LostWinds

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LostWinds lo ami subito perché il protagonista è un bambino peruviano che si è perso in una grotta e incontra lo spirito del vento. La musica ti avvolge regalandoti un’atmosfera di pace e tranquillità. Poi afferri il Wiimote e ti metti a carezzare i ciuffi d’erba perché… non lo sai perché. Lo fai e basta perché non lo hai mai fatto e ora che puoi farlo non vedi il motivo di non farlo. Avanzi nel gioco e impari il salto e il doppio salto. Impari a planare e a lanciare mostri. Esplorando il mondo di gioco l’atmosfera non cambia. Di fronte ai salti più complessi un po’ di rimpianti li hai perché non riesci a essere sempre preciso come servirebbe e immagini che Super Mario non avrebbe avuto tutti quei problemi a raggiungere quella dannata sporgenza dopo la pressione di un singolo tasto. Poi ti rendi conto che è tutto un fatto di abitudine e che è solo una resistenza leggera alla novità che genera pensieri tanto conformisti e torni a far soffiare il vento e ad esplorare un mondo fin troppo lento per i ritmi a cui sei abituato.

E ti rendi conto che sul Wii vorresti vedere più LostWinds e meno Tamagotchi. E ti rendi conto che in fondo stai giocando con una console traditrice che promette rivoluzioni che non arriveranno mai, se non in senso antropologico. E in fondo capisci che quell’idea del vento è ottima, ma non ha futuro perché è solo vento. Leggi il nome dello sviluppatore: Frontier Developments. Dietro a LostWinds c’è David Braben, quello di Elite? Sì. Sarà vecchio, ormai.

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Ti viene in mente che negli anni Frontier ha tentato di proporre titoli originali (non solo… hanno anche pensato a conservarsi con i vari Rollercoaster Tycoon, che da noi non hanno avuto un grosso impatto, ma negli USA hanno venduto qualche milione di copie) accolti in modo negativo. E pensi che la loro Dog’s Life era molto diversa da quella dei Nintendogs. I cuccioli carini hanno azzannato quelli cinici e li hanno ridotti a brandelli, poi sono tornati a scodinzolare sullo schermo. Come ci sono arrivati al vento? Come sono arrivati a tanta sublime leggerezza?

Chissà. Forse si tratta dell’approdo naturale di chi ha viaggiato nello spazio e, impossibilitato a tornare indietro, è costretto ad abdicare dedicandosi ad altro. Oppure è semplice calcolo e dietro non c’è assolutamente niente, se non la voglia di sfruttare un po’ quel telecomando che per molti appare sempre più come un idolo infranto. In questo senso LostWinds è già quell’outsider next-gen che la Frontier sta ultimando. Un caso unico di solitudine videoludica.

Old Republic, Old Ways

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Scommetto che molti di voi attendono, se non altro per curiosità, Star Wars: The Old Republic di Bioware.

Essendo un MMOG, è scontato che attorno e dentro il gioco si verifichino dei fenomeni creativi più o meno validi che vadano ad attingere dal lore del gioco e di Star Wars in generale. In fondo è così dai tempi dei MUD: i giocatori più entusiasti amano approfondire ed arricchire il contesto del gioco in cui passano il tempo. Dal lato Bioware, abbiamo da sempre assistito al supporto alla parte più creativa della community dei loro giochi, che non si è limitato a fornire gli editor di contenuti, ma che da sempre vede un gruppo di developer aiutare chiunque chieda consigli o dritte direttamente sui forum ufficiali.

Non nascondo quindi, che mi abbia colpito come una tegola in testa la notizia che Bioware abbia aggiornato i termini di servizio di Old Republic, con una postilla piuttosto inusuale. Dalle loro stesse parole:

For clarification, if you create any Content which is derived from any intellectual property or proprietary rights of LucasArts and/or BioWare (regardless of whether such Content is submitted to LucasArts and/or BioWare) such Content is owned by LucasArts and/or BioWare. You hereby assign all right, title and interest (if any) to such Content and waive any claims that you may have relating to such Content, including, but not limited to, claims for compensation, attribution or any moral rights with respect to such Content.

