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La mia più grande perversione, parlando da videogiocatore, è un’insana passione per la grafica poligonale qualora essa sia: a) priva — o quasi — di texture; b) poverissima nel numero dei poligoni stessi. È un discorso un po’ oscuro per chi non è del campo, comunque il risultato della concomitanza di a) e b) produce videogiochi con una grafica normalmente “brutta”, datata e piena di corpi e oggetti composti da grossi triangoli e quadrati.
Ecco, io adoro quella grafica (e se non ce l’avete ancora presente, potete fare qualche ricerca in Google coi nomi che vi darò tra poco. Per comodità, li evidenzierò).
Giochi con simili caratteristiche esistevano già negli anni ’80 (i mitici titoli della Incentive col motore Freescape: Driller, Dark Side, Castle Master, Total Eclipse… su C64 più lenti di una lumaca zoppa), poi ci fu pure il singolarissimo The Sentinel. Personalmente ebbi il mio primo incontro con i poligoni con i vari Virtua Qualcosa della Sega nella prima metà degli anni ’90 (quando i possessori di Super Nintendo e quelli di Mega Drive si prendevano reciprocamente a sassate): la tecnologia era ancora acerba, e i giapponesi infilavano il pretenziosissimo termine Virtua — riferito alla realtà virtuale — per giustificare la tragica grafica triangolare di Virtua Fighter e Virtua Racing. Io avevo il Super NES e invidiavo quelle che a me parevano delle meraviglie per gli occhi (e in un certo senso lo erano), ma tanto di li a poco mi sarei rifatto appropriandomi dello spettacolare Starwing. E tempo dopo avrei toccato il fondo giocando a Moto Racer su PC togliendo tutti i dettagli per far risaltare ancora cubi e triangoli e colori piattissimi e uniformi, e molto dopo ancora mi sarei emozionato vedendo Darwinia (che non ho giocato)… eh, i ricordi.

Sono lì che penso ai poligoni e mi torna la voglia di rigiocare Virtua Racing.
VR faceva uso di un particolare coprocessore grafico, il SVP, che stava nella cartuccia del gioco. Siccome nessuno si è mai preso la briga di emulare il SVP via software, Virtua Racing è a tutt’oggi, a circa 15 anni dalla sua uscita, l’unico gioco per Mega Drive non emulato. E questo nonostante la ROM si trovi praticamente ovunque (una volta stavo camminando e ho sentito qualcosa nella scarpa che mi dava fastidio. Pensavo fosse un sassolino, e invece era una ROM di Virtua Racing. Figata!).
Ravano un po’ e scopro che, se proprio non voglio comprarmi un MD e una cartuccia di VR, la versione deluxe per 32x è emulata. Emulare un 32x (una genialata strana che avrebbe consentito alla Sega di estirpare soldi ai possessori di Mega Drive più a lungo del previsto) richiede di perdere un po’ di tempo nei settaggi, ma una volta sistemati sono stato pronto per trovarmi di fronte a… beh, un tubo. Sotto Gens (un emulatore di MD) VR Deluxe non è mai partito. Perché? Boh.
Passano i mesi e trovo un obsoleto emulatore di MD che finalmente supporta VRD. A schermo ottengo una cosa simpatica, cioè questa:

Virtua Racing

Al di là dell’acidissima colorazione (a metà strada tra Andy Warhol e l’LSD), devo precisare che questa immagine è stata raddoppiata in larghezza. L’output reale è strettissimo e il risultato è che il pur bellissimo gioco della Sega diventa ingiocabile. Voci di corridoio mi avvisano poco più tardi che devo abbassare la profondità colore di Windows da 32 a 16 bit. Eseguo ben poco fiducioso e FUNZIONA! Virtua Racing Deluxe mi appare, in tutto il suo fatiscente splendore: omini ai box cubici, ruote ottagonali, colline smerigliate, auto che sembrano origami… Scusatemi, torno a giocare…

(Una precisazione: Virtua Racing nasce in sala giochi, quindi la versione per Mega Drive è graficamente “castrata” per stare su una console tecnicamente meno evoluta di un coin-op e oramai vicina alla morte. Comunque preferisco la versione MD, aveva meno poligoni 😀 ).

