Gli universi testuali di ZZT

ZZT - Frost

ZZT è un interessantissimo engine object oriented per giochi dalla grafica testuale orientato al modding. Uno dei primi progetti di Epic Games, il motore è l’antentato tecnologico dello scripting di Unreal Engine. Progetto solitario di Tim Sweeney, rese possibile sperimentare in locale i giochi pseudo-grafici con interfaccia ANSI che, insieme ai MUD, impazzavano nelle BBS di mezzo mondo.

ZZT - Ezanya

Nonostante l’età del software, ZZT è ancora incredibilmente popolare, specialmente tra gli appassionati che lo ricordano con nostalgia. La flessibilità dell’engine permette la realizzazione dei più disparati tipi di giochi: si va da avventure grafiche, puzzle game, giochi esplorativi, persino RPG in prima persona o giochi di corse. La comunità ha prodotto, nel corso degli anni, piccole gemme a dir poco sorprendenti.

ZZT - Dragon Woods

Oggi, il portale Z2 è il sito di riferimento per chiunque voglia sviluppare o scaricare qualche gioco, basta osservare le news per capire quanto è ancora nutrita la produzione di software per questo ambiente di sviluppo ludico.

Recentemente, un progetto Open Source, DreamZZT, ha reso multipiattaforma ZZT creando interpreti per MacOS, Dreamcast, Nintendo DS e Linux, svincolando gli utenti dal vecchio client DOS-only che iniziava ad essere un po’ troppo complesso da utilizzare per l’utente medio.

ZZT - Burglar!

Qualche dritta per iniziare? Z2 mantiene una lista con recensioni dettagliate dei migliori giochi per ZZT. Personalmente, preferendo gli adventure esplorativi con visuale top-down e stanze-enigma, non posso fare altro che consigliarvi Ezanya, Dragon Woods, Frost e Burglar!

The Legend Of Zelda: Phantom Hourglass – uno sguardo veloce

Piattaforma: Nintendo DS | Sviluppo: Nintendo EAD | Release: 24/06/2007 (JAP) – 01/10/2007 (USA) – 19/10/2007 (EUR)

Link Quando la tua ragazza prende a fissarsi con un videogioco scritto interamente in giapponese, sono pochi i pensieri che riesci a formulare: o è matta, o si tratta di un gran titolo. Ora, io non sono uno di quei tipi capaci di portare a termine un Metal Gear Solid (ma neanche un PowerStone o un Ikaruga) in lingua nipponica: per me la presenza di un idioma comprensibile costituisce requisito fondamentale per la fruizione di un contenuto. Però, parlando di Zelda, ho voluto fare un’eccezione alla regola (pur continuando a non capire quasi una mazza circa gli sviluppi della trama), gettandomi in una lunga sessione di prova.

Quel che immediatamente si realizza non appena si comincia a giocare a Phantom Hourglass è di trovarsi proprio al cospetto di un capitolo della serie di The Legend of Zelda: non solo il protagonista, ma anche scenari e mood generale riconducono alla classica avventura del simpatico Link, per la seconda volta nella sua carriera immerso in un mondo 3D in cel-shading. Questo senso di familiarità rappresenta – per alcuni – un punto di debolezza, un male (in effetti, persino nel sollevare una gallina si capisce che l’unica differenza tra A Link To The Past – uscito nei primi anni Novanta – e il titolo adesso in oggetto consiste nella realizzazione tecnica), mentre per altri costituisce invece il ritorno in un ambiente amico da lasciare quanto più inalterato possibile. Detto in parole semplici, giocare a Phantom Hourglass assomiglia all’ascoltare un disco qualsiasi – purché non appartenente all’epoca Blaze Bayley – degli Iron Maiden: autocitazioni a palate, poche novità strutturali, ma alta qualità.

