Un’occhiata fugace all’industria. Guest Star: Nintendo

Notizia flash: sviluppare un gioco di “prima scelta” (leggasi: un blockbuster) costa almeno attorno al milione di euro annuo (spicciolo più, spicciolo meno). Dopo aver terminato un prodotto e spesi quattro o cinque milioni di euro (spicciolo più, spicciolo meno), comincia la campagna marketing: un investimento milionario con lo scopo di far primeggiare, nel marasma delle pubblicazioni videoludiche rilasciate ogni settimana, il proprio titolo. Nel 1999, Turok: Dinosaur Hunter godette di sette milioni di dollari di purissima pubblicità. Oggi, con l’inflazionarsi del mercato, le cifre sono anche più alte. Quante copie bisogna vendere prima che il publisher e lo sviluppatore comincino a vedere dei guadagni? Centinaia di migliaia, ad un prezzo medio di sessanta euro. E la situazione non sembra destinata a cambiare, nel breve e medio periodo: c’è chi (come Hideo Kojima) paventa, con la prossima generazione di console, una dilatazione spaventosa dei tempi di sviluppo e un conseguente aumento dei prezzi.

Come riuscire a sopravvivere? Ci sono molte strade, che spesso si intersecano. Si possono pubblicare videogiochi su licenza, si può fare ancora più pubblicità, si possono abbandonare i progetti rischiosi, si può risparmiare sul design, si possono valutare distribuzioni parallele a quella tradizionale (ovverosia, tramite negozi). L’errore non è contemplato, pena il fallimento o la scomparsa sotto l’egida di una major.

Esistono anche altre vie da battere, che al momento attuale assomigliano più a sentieri: supportare il proprio gioco oltre le cruciali otto settimane seguenti il rilascio (durante le quali bisogna tentare di piazzare tutto il piazzabile; life is short, baby, e la gente dimentica presto), senza ricorrere a costosi inserti su riviste o spot televisivi. I MMORPG rappresentano un fulgido esempio: secondo la NPD, durante il 2004 sono stati venduti 45 milioni di titoli per PC, nel solo Nord America. Di questi, la maggior parte erano giochi di ruolo on line, come World of Warcraft, emblema del successo di una strategia. Non stupisce, dunque, perché Microsoft e Sony abbiano deciso di concentrarsi sull’intrattenimento in rete (sebbene la compagnia di Bill Gates parta in vantaggio, col complessivamente soddisfacente servizio XBox Live).
Rimane ancora un’alternativa, che da alcuni mesi acquista sempre maggiore consistenza: espandere il mercato, raggiungendo utenze scarsamente interessate (o del tutto disinteressate) al videogaming. Signore e signori, stiamo parlando di Nintendo. Era già chiaro con l’uscita del DS che la mission della Grande Enne sarebbe stata proprio questa, e Satoru Iwata al Tokyo Game Show 2005 ha reso ancora più esplicito il concetto, presentando l’ormai famosissimo controller del venturo Revolution.

All’atto pratico, come si traduce tale sorta di intenti? L’AESVI ha pubblicato quest’anno un rapporto riguardante la conformazione sociodemografica del videogiocatore italiano, non poi così diverso dai vicini europei, dai parenti americani e dagli esotici orientali. L’analisi ha evidenziato una presenza femminile non trascurabile tra i gamer adulti: addirittura quasi il quaranta percento. Inoltre, ha stimato attorno ai nove milioni di individui i giocatori assidui over-14, che raddoppiano se si considerano anche i cosiddetti “casual gamer”. Stiamo parlando del 36% della popolazione italiana: un’enormità. Si rileva, quindi, che per aumentare il numero dei consumatori occorre innanzitutto tenere bene in conto il pubblico femminile e coloro che trascorrono poco tempo con un pad tra le mani. Proseguendo col ragionamento, si può tentare di coinvolgere nel videogioco anche le persone che gravitano attorno ai gamer, ovverosia gli elementi della famiglia più anziani, o più giovani, o meno smaliziati. Ecco la visione dell’Home Entertainment di Nintendo: il videogioco accessibile a tutti.

Per perseguire un simile obiettivo era – ed è – assolutamente necessario ripensare i criteri secondo i quali gli esseri umani interagiscono col videoludo, concepire cioè una nuova interfaccia, un nuovo sistema di controllo in grado di attrarre sia l’utente più navigato sia il newbie, coinvolgendolo, in pratica, in un nuovo gioco. Il DS incarna “in piccolo” questa filosofia, ed il mercato sembra stia premiando l’ambizione di Iwata e soci, sancendo allo stesso tempo il primato di unità hardware vendute sulla concorrenza (la PSP di Sony) e il raggiungimento di traguardi inediti per il settore handheld: Nintendogs (il quale gode di ottimi e vasti consensi tra le esponenti del gentil sesso), a metà settembre, continuava a stare nelle posizioni più alte della classifica (in Giappone), a dieci settimane dal rilascio.

Revolution incarna quindi tutte le aspettative e le idee innovative non solo di un produttore hardware, ma di un’intera industria. Propone – al momento sulla carta – un’alternativa meno tecnologica e più concettuale del fare e del vivere il videogioco. Gli sviluppatori (interni ed esterni) potrebbero cominciare in massa a prendere in considerazione design originali piuttosto che apparati grafici ultrapompati, con l’implicito vantaggio di una sensibile diminuzione dei costi. E Nintendo potrebbe trovarsi colma di esclusive non strappate con accordi finanziari, ma grazie alla specificità della sua piattaforma. Tante sono le variabili in gioco, ma una cosa rimane certa: il verdetto non sarà ambiguo.

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