Intervista a Paolo Pedercini (la Molleindustria)

Paolo Pedercini è il fondatore de la Molleindustria, realtà che intende affermare una nuova attitudine nella creazione di videogiochi, in modo tale da contemplare contenuti (quali critica sociale, politica intelligente) oggi poco considerati dal sistema dell’entertainment mondiale. La Molleindustria propone un videoludo perfettamente consapevole della propria capacità di esprimere un sistema culturale di valori e si propone di esplorarlo, fin nei suoi più reconditi recessi.

La Molleindustria

Ciao Paolo, raccontaci qualcosa di te e di come sei arrivato alla creazione della Molleindustria.

Dopo alcuni anni di militanza politica tradizionale ho capito che il principale problema dei gruppi e partiti progressisti fosse quello di non riuscire ad intervenire sul piano della cultura pop. Ho abbandonato alcune attività e mi sono ritrovato con un po’ più di tempo libero, così ho pensato di riprendere in mano la vecchia passione dei videogiochi che avevo del tutto abbandonato dopo la terza superiore.

Nel manifesto, esprimi la necessità che “alla critica teorica si debba necessariamente affiancare una pratica alternativa di game design. Perché i videogiochi non sono intrinsecamente ‘armi di distrazione di massa’ ma hanno un immenso potenziale espressivo e comunicativo ancora da scoprire“. Dopo oltre due anni, ritieni di aver raggiunto dei buoni risultati in questo senso?

In generale penso ci siano stati dei notevoli passi in avanti negli ultimi anni riguardo la comprensione dei videogiochi. Sono apparsi tanti titoli che hanno costretto giocatori, critici e persino giornalisti a prendere sul serio il bistrattato medium. Solo la classe politica italiana è ancora impantanata sul famigerato binomio violenza & videogame, ma ho fiducia che nei prossimi decenni le cose cambieranno anche su quel fronte. Più che altro cambieranno i politici. Essendo tutti ultracinquantenni moriranno abbastanza presto. Per quanto riguardo le pratiche alternative di game design ho visto veramente pochi buoni esempi di giochi “con finalità persuasive” che tentino di esprimere un messaggio attraverso un gameplay originale. Quindi la risposta è no.

Secondo la tua esperienza, qual è il percorso che parte dal concepimento di un’idea ed arriva alla concretizzazione di un videogioco?

Faccio tanti schemini su fogli volanti e li cestino man mano che le cose vengono implementate. Per il McDonald’s videogame ho iniziato a fare mucche senza avere veramente un’idea complessiva. Penso sia una versione un po’ più punk dell’Extreme Programming o qualcosa di simile al fast prototyping proposto dall’experimental game project. In media impiego un tempo infinito visto che attualmente 9 giochi su 10 rimangono vaporware. I giochi sono fatti in flash che è facile, divertente, compatibile su tutte le macchine e non ti costringe a trasformarti in un geek per far muovere due sprites.

Reputo, dal mio punto di vista, che la tua produzione dedicata al “sistema” McDonald’s sia tra le più interessanti: esplicita quanto lo stile di vita occidentale pesi sul resto del mondo, quanto malsano per la società possa risultare un modello economico. Ad esso hai persino dedicato un sito a sé stante. Credi di aver sufficientemente diffuso il tuo messaggio? E qual è stato il feedback relativo?

Credo di sì. Pensavo fosse un gioco troppo complicato o noioso (io non son mai riuscito a giocarci per più di 5 minuti) e invece è stato molto apprezzato. E’ stato tradotto volontariamente in 9 lingue e ripubblicato in un sacco di siti. Piace alla maggior parte dei casual gamers, agli appassionati di arte elettronica e agli addetti del marketing. Alcuni insegnanti lo usano nelle classi per introdurre i temi della globalizzazione, qualcuno lo scambia per un advergame vero. Sono persino andato ad una conferenza in UK invitato per errore come rappresentante della McDonald’s.

