Reportage

Mi premeva segnalare questo bel reportage di Gianluca Masina (collaboratore di riviste come TGM e Videogiochi e di siti come Gameprog.it) che aiuta a capire in modo chiaro e approfondito la situazione dell’industria dei videogiochi in Italia. Il titolo mi sembra abbastanza esplicativo:

Game Development: rimanere in Italia o tentare all’estero?


Lo potete leggere a questo link
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Enjoy.

flOw

La bellezza del gioco si cela anche dietro la tensione agonale di chi vi partecipa: superare, soverchiare un avversario o una situazione sfavorevole costituisce un richiamo cui l’uomo tende a dare spesso ascolto nella propria vita. Si evince dunque che, al fine di mantenere l’attività ludica appassionante, occorre la presenza di una sfida (o, più in generale, di una ragion d’essere) in grado di affascinare il giocatore. A questa ferrea legge neanche i videogame possono sfuggire, per cui riuscire a comprendere come allungare la longevità di un titolo costituisce un impegno gravoso per i designer. Il parametro che meglio traduce tale incombenza consiste nel livello di difficoltà: esso è infatti un elemento fondamentale nel gameplay, visto che dalla sua calibrazione dipendono in gran parte le sorti del gioco stesso.Le mire dell’industria sono semplici: espandere il mercato, trasformare il videogioco in un prodotto comune tanto quanto l’aria che respiriamo. Realizzare ciò che ha la pretesa di venire incontro alle masse significa trovare la chiave giusta per sedurle: il piacere, nella società del benessere, è la vera carta vincente. Mihaly Csikszentmihalyi ha teorizzato uno stato mentale relativo ad un’attività considerata piacevole,”flow“, sotto il regime del quale si prova una sensazione di pieno coinvolgimento, di totale identificazione con ciò che si fa.

Appare lapalissiana l’insufficienza del sistema odierno di bilanciamento della difficoltà, basato sulla classificazione tipica “easy – mediumhard” e modellato secondo l’esperienza di poche persone rispetto alle centinaia di migliaia (se non milioni) di potenziali clienti presenti sul globo. In altre parole, con gli strumenti attuali non si può pretendere di costruire una sfida atta a stimolare la sensazione di “flow” in un pubblico molto vasto. Molte discussioni si sono fatte in proposito, e molte ne verranno ancora.

Jenova Chen, Nicholas Clark e Austin Wintory hanno tentato di risolvere la questione, o almeno di suggerire la strada giusta da percorrere.

Flow

In flOw, il giocatore controlla attraverso il mouse i movimenti di un microrganismo, il cui destino non va oltre al mangiare altri esserini, evolvere la propria forma, ed errare allegramente negli abissi. Talvolta può capitare di doversi difendere dal blando attacco di creature aggressive, ma l’elaborazione di una strategia per affrontare quest’eventualità si rivela piuttosto intuitiva. All’utente è lasciata la scelta di esplorare i “livelli”, penetrando nelle profondità marine, oppure di adottare un’attitudine votata al relax.Il concetto sul quale è stata edificata la struttura di flOw è quello di dimostrare la possibilità di ottenere un bilanciamento dinamico della difficoltà integrato nel gameplay: solo mediante tale meccanismo gli autori pensano che si possa fare in modo di cucire l’esperienza ludica addosso al fruitore stesso, dal momento che è proprio lui a decidere in quale maniera debba procedere il gioco. Se mi si permette il passaggio, il sistema in oggetto richiama alla mente una sorta di ridefinizione continua del cerchio magico entro il quale si svolge l’azione giocosa (su scala minore, naturalmente). Lasciando cavalcare la fantasia a spron battuto, si giunge addirittura ad immaginare un mondo privo di cheater, di coloro che si insinuano tra le falle di un apparato perché incapaci di uniformarsi alle regole.

Un esperimento tanto interessante dal punto di vista degli sviluppi futuri quanto prematuro sul versante dell’effettiva applicazione delle idee alla sua base.

Nota a latere: cliccando sull’immagine si può accedere alla versione Flash del gioco, che conoscerà anche il mondo PS3. Per saperne di più sulla teoria “Flow”, sul bilanciamento dinamico della difficoltà e delle problematiche eviscerate nell’articolo, è consigliata la consultazione della tesi di Jenova Chen, della quale esiste anche un adattamento in italiano. Have fun!