Bioware non è nuova a limitare l’usabilità dei contenuti generati dai propri giochi: qualcosa di simile era presente anche nelle licenze dei toolset di Neverwinter Nights, si sanciva infatti l’impossibilità di commercializzare il lavoro svolto se non tramite l’eShop di Bioware. In quel caso l’autore avrebbe ottenuto una fetta dell’incasso. Un compromesso accettabile anche se opinabile, visto che per produrre un buon modulo per NWN, toolset a parte erano necessarie anche la creatività dell’autore e decine di ore del suo tempo personale, merce non a buon mercato e molto rara da trovare. Ci furono ovviamente degli errori di percorso, come perseguire chi chiedeva donazioni per continuare a realizzare nuovi moduli, ma alla fine si trovò il compromesso integrando i nuovi asset creati in questo modo nei vari community pack che Bioware distribuisce gratuitamente dal proprio sito.

Lucas, dal canto suo, ha una lunga e triste tradizione di mod fatti chiudere solo perché erano un tributo a Star Wars, e ha una lunga storia di tentate censure anche per quanto riguarda Star Wars Galaxies. Da ultimo, c’è stata la presa di posizione shock di Lucas, che ha imposto a Bioware una censura sul tema dell’omosessualità in Star Wars, anche nelle conversazioni sui forum.

In questo caso però è diverso. Si dà per scontato che una licenza d’uso vessatoria basti per cedere l’intera proprietà intellettuale agli autori del gioco incondizionatamente, compresi i diritti morali.

Probabilmente, il tutto è nato dalla volontà di avere una leva legale per sradicare eventuali gold farmer (ma è dimostrato che basta un game design decente per rendere meno virulenta questa piaga); tuttavia non si può fare a meno di considerare superficiale il valore che l’industria attribuisce al rapporto con i giocatori.

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È un problema che ho affrontato in altre occasioni: in un gioco online, con un contesto sociale più o meno importante, come si può demarcare una linea così netta tra quali sono i diritti dei produttori e quali quelli dei consumatori? Se un utente ogni martedì sera organizza degli eventi in un gioco online non offre un servizio di valore agli esercenti? Come può un produttore decidere dove arrivi la legittimità dei risultati scaturiti dal suo contributo (magari un machinima molto ben fatto, oppure la stessa opportunità di avere qualcosa da fare, che mantiene vivo l’interesse nel gioco e non lo fa stagnare) e dargli un valore legale ed economico? Facendo così non si corre il rischio di intimidire gli utenti sino a scoraggiarne il coinvolgimento?

C’è da dire che Old Republic sarà un MMOG piuttosto atipico: dalle poche informazioni disponibili emerge un titolo quasi interamente orientato al gioco online in solitario, quindi il problema potrebbe non sussistere. Potrebbe non esistere un ambiente abbastanza flessibile e strutturato perché i giocatori diventino autori di qualcosa, a differenza di altri MMOG, dove i contributi creativi dei giocatori sono parte integrante del mondo e del sistema di gioco stesso.

Rimane da capire dove si fermerà il diritto di Lucas o Bioware di proibire l’accesso, esigere royalty o semplicemente esercitare il controllo su quello che viene fatto in-game. Come si può stabilire dove inizia un’opera derivata da un videogioco che presuppone interazione e coinvolgimento a livello sociale dei suoi utenti?

Termini di servizio simili gettano una inquietante ombra sul futuro dei MMOG, un futuro dove qualsiasi machinima, iniziativa o sottoprodotto creato dagli utenti, dentro e fuori il gioco, sarà, in quanto opera derivata, di esclusiva proprietà di chi il gioco ha pubblicato e gestisce.

Le potenzialità di regole così stringenti rasentano l’assurdo: un giocatore o una gilda particolarmente popolare potrebbe diventare merce di scambio da microtransazione (ad esempio per farci gruppo), una sorta di stagista next-gen, che, in concreto, paga per lavorare anche se crede di essere lì per divertimento e basta. Altro che Matrix!