Paolo Pedercini

Il ciclo di produzione mostrato nel tuo header si fermerà mai?

Non c’è scampo, il ciclo della produzione immateriale rimarrà strategicamente centrale per molti anni a venire. Il punto non è fermarlo ma creare e difendere sfere di produzione comune non soggette (o meno soggette) al controllo del capitale. Ovviamente il capitale si adatterà alle nuove condizioni ed emergeranno nuove forme di sfruttamento ma nel frattempo ci saremo divertiti. Ecco spiegato un po’ sinteticamente il Senso Della Vita.

Che ne pensi dei “people games” sognati da Chris Crawford? Si avvicinano un po’ alla tua visione di videogioco?

Crawford è sicuramente uno dei personaggi più importanti e geniali della storia dei videogiochi. Il suo approccio “umanistico” al game design è ammirevole ma penso che il suo lavoro di ricerca nell’ambito dell’interactive storytelling sia completamente fuori fuoco. Crawford sogna videogiochi che riescano a rendere conto di tutto lo spettro dell’esperienza umana, giochi in cui finalmente abbiano un ruolo centrale i sentimenti, le passioni e le emozioni. E’ una prospettiva affascinante ma dubito che sia realizzabile nel breve termine.
I giochi, i videogiochi e le simulazioni sono insiemi di regole, possono dare vita a rappresentazioni estemamente complesse ma, a meno che non ci sia l’interazione di più persone (e in quel caso si entra nell’ambito del social software) riescono a modellizzare più che altro sistemi deterministici.
I videogiochi devono necessariamente scontare la loro natura algoritmica, ogni comportamento deve essere reso attraverso set di istruzioni, ogni elemento deve essere espresso da numeri o equazioni. La quantità prevale sulla qualità ed è difficile nonché deprimente ridurre in codice la complessità di emozioni, desideri e sentimenti. La cosa più umana e sentimentale che un computer può fare è sparare un numero random.
Questa mattina stavo giusto smanettando su una piccola simulazione di mercato del lavoro precario (parte di un gioco che probabilmente non verrà mai finito). Apparentemente si direbbe qualcosa di abbastanza freddo, ma man mano che lo implementavo mi accorgevo delle infinite variabili che avrei voluto considerare. In base a quali parametri i miei ometti virtuali avrebbero accettato un’offerta di lavoro? C’è il bisogno di reddito ma c’è anche una forte componente che riguarda il desiderio, le ambizioni, le aspettative di consumo e lo stile di vita. Ognuna di queste componenti dovrebbe essere codificata, numerizzata e calcolata in base a fattori ambientali. Per non scadere nell’appiattimento statistico a la SimCity dovrei rispettare le differenze dei singoli soggetti. Un omino dovrebbe comportarsi in maniera diversa in base al sesso, all’età, all’estrazione sociale o al fatto che è un immigrato clandestino.
Se una simulazione sociale/economica crea tanti problemi figuriamoci quelli che si dovranno affrontare quando si entra nel dominio delle passioni e delle relazioni umane.

Crawford sognava un gioco sull’innamoramento fra due ragazzi. Quelli della Rockstar hanno provato ad inserire questa componente in Bully. Comprensibilmente non hanno potuto trascurare la cotta in un gioco basato su un percorso di formazione di un adolescente ma la rappresentazione che ne hanno tratto è gelida, computazionale ed assolutamente ridicola. I meccanismi alla base del “motore sentimentale” di Bully sono cose tipo: fai colpo su una ragazza se regali un mazzo di fiori e dai tre baci e ti vesti con un fattore eleganza pari a 6. Ogni ragazza col flag innamoramento settato su “true” può essere baciata non più di 4 volte al giorno ed ogni bacio aumenta l’energia di 12 punti. Non sono affatto preoccupato per la violenza del gioco, penso sia molto più diseducativa questa rappresentazione strumentale e superficiale dei rapporti affettivi.

