[Anteprima] SEGA Racing Studio

Son già passati quasi due anni dalla fondazione di questo studio occidentale, su cui SEGA sembra puntare molto. Questo lo si nota già dai progetti in mano al team, che ha l’obiettivo di rilanciare l’immortale brand di SEGA Rally dopo la brutta figura rimediata con il meno che mediocre SEGA Rally 2006 (mai uscito dal Giappone, data la qualità del gioco, salvato per lo più grazie all’inclusione della versione Arcade Perfect del primo immortale capitolo della serie). Dalla prematura dipartita del glorioso Dreamcast, SEGA ha collezionato un bel pò di brutti giochi (salvo alcuni casi, vedi Outrun 2, Virtua Fighter 4/5, Super Monkey Ball, Ryu Ga Gotoku e Virtua Tennis 3) e adesso sta facendo il possibile per riprendersi. Certo, suona strana la creazione di un team occidentale (con sede in UK) per lo sviluppo dei racing games (che una volta coordinava il buon Yu Suzuki con i mitici AM2), forse, però, non è una scelta tanto discutibile.

SEGA Racing Studio

Con a capo Guy Wilday (di certo non un novellino, ha partecipato allo sviluppo dei primi Colin McRae Rally in Codemasters) e un team di sviluppatori con esperienza nel settore (tra cui alcuni ex membri di Criterion), SEGA vuole tornare a dettar legge nel campo dei racing arcade moderni. L’obiettivo di SEGA Racing Studio è quello di sviluppare due titoli all’anno, non è un pò troppo?

Sega Rally Revo è in costante sviluppo e manterrà lo stile arcade dei precedenti episodi (tappe brevi sempre in compagnia di altri concorrenti), con un pizzico di profondità in più. In uscita dopo l’estate per le piattaforme di nuova generazione.

Circolano anche delle insistenti voci di corridoio su un possibile ritorno del brand Daytona USA, arcade indimenticato e tutt’oggi ancora giocato nelle sale giochi di tutto il mondo. Noi restiamo qui, a sognare.

Forum Highlights #1

Il forum di Ars Ludica ha ospitato, in queste ultime settimane, discussioni davvero interessanti che meritano di essere richiamate in questa sede (con il presente post, infatti, verrà inaugurata una nuova usanza, quella cioé di segnalare, periodicamente, alcuni thread – secondo l’insidacabile giudizio di chi scrive 😀 – al fine di aumentare la loro visibilità).

Bambole o avatar?
In quali casi il nostro alter ego assume la forma di mera interfaccia per il mondo di gioco (è il caso della “bambola”) o consiste nel personaggio che vogliamo impersonare (è il caso dell'”avatar”)? Oppure la questione è molto più complessa?

Decostruzione del Gameplay
Paolo Tajé (in arte Monkey Soft) propone un nuovo metodo per analizzare il gameplay, basato su una scomposizione dei componenti fondamentali del gioco e una ricostruzione all’interno di una struttura ordinata basata su Layer. Scoprite come!

Eutanasia in Trauma Center
La trama di Trauma Center: Under the Knife è piuttosto banale, riempita del solito complotto di un’organizzazione segreta che vuole infettare tutti con una misteriosa patologia. Però… c’è un evento, secondario al canovaccio e davvero “inutile”, nel quale si scopre che un collega del protagonista pratica l’eutanasia, e che viene praticamente “perdonato” ed, anzi, giustificato. Perché i creatori di TC hanno voluto un simile riferimento? Com’è possibile che il dettaglio sia sfuggito alle censoree maglie dei media tradizionali?

Tu chiamale se vuoi…
C’è chi sostiene che i videogiochi facciano suscitare poche emozioni rispetto ai film, che poche volte abbiano preso una strada diversa dallo spara, uccidi, ammazza, con qualche concessione al costruisci, all’esplora e rarissime escursioni sul ridi e sull’eiacula. Se qualcuno ha qualcosa da dire, parli adesso o taccia per sempre. 😀

OKAMI
Ciò che impressiona immediatamente della fatica Clover Studio è il suo stile grafico, forse il requiem più sontuoso che una console come la PS2 potesse desiderare. Quali sono le vostre impressioni?