Fantavision

Sviluppato e pubblicato da SCEI | Piattaforma Playstation 2 | Rilasciato nel 2000

Avete presente quei giochi che per anni e anni attirano la vostra attenzione, ma per un motivo o per l’altro rimangono sullo scaffale finché si perdono nella fitta nebbia dei vostri ricordi?
Pochi giorni fa mi sono imbattuto in un perfetto esempio del genere: Fantavision, titolo di lancio di Playstation 2 su cui fantasticavo guardando le foto sfocatissime delle riviste di fine anni ’90. Inutile dire che mi sono tolto lo sfizio e l’ho preso.

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Fantavision è un titolo arcade il cui scopo è collegare, tramite un cursore, una serie di fuochi d’artificio di vario tipo e colore, facendoli esplodere all’unisono (con la pressione di un tasto) prima che facciano cilecca. Tramite dei razzi jolly è, inoltre, possibile collegare anche colori diversi; le scintille faranno esplodere al contatto altri razzi dello stesso colore.
Due tasti e una levetta, divertente e intuitivo.

All’epoca, distratti da titoli di lancio ben più blasonati come Tekken Tag e Ridge Racer V, i giocatori pensarono a Fantavision come un gioco che si prendeva poco sul serio, un mero esercizio tecnico first party: i menu full-motion in qualità DVD e i bellissimi effetti particellari in tempo reale erano novità tali da sganciare la mandibola anche ai giocatori più smaliziati.
La critica stroncò il gioco, presa com’era dall’arrivo della nuova generazione e da gameplay ben più elaborati.

Era proprio il periodo sbagliato per far uscire un gioco minimale come questo: i giochi puzzle/arcade erano ormai un retaggio della generazione 16 bit, con qualche sprazzo d’orgoglio su Saturn, ma quasi esclusivamente nel sol levante.
Pretendere che al lancio di PS2 la gente spendesse, oltre al prezzo esoso della console, altri 70 dollaroni su un titolo che, bisogna ammetterlo, non brilla particolarmente in longevità (seppur assolutamente rigiocabile), era un’illusione.

Sono sicuro, però, che oggi il gioco potrebbe vivere una seconda giovinezza, considerato il ritorno in pompa magna dei giochi arcade su servizi come XBLA e PSN, console portatili e Iphone vari.
Pensiamo ad esempio al successo di Tetsuya Mizuguchi ed i suoi rhythm/puzzle game come Every Extend Extra (con il quale Fantavision ha in comune diversi aspetti).
Provate a prendere delle schermate di Boom Boom Rocket, gioco XBLA di qualche tempo fa: gameplay a parte, ci si può giocare a “trova le differenze”.
Immaginatevelo lì, con una decina di trofei divisi tra single player e multiplayer online, all’abbordabilissimo prezzo di  9,99 €. Decisamente un ottimo affare.

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Fantavision, a partire dal titolo, riprende lo stile e i colori dei primi videogiochi anni ’70: arcobaleni e design futuristico (in un modo così kitsch che solo i giapponesi potevano pensarlo) sono davvero in linea con l’odierna riscoperta della moda di quegli anni (vorrei non citare la recente fiction Piper).
A completare un comparto artistico ancora oggi di tutto rispetto concorrono anche le 3 diverse colonne sonore (disponibili in un’ormai introvabile – e incompleta – OST), create da Youchi Terada per le 3 regioni di distribuzione del gioco.

Nonostante sia ingiustamente diventato il gioco più deriso di tutta la scorsa generazione, è un titolo da recuperare e rivalutare.

Lo stupro, il videogioco e quello che siamo

Rapelay.

Non è una questione di moralità, immoralità, amoralità. Lasciamo perdere i paroloni buoni soltanto per i sermoni.

Non è neanche una questione di libertà d’espressione, perché qui di espressivo non c’è nulla e perché la libertà d’espressione ormai viene tirata fuori nei contesti più ameni per giustificare qualsiasi peto uscito da un cervello umano. Beato chi vive sotto dittatura perché riuscirà a capire cos’è la libertà d’espressione.

