Probabilmente abbiamo sempre sbagliato approccio. Nella guerra, tutta interna, per decidere se un videogioco può essere arte o no abbiamo sempre sovrapposto il nostro punto di vista all’unica strada percorribile per arrivare ad una conclusione. Da più parti ci si è prodigati per decidere se un gioco sia o meno arte. Si sono prodotte analisi estetiche, sociologiche, si sono creati volumi in cui si è abbozzata una metodologia della lettura dei videogiochi in senso critico. Si sono creati schemi, insiemi e strumenti, ancora rudimentali, per tentare di arrivare a trovare dell’arte negli ammassi di pixel in movimento che normalmente appaiono sui nostri schermi. Il risultato è stato spesso paradossale. Le analisi, più o meno lunghe e più o meno complesse, non sono mai riuscite a sciogliere questo nodo che ciclicamente ripropone le sue domande e le sue contraddizioni. La verità è che fino ad ora la critica e gli studiosi non hanno fatto altro che prendere parte ad una guerra di posizione sparando di tanto in tanto bordate contro il resto del mondo, allenandosi nel frattempo a sopportare i colpi nemici. Brutta metafora, la guerra… ma è questo che si è fatto. Più che favorire un approccio critico sereno e motivato si è tentata la scalata della montagna procedendo per tentativi e snobbando l’ovvio, come se i canali distributivi dei videogiochi non avessero già da tempo risposto a tutte le domande. In realtà quella che si conduce è un lotta essenzialmente sociale in cui si tenta di far penetrare il medium “videogioco” all’interno di un tessuto restio alla sua assimilazione: quello formato dagli intellettuali. I tentativi di nobilitare questo nostro bistrattato medium vanno dal “permette di migliorare i riflessi dei giovani” al “spesso ci lavorano degli artisti, quindi sono opere d’arte”. Si portano ad esempio di arte ludica opere di illustratori, pittori, scultori, registi senza però chiarire mai che, nonostante l’influenza evidente, al loro interno i videogiochi sono soltanto tangenze… intertesti… magari predominanti, ma sempre altro rispetto alla fonte di partenza. Insomma, un quadro raffigurante Super Mario non è un videogioco, verrebbe banalmente da dire, nonostante l’evidente contaminazione. Il danno maggiore lo sta producendo la critica post moderna, i cui discorsi ruotano sempre intorno all’oggetto senza arrivare mai ad un’affermazione o ad una conclusione definitiva e, necessariamente, incompleta e parziale. Ora, “affermare” potrà sembrare un agire errato, il tentativo di porre dei paletti e di limitare il campo di analisi. Eppure è proprio dalle affermazioni che è possibile costruire dei discorsi intorno a cui far ruotare l’evoluzione di una teoria del videogioco che sia più ampia possibile. Insomma, cosa sarebbe la filosofia senza il migliore dei mondi possibili? Inoltre, l’affermazione rappresenterebbe anche, finalmente, la responsabilizzazione di una critica che sempre più spesso vive di approssimazioni e di corrispondenze caotiche, di cui si pretende il senso senza riuscire a nemmeno ad immaginarlo. Purtroppo spesso si leggono libri che non riescono ad andare oltre il copia / incolla sfrenato, in nome di un citazionismo autoreferenziale che dovrebbe, da solo, essere la chiave di lettura del pensiero dell’autore intorno al mondo dei videogiochi. È un continuo costruire castelli con le stesse carte, cibandosi del lavoro di quei pochi che hanno avuto il coraggio di osare una teoria, senza però azzardarne mai una propria. Si gira in tondo per evitare di toccare terreni accidentati, contando comunque su uno zoccolo duro di fruitori che sono alla ricerca di una critica che vada oltre quella tradizionale, costretta ancora ad elencare le feature di un gioco all’interno di ogni articolo… entrando così in concorrenza diretta con i siti promozionali…
Si continua a citare il buon Huizinga e il suo Homo Ludens (1938), depredandone continuamente le categorie. Si sono create delle parole chiave che sono ormai contenitori di senso utilizzati per impreziosire discorsi banali incorniciandoli con parole colte. Alla fine la domanda rimane apparentemente senza risposta: il videogioco è arte? Eppure basterebbe leggere le dichiarazioni d’intenti di chi li sviluppa e il modo in cui vengono pubblicizzati per rendersi conto che porsi questa domanda non ha molto senso.