Cosa volete da una Webzine, oggi?
Ogni Webzine racchiude in sé molteplici significati: oltre a quello che vi si trova esplicitamente scritto, una creazione del genere contiene anche le visioni, le pulsioni, le passioni di chi vi si dedica con tanta abnegazione. Non si mette assieme una Webzine per compiacere gli altri, lo si fa per conoscere meglio se stessi. E voi, creatori o fruitori, cosa volete in proposito?

Editoria videoludica
Il mondo delle riviste italiane di videogiochi è stato ancora una volta sconvolto da manovre di mercato, che rischiano di portare alla chiusura definitiva di alcune testate. Quali sono i periodici (in tema, ovviamente, coi videogiochi) che più vi piace sfogliare? Siete preoccupati per la sorte di qualcuno?

– [OT] Sono sicuramente un eretico: Ken il guerriero…
Hokuto No Ken è un manga/anime che ha fatto storia, conosciuto ed apprezzato quasi da tutti. Quali sono i suoi punti di forza? Da dove nasce il suo fascino?

Sfogliando la lista qui sopra potrà sembrare che non vi siano altre chiacchierate degne di nota: nulla di più falso, e vi invitiamo a scoprirlo coi vostri occhi puntando i browser nell’opportuna direzione. Have fun!

Intervista a John Romero

Talvolta per ottenere un’intervista ci vogliono mesi, però alla fine, quando arriva in casella la risposta tanto attesa la felicità è grande…

Intervista a John Romero
a cura di Emanuele “[e]MaCk” Colucci

Romero

Per i più, il tuo nome è noto grazie al primo grande capolavoro di id, Doom; non si sa molto, però, dei tuoi primi passi nell’industria durante gli anni Ottanta. Cosa ti piace ricordare di quel periodo?

DoomRicordo quanto fosse divertente imparare ogni cosa avesse a che fare con l’Apple II, computer sul quale ho programmato per 10 anni. Il senso di scoperta, la novità dell’industria videoludica (come di tutta l’industria informatica, del resto). Mentre succedeva tutto questo, gli arcade erano sulla cresta dell’onda e nuovi giochi venivano rilasciati ogni settimana. E’ stata un’epoca fantastica! Non la dimenticherò mai. Talvolta mi piace rammentare quei tempi, felice di essere ancora in grado di ricordare come mi sentissi e desidererei tradurre tutto ciò in parole – ma è molto difficile perché era così unico! Un giorno troverò le parole giuste.

Tu e la id avete creato un genere dal nulla. Sin dal 1992, gli fps si sono evoluti più dal punto di vista tecnico che concenttuale (eccetto alcuni titoli, come Quake o Half-Life). Concordi? Come immagini il futuro degli sparatutto in prima persona?

Sono fermamente convinto che il futuro degli FPS risieda nella via intrapresa da Valve. Il senso di immersione e di libertà di scelta unito all’ampia gamma di manipolazioni ambientali raggiunti con Half Life 2 sono ciò che gli utenti desiderano vedere. Sono contento che con l’affermarsi della formula ad episodi vedremo il futuro più velocemente. Episode One è stato un titolo eccellente e sono veramente eccitato per la pubblicazione di Portal.

A proposito di Daikatana, hai scritto: “non si trattava del gioco dei miei sogni, ma di un gioco il cui intero design era il mio sogno”. Puoi spiegare meglio quest’affermazione?

Per ogni gioco che realizzo, fondamentalmente comincio ad inventarlo nello stesso momento in cui comincio a lavorarvi. Non è come se desiderassi di creare qualcosa che non mi è permesso fare. Con Daikatana miravo a creare un FPS il cui design fosse interamente mio. Se fosse stato possibile, allora avrei amato programmarlo – però un simile metodo oggi è impossibile da attuare per un titolo così “grande”.

Una domanda scomoda: puoi svelarci qualcosa sul tuo “progetto segreto” dopo la rottura con Midway? (ad esempio, perché sarà “differente da ogni altro MMO”?)

Sfortunatamente, non posso dire niente di più oltre al fatto che sto lavorando ad un MMORPG per PC. Midway è stato uno di quei rari casi in cui ho lavorato per qualcun altro – cercavo semplicemente un diversivo dal dirigere compagnie. Dopo quei brevi 18 mesi sono tornato a percorrere la mia strada. Credo che il mio attuale progetto sarà importante tanto quanto DOOM o Quake, ma in un senso diverso.