Chris Crawford sogna giochi sull’onore, sul sacrificio, su amori passionali ed eterni, su uomini che incontrano la verità su una strada polverosa a mezzogiorno, su prostitute dal cuore d’oro. Forse non si è mai accorto che esistono già romanzi, fumetti, film e performance teatrali che riescono a raccontare perfettamente queste cose.
Penso che dovremmo renderci conto che ogni mezzo di comunicazione ha limiti e potenzialità e che esiste una distanza incolmabile fra ciò che è narrativo e ciò che è ludico/processuale. I giochi possono essere arricchiti da cornici narrative molto complesse ma si tratta di storie abbastanza autonome dai meccanismi ludici. E’ possibile appiccicare una buona storia ad un qualsiasi gioco d’azione o trasformare un racconto lineare in qualcosa di vagamente giocabile (avventure grafiche, interactive fiction). Ma appunto non si sta più parlando di giochi nella loro specificità.

Hai mai pensato di fondare (o di entrare in) una software house per sfornare titoli desinati al mercato commerciale?

Ci penso spesso, ma l’obbiettivo non dovrebbe essere il mercato commerciale comunemente inteso. Dal momento che i giochi dovrebbero avere un intento politico non ha senso venderli come prodotti. Finirebbero (forse) per diventare una nicchia ed essere (forse) comprati solo da chi già la pensa in quel modo. Sto riflettendo su forme di finanziamento dal basso che preservino la gratuità e libertà di diffusione consentendo qualche forma di sostenibilità economica.

Come si muoverà la Molleindustria nel futuro? Quali sono i progetti in cantiere?

Solo oggi ho cambiato idea due volte riguardo a questo punto (il futuro).

Paradosso del “nuovo” e del “passato”.

Paradosso

Il videogioco già di per se è un prodotto postmoderno. Qualcosa che è formato da molteplici citazioni, rimandi, collegamenti, e, come tutti i prodotti postmoderni, vive di cannibalismo. Si ciba dei suoi stessi simili, si ricostituisce si ricrea a immagine e somiglianza di chi lo ha preceduto, trova una sua identità nel passato e sempre dal passato prende forza comunicativa e carismatica. Necessariamente questa natura non è una cosa negativa, ma l’eccesso è sempre dietro l’angolo. Ultimamente il cannibalismo dei videogiochi è diventato quasi insostenibile, remake e classic-collection stanno letteralmente esplodendo, facendo leva sui nostri ricordi sulle nostre nostalgie su i momenti migliori delle nostre vite videoludiche. Probabilmente non se ne rendono neanche conto delle emozioni che suscitano, si buttano lì nella mischia, si fanno vedere come vessilli del passato rispolverati di modernità e sperano che qualcuno abbocchi ricordandosi di quanto stava bene quando non aveva i problemi della vita di tutti i giorni. Il Passato sembra graniticamente sicuro, riproporlo sembra l’unica cosa che dia sicurezza a chi investe in questo settore. Si fagocitano i vecchi schemi, si ripongono sempre uguali perché si sa che il nuovo e lo sconosciuto spaventano o possono spaventare. In parte è vero, molti ignorano quello che possa essere il nuovo e preferiscono mettere le mani sullo stesso gioco che hanno sempre giocato da anni.

Frogger

Il postmoderno alla fine è una miscela mutevole che non presenta mai un’identità unica. Lo stesso termine “postmoderno denuncia subito la natura sfuggente di quello che dovrebbe identificare”. “Post” vuol dire dopo e “moderno” indica invece qualcosa che sta avvenendo in questo momento. Quindi, qualcosa di postmoderno è qualcosa che è qui ora ma che è già passato. E’ un paradosso temporale e i videogiochi non ne sono esenti. Nascono che sono già passati, sono davanti ai nostri occhi, ma il momento dopo svaniscono per poi ritornare anni dopo sotto altre forme.
Il nuovo è in crisi mentre il passato dà sicurezza, ma qual è veramente il passato e qual è veramente il nuovo? In futuro forse non saremo più capaci di distinguerli.