Continuando a prendere confidenza col prodotto, non si può fare a meno di osservare quanto ottimamente concepito e implementato sia il sistema di controllo, che avviene attraverso il contatto tra stilo e touch-screen; col pennino infatti si muove la fatina (in guisa di cursore, come accadeva in Twilight Princess) che accompagna Link, e con dei semplici tocchi si indica la meta da raggiungere, il personaggio o l’oggetto con cui interagire, il nemico da soverchiare. I movimenti sono naturali e fluidi (per sferrare un attacco ad ampio raggio con la spada, si traccia velocemente un semicerchio; ancora, per utilizzare una bomba la si raccoglie con un piccolo tocco, e la si lancia nel luogo desiderato puntando il cursore verso l’opportuna direzione), tanto da far sorgere la domanda di come mai sia stato necessario così tanto tempo dall’uscita del DS prima di concretizzare in maniera convincente un tale meccanismo. Tanti complimenti ad Eiji Aonuma ed i suoi, dunque, per il raggiungimento di un simile risultato che, ne sono sicuro, verrà in futuro ripreso da molti altri sviluppatori. Integrato nel sistema si trova anche il microfono, sfruttato per risolvere piccoli puzzle ed enigmi (come soffiare per eliminare la polvere che impedisce l’esatta lettura di una carta nautica).

Zelda

Come in Wind Waker (di cui Phantom Hourglass è un seguito), la navigazione assume un ruolo rilevante nel gameplay: la piccola imbarcazione in dotazione è l’unico atto a garantire lo spostamento da un isolotto all’altro. A differenza del titolo GameCube, però, andar per mari appare molto meno romantico in questa occasione, perché meno dispersivo, dato che una volta tracciata la rotta (sempre mediante stilo e touch-screen), la barca (adesso a vapore, non più a vela) la seguirà pedissequamente, lasciando all’utente solo la facoltà di difendersi dagli avversari marini col cannone o saltare ostacoli imprevisti.

Dopo alcune ore di gioco, decido infine di spegnere il DS e restituire la cartuccia alla legittima proprietaria: ciò che ho visto mi manda letteralmente in fibrillazione, ma non voglio continuare a rovinarmi la sorpresa. Sono abbastanza convinto della grandiosità di Phantom Hourglass, pertanto attendo con impazienza il lancio della versione occidentale, fissato per ottobre, e rimando a tale data qualsiasi giudizio definitivo.

RADIOGAME, il podcast dedicato alle musiche dei videogiochi

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www.radiogame.splinder.com

Gioia, gaudio e tripudio! Nasce Radiogame, podcast dedicato alle musiche dei videogiochi passati e recenti, ad opera dell’istrionico AIO (al secolo Mario Morandi)! Massima stima per essere riuscito a realizzare questo episodio pilota della durata di ben 53 minuti, tutto da solo con maestria, ironia ed estrema simpatia. Questo podcast tutto italiano (hooray!) si presenta nelle vesti di una riuscita trasmissione radio, con intermezzi ironici e a volte satirici (AIO non ha risparmiato nemmeno il nostro filosofo preferito, MBF!) ma sempre e comunque dedicata al mondo videoludico e alla sua interminabile colonna sonora. Dalle chip tunes dei sistemi a 8 bit fino alle musiche elettroniche e orchestrate dei più recenti titoli, le audio review (con l’appoggio dell’immenso database di retrogaming.it) e le curiosità assortite su compositori e sviluppatori, l’intrepido AIO ci traghetta attraverso un mare dal sapore nostalgico che fa riaffiorare melodie mai dimenticate e scolpite nei nostri cuori. Ho ascoltato radiogame in macchina, durante il mio viaggio di ritorno dal lavoro e il tempo è letteralmente volato, stare in mezzo al traffico non è mai stato così piacevole! Non credo sia giusto anticiparvi più di tanto i contenuti di questa prima trasmissione, sappiate solo che merita la vostra attenzione e sicuramente anche il vostro contributo!