Qual è il tuo punto di vista a proposito della pubblicità nei giochi? Si tratta di un buon modo per abbattere costi di produzione sempre più elevati o semplicemente di una tentazione diabolica per le anime degli sviluppatori?

Penso che la si possa accettare se posta nel giusto contesto. La pubblicità nei giochi sportivi va bene. Uno spot futuristico di scarpe Nike in Half Life 2 Episode 2 probabilmente sarebbe tollerabile, ma dovrebbe essere credibile per risultare accettabile.

Nintendo sta provando a distinguersi dalle concorrenti creando console dalle caratteristiche peculiari, al fine di “espandere il mercato”. Iwata sta già completando questa missione col DS oppure solo col Wii un simile obiettivo potrà essere raggiunto?

Nintendo è indiscutibilmente “the master of gaming” (ho lasciato la locuzione come in originale per non alterare la sua forza, nd[e]MaCk). Grazie all’innovatività del suo hardware, ha reso possibile nuove espressioni creative nei giochi; amo tutto questo tanto quanto qualunque sviluppatore alla ricerca di qualcosa di nuovo e interessante.

Quanto incide un grande budget nello sviluppo di un videogioco?

I budget sono cose molto particolari. Un budget deve coincidere con i tuoi obiettivi qualitativi e quantitativi. Se stai creando un casual game di bassa qualità te la puoi cavare con poco. Ma un MMORPG tripla A è oggi il progetto più costoso si possa portare avanti. Anche lo sviluppo di giochi per cellulare spazia da titoli low-end J2ME a prodotti di più alta qualità Symbian/BREW, con differenze di molte centinaia di migliaia di dollari. Il tutto dipende da molti fattori, incluse le licenze di IP e tecnologie, che vanno ad aggiungersi agli altri.

Perché hai venduto la tua bellissima Ferrari? Dì la verità, ti dispiace almeno un poco?

Ho dato via la mia Ferrari perché non la usavo molto, all’epoca. Per anni sono stato troppo occupato nel programmare giochi ogni giorno e tutti i giorni, vivendo in campagna senza alcuna ragione di andarmene in giro con una pazza macchina gialla. No, non mi manca molto.

[intervista originariamente apparsa su GameProg-Ita]
Gpi

Wii: prove tecniche di democrazia diretta

Wii ConsoleCome comunicato giorni fa in una press release ufficiale, Nintendo ha varato il nuovo canale Everybody Votes. Il sistema è semplice quanto ingegnoso: il canale sottoporrà periodicamente nuovi sondaggi agli utenti. Essi saranno visualizzabili e contestualizzabili regionalmente o su un gruppo di contatti, per avere un resoconto delle opinioni collettive.

Sarà anche possibile prevedere l’esito dei sondaggi: ogni utente avrà memorizzato nel suo profilo quanto è in sintonia con la pubblica opinione.

In aggiunta a queste funzionalità, il pubblico potrà sottoporre nuove domande per i sondaggi, domande che saranno decise, apparentemente, sempre su base democratica. Inoltre, ogni due settimane ci saranno appositi sondaggi su scala mondiale, i cui risultati saranno monitorabili in tempo reale.

Senza pensare alle possibili implicazioni su profiling e marketing del nuovo canale, è importante notare come il servizio possa essere visto come uno dei primi metodi di massa per sperimentare strumenti di democrazia diretta. Nonostante la frivolezza dei sondaggi iniziali. Sarà bene osservare se dalla massa affioreranno interrogativi importanti ed universalmente riconosciuti dalla società moderna, come problemi etici e/o ambientali. L’importanza è ancora maggiore proprio perché il Wii non nasce come uno strumento ufficiale di eGovernment (come è successo in Europa per il Digitale Terrestre, con gli scarsi risultati che tutti sappiamo) ma come un semplice strumento sociale.

L’identificazione del Wii come strumento sociale, piuttosto che come semplice estensione del sistema di governo esistente, è importante: lo libera di pesanti investiture ufficiali che ne limiterebbero l’appeal e l’interesse verso l’utente medio.

Ovviamente il Wii non sarà mai uno strumento politico ed i suoi utenti non saranno mai un campione significativo della società odierna. Tuttavia, l’essere orientato ad una utenza fatta non solo di videogiocatori accaniti e l’avere come target una fascia demografica molto eterogenea, ne fanno un mezzo di comunicazione di massa ideale per un dibattito interattivo e, soprattutto, divertente.