P.S. La definizione di Post Moderno che ho riportato è di Gianni Canova, e si trova nel suo libro “L’Alieno e il Pipistrello” edito da bompiani.

Piattaforme cartacee

I platform 2D su console casalinghe sono ormai merce rara e quei pochi che escono sul mercato li trovo eccessivamente contaminati dagli sparatutto. E’ per questo che l’imminente avvento di Super Paper Mario su Nintendo Wii, rappresenta una boccata di goduriosa aria fresca. Definirlo un platform 2D è però riduttivo, una caratteristica peculiare del titolo Nintendo è la possibilità di percorrere i livelli anche in profondità. Con la pressione di un tasto, la telecamera balzerà alle spalle di Mario, permettendogli di muoversi (per un tempo limitato) all’interno del livello, in 3D, scoprendo qualche segreto celato dalla visuale laterale e dandogli la possibilità di superare degli ostacoli apparentemente insormontabili. Ciò che salta all’occhio, comunque, è l’aspetto estetico: un tratto netto e “piatto” già usato negli episodi RPG della serie, che si fonde con alcuni elementi realizzati in stile bambinesco, forme abbozzate, spigolose e a tratti volutamente confuse. Formula alquanto vincente, per quel che mi riguarda: osservare il gioco in movimento è davvero una gioia per gli occhi (un interessante video da YouTube, che mostra alcuni colpi di genio presenti in questo titolo).

Super Paper Mario

Non mi dilungherò oltre sulle caratteristiche del gioco, il video e le immagini parlano da sole, sappiate soltanto che ci sarà molta carne al fuoco per deliziare gli amanti del genere e anche chi vorrà cominciare da questo titolo. Fra qualche mesetto tra le nostre vogliose mani (in USA uscirà ad Aprile), sperando solo di non dover scazzottare con qualche forzatura imposta dall’uso dei particolari controlli del Wii (che trovo poco adatti a un platform 2D classico).

Virtual denaro ma pur sempre denaro

Una delle più grandi sfide dei videogames sempre più connessi dei prossimi anni sarà quella dell’identità, o meglio, del garantire un mapping univoco tra identità virtuale e identità fisica nonostante l’anonimato. Questo problema, quasi un controsenso, è alla base di moltissime ricerche in seno a Microsoft ed IBM. Se da un lato garantire utenze multiple ad ogni utente può far comodo ai fini del marketing (magari creando utenze che non esistono, oppure tralasciando quante delle utenze riportate siano realmente univoche), dall’altro mina la qualità della vita degli utenti online. Drama Queen o no, il fenomeno dei doppiogiochisti (comune sin dalla nascita delle chat) è sempre stato molto rilevante nel gioco online. Persone fondamentalmente disoneste (o più semplicemente contorte) che amano impersonare diversi individui, anche contemporaneamente, per creare conflitti, truffare i compagni di gioco o semplicemente per divertirsi rovinando il gioco al prossimo. L’aspetto curioso è che mentre molti giocatori online ritengano plausibile che alcuni loro colleghi possano effettuare quanto detto sopra, spesso danno per scontato che ciò non possa essere fatto dai developer o dai publisher dei loro giochi preferiti.

