riuscirà a modificare sostanzialmente tale attitudine.
Raccontare una storia nei videogames è ancora oggetto di dibattiti. C’è chi, come Ron Gilbert, ritiene che le trame debbano essere lineari e rispecchiare la visione dell’autore, e chi, come Chris Crawford o gli autori di Façade, pensa esattamente il contrario. Qual è il tuo parere in merito?
Tutto ciò che è narrativa, o meglio, rappresentazione, tutto ciò che richiama, se vogliamo emula, i media tradizionali, non può essere definito come elemento propriamente videoludico perché sposta il ruolo del videogiocatore verso quello di spettatore. Il gioco è una simulazione a cui sottende un modello, una porzione “in piccolo” di vita, sia essa reale o fittizia, su cui fare esperienza (a basso costo). La vita come i modelli per giochi e simulazioni sono eminentemente interattivi,nascono per dare un risultato. Il gioco come anche il personal computer (da qui la potenza dei videogiochi) esaltano l’interattività. Ritengo quindi che sia necessario muoversi verso la non-linearità, verso storie che evolvono in funzione delle scelte del giocatore lasciando allo stesso la maggior libertà possibile di interpretare il ruolo che il gioco propone.
Vuoi fare una dichiarazione a tema libero?
Io vorrei rivolgere un invito a tutti coloro che in qualche maniera operano nel settore videoludico in Italia: è arrivato il momento di rendersi conto che quello del videogioco è un settore strategico nella crescita dell’economia, e finché l’Italia sarà un Paese di consumo piuttosto che di produzione, saremo sempre più isolati e accumuleremo un tale ritardo da trovarci presto fuori gioco. Dobbiamo aprire gli schemi, rinnovare formazione e industria, correre oggi per non trovarci perdenti già agli inizi della competizione. Come si può dar luogo ad una trasformazione? Attraverso la formazione multidisciplinare (attenta non solo alle discipline tecniche ma che non esulino da queste) e attraverso percorsi che mettano i giovani in grado di fare esperienza in contesti produttivi e di mercato reali. Oggi tutto questo non esiste in Italia e noi, pur avendo buoni tecnici e ottimi designer, non riusciamo ad avere figure professionali complete, di alto livello, in grado di dirigere le nuove produzioni e di conquistare quote di mercato. I migliori cercano fortuna all’estero o vengono impiegati in campi diversi come, ad esempio, le telecomunicazioni.
articolo originariamente apparso su GameProg-Ita.