Il fenomeno MMORPG: Le mie preoccupazioni

Mi sento oppresso. Più mi guardo in giro e più mi rendo conto di quanto questo genere stia prendendo piede. Tagliando corto, la mia impressione (e preoccupazione) è che i MMORPG stiano un pò tagliando le gambe ad altri generi tempo fa ben più popolari, online e non. Conosco persone che non comprano più giochi da mesi e mesi, in quanto tutto il loro tempo disponibile lo riversano sopra il loro MMORPG preferito. Quando le interpello sulle motivazioni di tale scelta, rispondono che non sentono più la necessità di giocare ad altro, in quanto questo genere gli offre il divertimento necessario, tale da sentirsi pienamente appagati e contenti di versare quei 15 dollari al mese.

Fenomeno MMORPG

Giusto? Sbagliato? Da un lato, un MMORPG potrebbe essere visto come una fonte di risparmio per i videogiocatori accaniti, con soli 15 dollari al mese (cifra media che può abbassarsi in virtù di pagamenti in blocco anticipati) giochi quanto vuoi e, quando cominci a sentire un pò di noia, ecco arrivare dei contenuti aggiuntivi a ripristinarti la voglia. Dall’altro lato vedo tante software house che cercano di ritargliarsi una fetta in questo settore (ecco una lista dei mmorpg esistenti e in lavorazione), attualmente dominato da Blizzard e NC Soft, magari tagliando progetti potenzialmente interessanti, per impiegare le proprie risorse sullo sviluppo di un videogioco di ruolo massivo. Tutto ciò è sconfortante, Blizzard non accenna allo sviluppo di possibili seguiti, i cui annunci sono attesi da tempo, di blockbuster quali Starcraft, Warcraft e Diablo e ha persino fermato un progetto per console potenzialmente interessante (Starcraft Ghost). Tutto questo per dedicarsi totalmente alla sua gallina dalle uova d’oro, che ha da poco superato gli 8 milioni di utenti paganti. D’altronde, come darle torto? Se analizziamo le vendite italiane nella seconda parte del mese di Gennaio (fonte multiplayer.it), notiamo che l’espansione di WoW troneggia al primo posto delle vendite assolute di tutte le piattaforme e monopolizza il mercato pc, con tutte le varie edizioni (e anche qui ci sarebbe molto da discutere, per via del triste accordo esclusivo stipulato con una singola catena di negozi e il ridottissimo numero di copie da collezione rilasciate, per quella che alla fine dei conti è una semplice espansione) e gadget assortiti. Grazie a questo genere di giochi, l’online gaming ha riacquisito popolarità, dopo un periodo di calo di interesse generale (per lo meno sul suolo italico), a discapito però di altri generi una volta ben più gettonati (FPS in primis). I server sono sempre più vuoti e alcuni clan si sono sciolti, perchè molti membri hanno deciso di passare al lato oscuro dell’online gaming. Questo è un chiaro messaggio: il successo di questo genere è destinato ancora a crescere, probabilmente a discapito degli altri e delle esperienze single player con una trama intensa che ha un inizio e una fine.

Sperando solo che l’Europa non diventi come la Corea.

So bene che molti esperti farmatori che leggeranno questo pezzo non avranno delle piacevoli reazioni, per cui vi invito a registrarvi al nostro forum e a dire la vostra nell’apposito topic che ho aperto sull’argomento.

Il gioco ad occhi chiusi

I giochi GBA della serie “bit generation” sono tutti contraddistinti sia da una grafica minimale stilizzata ed essenziale che da un sistema sonoro primitivo, duro, elettronico, quasi retrò. E’ una serie di puzzle game che sintetizzano e riducono in minimi termini le azioni che stanno alla base di ogni videogioco: Muoversi e gestire uno spazio virtuale. Ti tutta questa serie molto interessante, Soundvoyager è quello che mi ha colpito di più, perché tenta di ribaltare l’esperienza sensoriale tipica dei videogiochi. La parola Video-gioco, contiene al suo interno la definizione di “immagini che costituiscono un gioco”, quindi il senso che privilegiano, più di tutti, è senz’altro la vista. SV invece tenta di scardinare questa prevalenza della dimensione “scopica” (prevalenza che fa parte della vita di tutti i giorni) e ci propone un modo di giocare (e quindi di muoverci e di gestire uno spazio virtuale) che privilegia la dimensione “auditva”.