Non è la classica questione della libertà individuale, che da noi si traduce nel fare quello che uno vuole in quanto lo desidera e stop, senza alcuna riflessione e senza che questa libertà si traduca in uno strumento di conoscenza del mondo (più che libertà sarebbe bene chiamarla “fremito”).

Qui non si parla del rischio che i videogiocatori diventino tutti stupratori, o tutti pervertiti o tutti assassini pervertiti stupratori e così via. Chi compra, giustifica o gioca con gusto a merda simile di suo è una persona culturalmente e mentalmente deviata e profondamente frustrata, anche se pubblicamente vive nella più completa rispettabilità, quindi c’è poco da stare a discutere. Il rischio non è che diventi in futuro… è già ora.

Il problema da porsi è: perché allo sviluppatore è venuto in mente che un gioco del genere potesse avere un mercato? Perché ha scommesso di riuscire a vendere abbastanza copie di questa schifezza da guadagnarci sopra qualcosa? Ha compiuto degli studi per capire che c’erano centinaia di migliaia di videogiocatori ideali ben disposti a spendere i propri soldi per acquistare un videogioco simile?

Inoltre: i videogiochi hanno bisogno di casi del genere per permettere a gente come la Carlucci e soci di aprire la bocca e di gridare allo scandalo? Hanno bisogno di discussioni in cui le uniche tesi sono “faccio quello che mi pare e non voglio essere giudicato” “è innocuo perché è un videogioco e non si stupra nessuno veramente” “in fondo cosa c’è di male”? Ovvero, i videogiochi hanno bisogno di tanta deficienza che esclude a priori un qualsiasi discorso culturale un po’ più complesso e articolato?

Il problema non è il sesso nei videogiochi, il problema è la sua rappresentazione. Quando arriveremo a capire che sarebbe ora che i videogiochi iniziassero a considerare più seriamente i temi che trattano e che “giocare” non è solo divertirsi ma è un atto sociale, anche quando compiuto in perfetta solitudine? Quando arriveremo a capire che il divertimento in sé, con cui viene giustificato tutto, non esiste e che non significa nulla se non lo si considera come la risultante di una serie di stimoli culturali (da leggere nel senso più ampio possibile)? Quindi, come non si fa a capire che un videogioco in sé è nulla, ma il semplice fatto che una cultura lo abbia reso possibile, in quanto oggetto di probabile interesse da parte di un pubblico più largo possibile, consegna una sentenza spietata sul nostro essere come società e come individui nella società?

Il single player ritrovato di Battle Fantasia

Sviluppato da Arc System Works | Pubblicato da 505 Games
Piattaforme Arcade, PS3, X360 | Rilasciato nel 2009

Battle Fantasia fa quello che molti picchiaduro ultimamente dimenticano di fare: essere dei giochi. Molti titoli sono ormai talmente focalizzati sull’aspetto competitivo da diventare sterili e trascurati per quello che riguarda il semplice intrattenimento. La caratteristica principale del gioco (e quella che più fa storcere la bocca agli agonisti) è il fatto che ogni personaggio esiste in funzione di una differente quantità di punti ferita (in una gamma che spazia da circa 1000 ad oltre 5000), velocità di movimento e di attacco (numero di combo che si possono concatenare). Insomma, da un punto di vista canonico sembra qualcosa di terribilmente sbilanciato.

Questa scelta non è stata fatta solo per testare una formula innovativa (ed ancora in uno stadio molto sperimentale) per i picchiaduro arcade, è anche un sistema per veicolare il lato single player del gioco.

Lo story mode, infatti, piuttosto che essere una lineare sequenza di scontri è una storia vera e propria, con moltissimi intermezzi narrativi (almeno 2 per ogni scontro) realizzati con illustrazioni ed animazioni fatte a mano. Gli scontri durante la storia sono pianificati mettendo in contrasto il più possibile pregi e difetti dei relativi personaggi.