Radiogame is on air! <– scarica e commenta l’episodio pilota

(se volete discuterne con noi potete farlo nel topic apposito creato da AIO stesso, ormai colonna anche di Ars Ludica)

Lazy Jones (C64, MSX, ZX Spectrum)

lazy jones 01Lazy Jones (David Whittaker – 1984, pubblicato dalla Terminal Software) è stato il primo videogioco a tematizzare la figura del videogiocatore. Nei panni di Jones bisogna entrare in diciotto porte di un hotel, distribuite su tre piani, raggiungibili tramite un ascensore, dove cimentarsi con diversi videogiochi (quindici in totale), tutti cloni molto semplificati di vari classici, cercando di accumulare più punti possibili. C’è Space Invaders, c’è Snake, c’è Frogger e, insomma, ci sono molti di quei titoli che all’epoca furoreggiavano nelle sala giochi di tutto il mondo. Jones è un personaggio strano. Ha la forma di una bottiglia, ed è piuttosto rotondetto. Sicuramente è lontano dal machismo dei protagonisti dei videogiochi odierni. Il titolo ci dice che è “lazy”, ovvero pigro. Un nerd perfetto, insomma. La sua passione è videogiocare. Non gli frega niente del suo lavoro (impiegato nell’albergo in cui è ambientato il titolo) che, anzi, è la vera e unica minaccia per il suo divertimento. Infatti i nemici presenti sono il direttore dell’hotel, situato al piano più alto, un carrello con degli attrezzi da lavoro situato al piano centrale e il fantasma di un vecchio direttore situato al piano più basso. Jones non può ucciderli ma può saltarli. L’importante è che riesca ad entrare nelle varie porte e giocare.

Le quindici stanze con i videogiochi sono molto simili: un grosso monitor occupa una buona porzione dello schermo. Jones si trova nella parte bassa, entra da una porta sulla destra e si dirige verso il joystick al centro con cui inizia la sua attività ludica (che poi è anche quella del videogiocatore reale).

Ogni videogame ha un limite di tempo che indica la durata massima di una partita. In alcuni giochi una frazione di tempo viene decurtata se si viene colpiti, mentre in altri la penalità è molto più alta: la partita finisce automaticamente, anche se si hanno ancora dei secondi a disposizione. Usciti da una porta non sarà più possibile rientrarci. L’unica variante presente allo schema è rappresentata da un sottogioco in cui Jones si troverà nel bar dell’albergo dove deve riuscire a bere più cocktail possibili, evitando contemporaneamente un avventore ubriaco che vuole cacciarlo via.

Lazy Jones è semplicemente geniale e irripetibile. Un concentrato di fantasia e di sapienza tecnica, un vero e proprio decalogo di luoghi comuni nati intorno alla figura del videogiocatore, essere dalla natura ambigua che negli anni 80 veniva guardato di sottecchi dalla gente per bene, che non riusciva proprio a capire cosa diavolo ci trovasse di bello in quelle strane forme che si muovevano sullo schermo.

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Più che un videogioco, un ritratto generazionale.

Another Code e i problemi di percezione

Sarà il mio ritiro forzato in un residence Cosentino, sarà il dover riempire le serate, saranno i colleghi che dopo averti preso un po’ in giro ti chiedono se gli presti il DS per addormentarsi o se porti giù la PS2 per una partitina ad Amplitude o Frequency in simpatia, sarà che due viaggi in auto di 5 ore (se tutto va bene) a settimana mi provocano uno stato di confusione esistenzialista ma l’aver completato Another Code mi ha fatto seriamente riflettere su come la presentazione ed il marketing di un videogioco condizionano le nostre valutazioni.

DS - Another Code - 1

Per me, occidentale, Another Code era un’avventura grafica. Cosa poteva essere d’altronde? C’è un personaggio che si muove sullo schermo, si può interagire con l’ambiente e risolvere enigmi (molto puerili a dire il vero), ci sono tanti, moltissimi dialoghi, arricchiti da illustrazioni ed animazioni stile graphic novel che usano in maniera drammatica e claustrofobica i due schermi del DS.

Chiaramente si trattava di un’avventura grafica, anche se fatta male.