Soundvoyager

Il giocatore muove una sorta di sonda spaziale immersa in un universo stellato alla ricerca di suoni persi nel vuoto. Lo scopo di ogni livello è appunto quello di collezionare questi suoni separati di modo che, uniti tutti assieme, possano formare una melodia unica. Basandoci solo sul nostro udito e aiutati dalla stereofonia (sono indispensabili un paio di buone cuffie), dobbiamo inseguire la fonte del suono che percepiamo e riuscire a passarci in mezzo, se ciò avverrà, allora il rumore si aggiungerà al sottofondo musicale che stiamo componendo e dovremo passare subito alla ricerca della fonte sonora successiva.
Oltre a questo schema di gioco base, SV propone una serie di minigiochi che coinvolgono l’uso preponderante dell’udito. Abbiamo un gioco dove dobbiamo intercettare le fonti sonore mobili che si stanno avvicinando a noi con un cannone, oppure inseguire un’altra fonte per uno spazio chiuso finche non la acciuffiamo (quando la sonda “sfrega” su una delle pareti si avverte una sorta di fruscio), oppure seguire un percorso di slalom con le porte invisibili che mandano solo dei disperati “bip”, oppure, chiusi in corsie, dobbiamo tentare di evitare di collidere con le fonti sonore che ci vengono in contro.

Soundvoyager 2

La cosa che colpisce di più, è il fatto che si possa giocare a questo videogame senza mai aprire gli occhi. Certo, la grafica offre qualche aiuto: La vicinanza delle fonti è segnalata da una sorta di soundscope e da una serie di luci multicolori che si accendono a “ritmo di musica”, ma affrontare questa esperienza chiudendo gli occhi è senza dubbio l’aspetto più interessante del gioco. Ovviamente non stiamo parlando di un capolavoro di giocabilità, ma di qualcosa che tenta di ribaltare la nostra esperienza sensoriale così come la conosciamo.

Blockbuster ce l’ha fatta

Blockbuster

Probabilmente abbiamo sempre sbagliato approccio. Nella guerra, tutta interna, per decidere se un videogioco può essere arte o no abbiamo sempre sovrapposto il nostro punto di vista all’unica strada percorribile per arrivare ad una conclusione. Da più parti ci si è prodigati per decidere se un gioco sia o meno arte. Si sono prodotte analisi estetiche, sociologiche, si sono creati volumi in cui si è abbozzata una metodologia della lettura dei videogiochi in senso critico. Si sono creati schemi, insiemi e strumenti, ancora rudimentali, per tentare di arrivare a trovare dell’arte negli ammassi di pixel in movimento che normalmente appaiono sui nostri schermi. Il risultato è stato spesso paradossale. Le analisi, più o meno lunghe e più o meno complesse, non sono mai riuscite a sciogliere questo nodo che ciclicamente ripropone le sue domande e le sue contraddizioni. La verità è che fino ad ora la critica e gli studiosi non hanno fatto altro che prendere parte ad una guerra di posizione sparando di tanto in tanto bordate contro il resto del mondo, allenandosi nel frattempo a sopportare i colpi nemici. Brutta metafora, la guerra… ma è questo che si è fatto. Più che favorire un approccio critico sereno e motivato si è tentata la scalata della montagna procedendo per tentativi e snobbando l’ovvio, come se i canali distributivi dei videogiochi non avessero già da tempo risposto a tutte le domande. In realtà quella che si conduce è un lotta essenzialmente sociale in cui si tenta di far penetrare il medium “videogioco” all’interno di un tessuto restio alla sua assimilazione: quello formato dagli intellettuali. I tentativi di nobilitare questo nostro bistrattato medium vanno dal “permette di migliorare i riflessi dei giovani” al “spesso ci lavorano degli artisti, quindi sono opere d’arte”. Si portano ad esempio di arte ludica opere di illustratori, pittori, scultori, registi senza però chiarire mai che, nonostante l’influenza evidente, al loro interno i videogiochi sono soltanto tangenze… intertesti… magari predominanti, ma sempre altro rispetto alla fonte di partenza. Insomma, un quadro raffigurante Super Mario non è un videogioco, verrebbe banalmente da dire, nonostante l’evidente contaminazione. Il danno maggiore lo sta producendo la critica post moderna, i cui discorsi ruotano sempre intorno all’oggetto senza arrivare mai ad un’affermazione o ad una conclusione definitiva e, necessariamente, incompleta e parziale. Ora, “affermare” potrà sembrare un agire errato, il tentativo di porre dei paletti e di limitare il campo di analisi. Eppure è proprio dalle affermazioni che è possibile costruire dei discorsi intorno a cui far ruotare l’evoluzione di una teoria del videogioco che sia più ampia possibile. Insomma, cosa sarebbe la filosofia senza il migliore dei mondi possibili? Inoltre, l’affermazione rappresenterebbe anche, finalmente, la responsabilizzazione di una critica che sempre più spesso vive di approssimazioni e di corrispondenze caotiche, di cui si pretende il senso senza riuscire a nemmeno ad immaginarlo. Purtroppo spesso si leggono libri che non riescono ad andare oltre il copia / incolla sfrenato, in nome di un citazionismo autoreferenziale che dovrebbe, da solo, essere la chiave di lettura del pensiero dell’autore intorno al mondo dei videogiochi. È un continuo costruire castelli con le stesse carte, cibandosi del lavoro di quei pochi che hanno avuto il coraggio di osare una teoria, senza però azzardarne mai una propria. Si gira in tondo per evitare di toccare terreni accidentati, contando comunque su uno zoccolo duro di fruitori che sono alla ricerca di una critica che vada oltre quella tradizionale, costretta ancora ad elencare le feature di un gioco all’interno di ogni articolo… entrando così in concorrenza diretta con i siti promozionali…