Con l’avvento dell’mCommerce (permettetemi di usare questo termine per descrivere tutti i tipi di transazioni effettuabili online che permettono di scambiare beni economici fisici), il fenomeno delle doppie identità ha assunto dei connotati che, sebbene per lo più ignorati dal pubblico, possono avere dei risvolti non banali nella vita dei nostri avatar (ma non solo). L’obiettivo di Microsoft ed IBM è quello di creare dei sistemi di autenticazione che, seppur garantiscano l’anonimato, permettano di mettere in relazione i diversi alter-ego di uno stesso utente in maniera del tutto trasparente e non necessariamente limitata al gioco. Intendere il gioco online come un ambiente chiuso ed isolato è un’idea fallimentare: è necessario estendere la persistenza delle nostre identità digitali oltre il semplice gioco ed integrarle nelle community che sempre più spesso si creano attorno a questi servizi online. Diventa sensato voler sapere se una delle persone a cui affidiamo la vita a Battlefield 2 è la stessa che ci ha rovinato diversi raid a WOW per scarsa affidabilità.

L’entrata in gioco della moneta sonante anche nelle più insignificanti attività di gioco online (parliamo sia di transazioni legittime, sia di transazioni parzialmente illegittime, come il mercato nero di oggetti o moneta virtuale), ha creato pericolose opportunità per i developer stessi di giocare sporco alle spalle degli utenti più ingenui. Basta una piccola escursione in Second Life per capire alcune cose della sua economia: la speranza di portare il proprio conto in attivo è minima. Fa parte del modello creato da Linden Labs: gli utenti devono spendere soldi nel gioco. Questo perché probabilmente Linden Labs non ha la disponibilità di rifondere realmente tutta la moneta virtuale che c’è nel gioco e quindi l’unico modo per garantirsi una precaria sopravvivenza rimane quella di indurre gli utenti a spendere e quindi a non avere surplus. Linden Labs non si limita a convertire valuta, spesso la conia, regalandola agli utenti come incentivo. Ultimamente mi sono stati accreditati 1500L$, grosso modo 5$, per via della mia scarsa assiduità. Second Life ha 4.6M di utenti, che non giocano quasi mai (le sue punte di concorrenza sono di circa 30K utenti, in un mese si connettono solo 1.5 milioni di utenti univoci). Anche ammettendo che solo 2 milioni di utenti sono così poco assidui come lo sono io (dovrebbero essere più di 3M), con l’ultima campagna di incentivazione sono stati creati dal nulla circa 10 milioni di dollari. Che succederebbe all’economia nella First Life se molti richiedessero quei soldi indietro, anche solo per una banale coincidenza? SL sopravvive perché è il sogno del consumismo più sfrenato: tutto è un distributore. E’ un luogo in cui si paga per lavorare, senza alcuna garanzia di guadagno, anche per attività banali come chiedere l’elemosina è spesso necessario affittare da altri e senza garanzia alcuna il luogo in cui operare.

Warning!

Chiarito questo concetto fondamentale, c’è un altro nodo da sciogliere che per la maggior parte degli intervistati nel meta-mondo è del tutto inessenziale o dato per scontato: chi mette a disposizione questi distributori? Quasi tutti gli abitanti di Second Life intervistati (85%, su un campione di 300) sono pronti a giurare che sono semplici utenti del meta-mondo, pochissimi hanno seri dubbi (appena il 2%), una esigua minoranza (13%), presumibilmente quella che si ritiene più esperta, ti fa notare stizzita che se ci fossero interessi di Linden labs in alcuni degli esercizi commerciali di SL, essi sarebbero tutti controllati dagli avatar dal cognome Linden, che identificano proprio lo staff di Second Life. Beata ingenuità.

Come accade per qualsiasi altra attività svolta su internet, alcuni commenti sono dovuti alla semplice ignoranza tecnologica degli utenti: come molte persone pensano che internet di per sé possa garantire l’anonimato, molte pensano che in SL ci sia un ente semi-divino che vincoli lo staff aziendale ad essere identificato automaticamente. La maggior parte, inoltre, sono convinti che ci sia una sostanziale stabilità nell’economia del gioco, che Linden Labs possa sempre mantenere un equilibro in valuta reale tra entrate ed uscite.