L’ “arte” stessa ha adottato come criterio di autodeterminazione la collocazione nei musei e il fatto di dichiararsi arte nonostante tutto, nonostante essere ormai distante da quella che tradizionalmente viene intesa come arte. Essa stessa non sa più delimitarsi con precisione e spande i suoi tentacoli a macchia d’olio infiltrandosi e contaminandosi con le realtà più disparate. Un uomo dipinge sfruttando la brina sui vetri delle auto, fotografa la sua opera, necessariamente effimera, e ha comunque fatto arte… e discutere se quelle opere siano o non siano arte serve a poco: è l’autore stesso che le propone come tali e chi deve venderle, di conseguenza, non ha alcun motivo di dubitare della loro espressività e del fine del loro autore (anche perché altrimenti le manderebbe in un limbo paradossale in cui l’opera non avrebbe un target di riferimento).
Tutta questa riflessione nasce dalla lettura della presentazione di Okami sul catalogo di Blockbuster, in cui il titolo del defunto Clover Studio viene associato a Ico e a Shadow of the Colossus e viene definito il capitolo finale di una trilogia ideale (cito a memoria… ma il senso è questo)… Chi ha scritto il catalogo, pur scrivendo una grossa imprecisione, ha forse sciolto un bel nodo creando una serie di associazioni spontanee nel lettore: non si parla di arte in modo esplicito ma si crea una rete in cui vengono inseriti tre titoli che vanno a creare un insieme coerente che è sottoinsieme dell’insieme videogiochi; un vero e proprio genere caratterizzato dalla ricerca espressiva e stilistica degli autori (nel senso che in tutti e tre i titoli c’è una ricerca espressiva e stilistica, non che siano simili stilisticamente, intendiamoci) e che ha come target di riferimento, oltre al mass market, un’utenza con esigenze più intellettuali.
Insomma, quello che per il mondo intero è dubbio, per gli addetti marketing di una multinazionale come Blockbuster (o di chi ha fornito il testo per la scheda del catalogo) è una certezza: sanno a chi possono vendere il gioco e, quindi, gli creano intorno una specie di genere con cui poterlo definire, permettendo all’utente di riconoscerlo immediatamente. Chi è Blockbuster per negare l’arte a chi cerca l’arte?
Credo che da un lato abbiano fatto bene a presentarlo come un gioco stilisticamente curato e accostarlo a ICO e SotC, però, chi ha amato questi due titoli, sà già dell’esistenza e dell’arrivo di Okami. Dall’altro lato credo che un casual gamer potrebbe confondere il tutto, considerandolo come un seguito di due giochi che non ha mai giocato..
“Si continua a citare il buon Huizinga e il suo Homo Ludens (1938)”
chissà perché comincia a bruciarmi la coda (di paglia)… :asd:
Per il resto, Karat ha ottimamente affermato un principio diffuso nell’industria videoludica: creare categorie. Ad esempio, è deprimente constatare come ci si scanni – nei forum, nelle chiacchiere tra amici, sulle riviste – con la definizione di hardcore/casual gamer, quando poi si tratta di una classificazione inventata dal reparto marketing di una compagnia per indicare genericamente insiemi di persone.
Il principale difetto della critica sta nell’incapacità di fissare dei concetti in maniera autonoma. Insomma: è o no la critica stessa un’arte? Che la si faccia, allora!
Anche io, purtroppo, mi sento incapace di fare ciò che Karat suggerisce, cioé di “fare delle affermazioni”, perché sento la terra sotto i miei piedi franare quando mi avventuro in tali sentieri…
Homo Ludens l’ho letto anche io, ed è un testo interessantissimo, intendiamoci… solo che ormai lo si trova riportato di peso in qualsiasi saggio a tema videoludico…
Che sia arrivata l’ora di una “Nouvelle Vague” anche per i videogiochi? Si deve ormai prendere atto che il mondo dei Videogiochi è ormai diventato un’industria, un’industria che produce “per generi”, come la Hollywood classica.
Comunque Jean Epstein, quando parlava di cinema all’inizi del novecento, parlava sempre delle sue impressioni e analizzava i film con i suoi strumenti inventati da lui medesimo. Lo stesso facevano i suoi colleghi come Delluc e Canudo, e tra di loro discutevano confrontando le proprie teorie. Io penso che non dovremmo avere paura di creare ed esprimere le nostre teorie e affermazioni attraverso le impressioni che abbiamo di cio che giochiamo. Possiamo usare delle fonti per darci manforte o per trovare ispirazione, ma sta a noi (non per forza solo noi di ars ludica eh) fare un “nuovo lavoro”. Almeno io la penso così.
Ebbene sì: cultura per le masse. Se le multinazionali prendessero coscienza di questa responsabilità il mercato potrebbe cambiare.
E non dimentichiamo l’abbordabilità del videogioco usato spinto nei negozi Blockbuster. Il prezzo è un argomento che non passa mai di moda…
boh, secondo me creare a tavolino il genere del videogioco artistico è una cosa un po’ ridicola……
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