Blockbuster 2

Si continua a citare il buon Huizinga e il suo Homo Ludens (1938), depredandone continuamente le categorie. Si sono create delle parole chiave che sono ormai contenitori di senso utilizzati per impreziosire discorsi banali incorniciandoli con parole colte. Alla fine la domanda rimane apparentemente senza risposta: il videogioco è arte? Eppure basterebbe leggere le dichiarazioni d’intenti di chi li sviluppa e il modo in cui vengono pubblicizzati per rendersi conto che porsi questa domanda non ha molto senso.
L’ “arte” stessa ha adottato come criterio di autodeterminazione la collocazione nei musei e il fatto di dichiararsi arte nonostante tutto, nonostante essere ormai distante da quella che tradizionalmente viene intesa come arte. Essa stessa non sa più delimitarsi con precisione e spande i suoi tentacoli a macchia d’olio infiltrandosi e contaminandosi con le realtà più disparate. Un uomo dipinge sfruttando la brina sui vetri delle auto, fotografa la sua opera, necessariamente effimera, e ha comunque fatto arte… e discutere se quelle opere siano o non siano arte serve a poco: è l’autore stesso che le propone come tali e chi deve venderle, di conseguenza, non ha alcun motivo di dubitare della loro espressività e del fine del loro autore (anche perché altrimenti le manderebbe in un limbo paradossale in cui l’opera non avrebbe un target di riferimento).
Tutta questa riflessione nasce dalla lettura della presentazione di Okami sul catalogo di Blockbuster, in cui il titolo del defunto Clover Studio viene associato a Ico e a Shadow of the Colossus e viene definito il capitolo finale di una trilogia ideale (cito a memoria… ma il senso è questo)… Chi ha scritto il catalogo, pur scrivendo una grossa imprecisione, ha forse sciolto un bel nodo creando una serie di associazioni spontanee nel lettore: non si parla di arte in modo esplicito ma si crea una rete in cui vengono inseriti tre titoli che vanno a creare un insieme coerente che è sottoinsieme dell’insieme videogiochi; un vero e proprio genere caratterizzato dalla ricerca espressiva e stilistica degli autori (nel senso che in tutti e tre i titoli c’è una ricerca espressiva e stilistica, non che siano simili stilisticamente, intendiamoci) e che ha come target di riferimento, oltre al mass market, un’utenza con esigenze più intellettuali.
Insomma, quello che per il mondo intero è dubbio, per gli addetti marketing di una multinazionale come Blockbuster (o di chi ha fornito il testo per la scheda del catalogo) è una certezza: sanno a chi possono vendere il gioco e, quindi, gli creano intorno una specie di genere con cui poterlo definire, permettendo all’utente di riconoscerlo immediatamente. Chi è Blockbuster per negare l’arte a chi cerca l’arte?

Blockbuster 3