A gioco finito, invece, risulta chiaro che Another Code è un racconto interattivo come ce ne sono tanti in Giappone, solo con una interfaccia un po’ più ludica e ricca della media (specie nella prima metà di gioco), interfaccia che gli ha fatto guadagnare la distribuzione anche in occidente sotto una veste non solo inadeguata ma anche penalizzante agli occhi dei recensori e dei critici. Mi domando quanti occidentali sappiano dell’esistenza di questi non-giochi nipponici e quanti abbiano pensato che Another Code potesse essere un semplice romanzo interattivo potenziato da tecnologia 3D, in particolar modo quelli che lo hanno abbandonato nelle prime battute di gioco, periodo in cui questa differenza è poco marcata ed è facile essere tratti in inganno.

DS - Another Code - 3

Come avventura grafica Another Code è sbagliato su tutta la linea: poca interazione, enigmi imbarazzanti per la loro semplicità e rarefazione, la storia che si racconta da sola, pochissime locazioni. I capitoli precedenti all’epilogo, inoltre, non sono altro che continui dialoghi in cui le brevi fasi di interazione (per lo più necessarie a cambiare locazione e a far partire un altro intermezzo narrativo) servono più per far riposare gli occhi che a proporre intrattenimento ludico. Eppure, valutato come altre novelle interattive per hand-held, il gioco ha un differente valore che, seppure ancora nella media, permette di considerarlo in una luce del tutto nuova.

Gli “enigmi” sono complicati quanto ci si aspetta dal genere: gli autori non vogliono che il lettore si trovi bloccato per giorni su un rompicapo, vogliono solo interromprere il flusso narrativo di tanto in tanto per far aumentare la tensione e la curiosità di chi legge. La storia è quel classico rimescolamento di pattern narrativi che si trova in un qualsiasi libro da scaffale vicino la cassa, eppure risulta ben strutturata e sufficientemente originale. Se l’atmosfera iniziale del gioco fa pensare ad un survival horror, il tutto si rivela più simile ad un miscuglio di Total Recall e Casper (compreso l’epilogo dolce-amaro) e vi assicuro che tale miscuglio ha comunque una plausibilità e un suo decoro nell’impianto narrativo. Almeno non ci sono tentacoli stupratori o adolescenti introversi con manie suicide.

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La vicenda ruota sul tema soggettività della memoria, tema che provoca svolte narrative quasi geniali per un’avventura grafica, ma del tutto in linea con la superiore qualità narrativa che ci si aspetta dai racconti interattivi. Quel poco di interattivo che c’è usa il Nintendo DS come una proiezione fisica del mondo virtuale: esso diventa gli oggetti che la protagonista manipola, è il suo PDA sperimentale in grado di interfacciarsi con la memoria, una fotocamera, un libro, un portaritratti, spesso bisogna interagire con esso in maniera non ortodossa. Piuttosto che cercare l’immedesimazione nei personaggi, il gioco sceglie un percorso indiretto che proietta il giocatore stesso nel mondo immaginario, dandogli la possibilità di manipolarlo fisicamente, piuttosto che obbligarlo semplicemente ad impersonare la protagonista. E’ sicuramente un passo avanti rispetto alla fruizione del tutto passiva o limitata alle scelte multiple che solitamente si trova in questi media ma ancora è lontana dai paradigmi ben più liberi e intellettualmente stimolanti delle avventure grafiche classiche.

Another Code è breve: si finisce in un pomeriggio senza problemi, circa 5 ore di gioco complessivo, con la possibilità di un replay che chiarisce alcune zone grigie della storia se alla fine della prima giocata si spengono le candeline nei titoli di coda. La sua brevità è un problema perché alcuni degli spunti che offre sembrano più una coincidenza che una reale intenzione. Another Code come avventura grafica è debole, come romanzo interattivo è passabile, come alternativa al semplice videogiocare e alle classiche tecniche di game design sull’identificazione è notevole, se non altro perché ha avuto il coraggio di ibridarsi in qualcosa di leggermente diverso.

Another Code è un monito su quanto i nostri limiti culturali possano condizionare le nostre valutazioni qualitative, quanto la mancanza di un canone di riferimento sufficientemente valido possa sviare le nostre aspettative.

Esso ci ricorda che, in fondo, la bellezza è solo negli occhi di chi guarda.

Sono un adoratore del Diavolo.