Sempre per accentuare il focus sulla rigiocabilità, le vicende prevedono diversi punti in cui la narrazione si biforca, dando sempre una copertura parziale alle risposte che i vari personaggi cercano. In questo modo, per completare del tutto una storia (un indicatore ce lo farà sapere) servono diversi replay. Le condizioni di branching sono piuttosto semplici e spesso tengono conto del miglioramento del giocatore, così da permettere di esplorare le storie con una progressione molto naturale, man mano che si perfeziona lo scoring e lo stile di gioco.

Sebbene complessivamente non ci sia da gridare al miracolo (ma parliamo comunque di un gioco originale e consigliabile), è positivo vedere che anche software house come Arc System Works stiano seriamente riconsiderando la formula dei picchiaduro per rendere il genere più interessante ed accessibile.

Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo e l’armonia del movimento

Sviluppato e pubblicato da Ubisoft | Piattaforme PC, PS2, GameCube, Xbox | Rilasciato nel 2003

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Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo è il migliore dei Prince of Persia in tre dimensioni e, pensate un po’, finiva! Sì, arrivati alla fine c’era un finale vero, nonostante fosse il primo capitolo di una trilogia. Lo so che siete stupiti e vi state disabituando a vedere i finali, soprattutto su PC, ma, parlando a uso e consumo dei posteri, c’è stata un’epoca felice in cui acquistare un gioco ti dava diritto a una conclusione, senza il bisogno di sperare in una pezza successiva (qualcuno li chiama contenuti scaricabili, io, nel caso di finali posticci, li chiamo furti con scasso, soprattutto quando non vengono resi disponibili su tutte le piattaforme per cui è stato pubblicato il titolo), proprio come i libri e i film.

Ma bando alle polemiche.

Quando provai Le Sabbie del Tempo per la prima volta, mi venne subito in mente un balletto; il personaggio non si limitava a combattere e ad evitare ostacoli, ma “danzava” con i nemici. Non era soltanto una questione di animazioni ben fatte, quanto la capacità di armonizzarle al contesto e di rendere l’azione fluida grazie a una serie di azioni spontanee del personaggio, ovvero la capacità del gioco di leggere le reazioni istintive del giocatore a quanto avviene sullo schermo e di tradurle in movimento. Con l’aumentare dell’abilità del giocatore e l’intensificarsi degli scontri, la coreografia spontanea dei combattimenti diventa sempre più spettacolare e articolata.

Jordan Mechner, autore non troppo prolifico ma che non ha mai sbagliato un colpo, è sempre stato uno studioso di cinetica e sin dal suo titolo d’esordio, Karateka, realizzato nel 1984 quando ancora frequentava l’università di Yale, ha messo lo studio dei movimenti delle figure umane al centro delle sue produzioni. Le Sabbie del Tempo non arriva dal nulla, ma segue un filo preciso che passa per il primo Prince of Persia (quello 2D) e che prosegue con l’avventura grafica The Last Express.

Il piacere che deriva dal giocare con Le Sabbie del Tempo non è dato soltanto dalla bellezza della grafica in sé, che sfiorisce naturalmente con il passare delle generazioni tecnologiche, quanto dall’armonia che si crea tra i diversi elementi messi in relazione tra loro. Il giocatore si sente partecipe del mondo di gioco, la complessità relativa dei controlli lo rende “attore” delle azioni del principe, fa tirare il fiato dopo un agire dal risultato incerto anche quando studiato, ovvero regala la soddisfazione della risoluzione positiva, più che quella del mero spettacolo in sé, a differenza dell’ultimo Prince of Persia in cui la semplificazione eccessiva del sistema di controllo mette il fruitore nel ruolo di quello che preme il tasto “play” per far andare avanti un film già girato.

Lo spettacolo c’è, ma richiede partecipazione, ovvero richiede che il giocatore se ne faccia interprete e che possa anche sbagliare, mettendolo di fatto in gioco, ma regalandogli la possibilità di riavvolgere il tempo per rimediare agli errori, modificando la coreografia là dove ha prodotto un risultato non voluto; sempre però all’interno di un contesto videoludico, ovvero con dei limiti precisi che segnano il confine tra il successo e il fallimento.