Con queste premesse è del tutto illogico pensare che Linden Labs stessa non aiuti il sistema creando maggiori opportunità di spesa per gli uenti, disseminando alcuni dei più casuali ed economici distributori sotto un falso nome. Di certo non incontrerebbe ostilità nell’utenza che non sembra capire sino in fondo come funziona il sistema Second Life.

Danza che ti pago

Il problema è che in nessun mondo persistente online si possono avere sicurezze sull’identità del nostro interlocutore, proprio perché dietro ogni avatar non c’è una certification authority univoca che possa fornirci delle credenziali anonime ma affidabili su un qualsiasi soggetto. Inoltre, anche se esistesse questo ente certificatore, nessuno potrebbe escludere la possibilità di creare prestanomi operanti per nostro conto. Al momento ci troviamo di fronte ad un Far West senza controllo in cui chiunque possieda un gioco online può creare ricchezza praticamente dal nulla, con conseguenze che potrebbero essere catastrofiche per l’economia reale, tanto più l’mCommerce viene lasciato libero di operare senza controlli.

Il problema è ancor più complesso nei giochi online in cui sia presente un florido mercato nero. Ad oggi non esiste MMOG che non contempli l’obbligatorietà del farming (il dover spendere un consistente numero di ore per ottenere oggetti, avanzamenti o ricchezze in-game) come componente essenziale di gioco, nonostante siano anni che il farming commerciale viene stigmatizzato dai vari developer e publisher. L’unica strategia di game design realmente valida (eliminare le meccaniche basate su farming) per bilanciare la situazione è l’unica che non è stata mai intrapresa. Tutto ciò sembra avvallare una popolare teoria che vedrebbe, dietro questi grossolani errori di game design, una scappatoia economica per i developer: quel botting e quel farming che non si riescono mai a debellare, nonostante epurazioni e patching continui, sarebbero attività commerciali collaterali gestite da terzi con un appoggio interno, per far fronte alla montante pressione economica che i publisher effettuano sugli studi di sviluppo.

Farming

Anche la persecuzione del farming solo in specifici momenti sembra vista da molti come un mezzo per far rincarare i prezzi del mercato nero quando essi diventano troppo bassi e poco remunerativi. E’ ancora più curioso notare che solo il farming che crea profitto è perseguito, mentre attività di farming interne al gioco che mirano all’esplicito sbilanciamento degli equilibri a favore di una esigua minoranza degli utenti (i classici power-player che controllano da sempre l’economia e il gioco ad alti livelli in qualsiasi MMOG), sono del tutto tollerate. Tutto ciò sembra sottolineare una tangibile intenzione nel mantenere il monopolio del farming commerciale nelle mani di poche e fidate persone, piuttosto che nell’intraprendere una semplice attività volta al controllo della qualità di gioco.

Come difendersi da ciò? Se Linden Labs potrà essere ritenuta economicamente responsabile delle proprie azioni (e dell’eventuale bancarotta di istituti finanziari e risparmiatori) e potrà essere limitata o posta sotto stretto controllo fiscale in futuro, è molto più difficile cercare di controllare il mercato del farming illegale, che spesso prolifera proprio in paradisi fiscali o in stati in cui la manodopera non costa nulla (permettendo di praticare l’attività senza ricorrere ad hack o exploit, ma solo giocando continuamente con centinaia di account controllati da diverse centinaia di operai). Il farming illegale opera in una zona grigia del mondo economico: nessuna grande multinazionale investe in esso (almeno non apertamente), non emette azioni e non riceve finanziamenti pubblici. Escludendo i costi sociali che potrebbe avere un reale giro di vite contro queste attività (ammesso poi che siano realmente illegali, per ora solo alcune stiracchiate EULA asseriscono ciò e per i farmers è più semplice aprire un nuovo account in seguito ad un ban, piuttosto che contestarne la legalità), il costo economico per la società sarebbe risibile rispetto al crack di un colosso del Fuffa-Ware come Linden Labs.