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Diablo (il primo) mi è rimasto nel cuore come un paletto di frassino nel torace di un vampiro giapponese che pratica il seppuku come hobby. Ricordo che lo installai con sufficienza, nel lontano 1997. C’era ‘sto tizio nerboruto che gironzolava per un villaggio, accompagnato da una musichetta suadente ed ipnotica. Ricordo che lo “escai” dopo due minuti senza averci capito una mazza. Ma un paio di giorni dopo, nel solito pomeriggio estivo in cui fa troppo caldo per uscire e le pagine dei libri tendono a diventare incredibilmente appiccicose, lo rispolverai e ne capii il game-play. Praticamente, un genio! Da allora, il suo spirito prese posto accanto alla mia anima di amante di film horror. Lo ho giocato e rigiocato, ho percorso più volte i dungeons sino ad arrivare ad uccidere Diablo a pugni (col guerriero). Ho giocato anche il secondo, finito più per rispetto dei soldi spesi che per reale passione, mentre il primo rimarrà, con la sua semplice logica dell’arraffa-mazzuola&scappa, una pietra tombale della storia del videoludo. E la tentazione di riadorarne – e riodorarne! – l’adorevole profumo di morte è sempre grande.

Project: Snowblind (2005 – Crystal Dynamics – Eidos)

Avviso: Nel seguente articolo si rivelano molti momenti della trama del gioco. Leggete a vostro rischio e pericolo.

project snowblind

Nei panni di un soldato con innesti cibernetici, innestatigli per farlo sopravvivere in seguito ad un esplosione che lo aveva praticamente ucciso, bisogna fermare il progetto Snowblind, con cui un gruppo militare guidato da un tizio sconosciuto vuole conquistare il mondo.

Sembra di trovarsi di fronte ad un tema scolastico che non si sa bene quale strada voglia imboccare.
La bomba deflagra il nostro eroe. Arrivano gli innesti cibernetici. Si va avanti a sparare tra eroici compagni che lottano strenuamente per la libertà e tra nemici anonimi e malvagi fino al midollo. Non sarebbe neanche male come FPS se non avessero voluto dargli una valenza morale che si rivela buona soltanto per fare un po’ di propaganda. Ogni tanto qualche filmato mostra il protagonista dolorante che ottiene un nuovo potere. Si va avanti senza troppi scossoni, tra missioni di assalto e altre di liberazione di prigionieri. Come manuale di sceneggiatura vuole, verso la metà del gioco c’è la svolta. Si libera uno scienziato, mezzo cyborg pure lui, che ci svela il piano dei cattivi. La situazione precipita, ma non appare mai drammatica. La narrazione rimane sempre piuttosto anonima, nonostante i livelli siano legati tra loro da una trama continua. Alla fine si capisce che è la trama a non avere forza e a non osare mai di andare oltre i binari del lecito. Insomma, si arriva quasi alla fine del gioco senza momenti particolarmente elettrizzanti o degni di menzione (anche ludicamente parlando).

Però poi spunta il boss, la mente che ha organizzato il progetto Snowblind. È un cyborg anche lui. Ora, immaginate la situazione: l’esercito nemico ha in pugno il protagonista, circondato da decine di soldati con le armi puntate contro la sua testolina. La situazione è disperata ma arriva il boss che inizia a parlare degli innesti cyborg e della sofferenza che da essi gli deriva (non riesce a dormire, poverino). Avviene qualcosa di strano. Gli altri soldati svaniscono nel nulla. Miracolo. Le domande ammazza tensione fluiscono in testa anche del giocatore più becero: sono arrivato fino a qui senza aver mai visto questo personaggio e senza che venisse mai introdotto il tema dei problemi derivati dagli innesti cyborg… che senso ha infilare il tutto nel mucchio con un dialogo demenziale messo in un momento topico ma non giustificato da nulla? Dove sono finiti i soldati che avrebbero potuto uccidere l’eroe senza tante menate e che sono stati fermati proprio dalla persona più interessata ad eliminarlo? Perché gli sviluppatori di videogiochi, oltre ai coder, non assumono anche qualche sceneggiatore capace?