The White Chamber

White ChamberCome può un titolo tecnicamente non eclatante essere considerato al tempo stesso un prodotto originale, ben ideato e per giunta da seguire come esempio per produzioni professionali? Fornendo un ottimo mix di design e anticonformismo ludico, anche a dispetto di una trama presa quasi di peso da classici come Silent Hill.

The White Chamber, primo serio lavoro di Studio Trophis, un gruppo amatoriale che si occupa principalmente di animazioni 2D e Cartoon, è riuscito a fare tutto questo, dimostrando che la coerenza rende un gioco godibile anche se non proprio presentato a dovere.

Se la grafica e le animazioni non entusiasmano, il sonoro riesce a dare al gioco un feel molto particolare. Le colonne sonore dal sapore industriale riescono a titillare il nostro subconsocio trasmettendo inquietudine e disagio, anche in situazioni in cui sarebbe del tutto immotivato provare quel tipo di senzazione. Nonostante un’avventura grafica abbia un approccio ben meno coinvolgente e diretto del classico survival horror, TWC riesce a trasmettere altrettanto bene il senso di impotenza e inquietudine che spesso pervade il giocatore in una sessione sofferta a titoli ben più noti. E’ bello vedere una grande cura per il comparto audio in un videogame amatoriale: l’ambient music è uno degli aspetti più trascurati del panorama videoludico moderno.

Il level design e gli enigmi, invece, lasciano pienamente soddisfatti: le locazioni sono chiarissime e gli oggetti sono sempre accessibili senza bisogno di pixel hunting. Gli enigmi sono logici ma non proprio facilissimi: calibrano molto bene la difficoltà e si prestano alla necessità di giocare il titolo più volte.

White Chamber 2Strizzando l’occhio al meta-gaming che pervade le avventure su console, TWC preferisce integrarlo nel game-play stesso: ogni sessione di gioco, per raggiungere l’agognata risoluzione del dilemma della protagonista, necessita delle conoscenze acquisite in una sessione precedente. Il dover rigiocare il tutto per l’unlock dei finali alternativi non rimane fine a sé stesso ma diventa una motivazione integrata nella trama. Se siete bravi basteranno solo due sessioni per raggiungere la conclusione migliore, altrimenti potrebbero essere necessarie sino a quattro rigiocate.

Sempre parlando di indizi si può anticipare sin da subito che il gioco racchiude un enigma che “esce dal gioco” (in tutti i sensi) e che permetterà di localizzare il deposito dove sono custoditi i log della stazione spaziale dove è ambientata la vicenda, fornendo importanti info sulla storia di background e sugli antefatti di TWC. Un meccanismo già sfruttato da altri titoli indipendenti (come Uplink) che si fonde molto bene con il resto del meta-gaming richiesto dal titolo.

Dopo innumerevoli release non proprio eclatanti e costellate di infiniti bug, Studio Trophis ha voluto ringraziare i sostenitori con la release 1.3, aggiungendo un ulteriore finale (che porta il totale a 5), e i dialoghi recitati (molto bene) in inglese.

L’avventura è, anche per la natura del progetto, molto breve. Sbloccare tutti i finali nel peggiore dei casi vi potrebbe richiedere al massimo 6 ore. Nonostante tutto possiamo dire che le poche locazioni (una decina) condite da un’atmosfera inquietante e una storia interessante sono perfettamente organiche e il prodotto non sembra né concluso troppo in fretta, né costellato di inutile fuffa per allungarne la durata oltre il dovuto. Anche in questo lo Studio Trophis si è rivelato magistralmente competente, creando un gioco in grado di stupire e di mantenere incollato il giocatore allo schermo e che, nonostante la breve durata, appaga. Se tutti gli studios professionali riuscissero a trovare lo stesso equilibrio, la sanità mentale di moltissimi giocatori ne gioverebbe! 😛

TWC è, in conclusione, la dimostrazione vivente che molto spesso è meglio pensare un progetto in piccolo che creare qualcosa di grande e mal realizzato.

Rule of Understanding

In occasione dello scandalo di “Rule of Rose”, ho ricercato sulla rete pagine web, notizie, e soprattutto blog che ne parlassero. La cosa che mi ha incuriosito di più di questa piccola e modestissima indagine, è che al di fuori dell’ambiente informatico, è stato difficilissimo trovare qualcuno che difendesse obiettivamente dalle male lingue questo gioco. In questo caso, c’è da dire che tutto lo scandalo è nato da uno squallidissimo episodio di mala informazione. Il giornalista di Panorama (che molto probabilmente del gioco ha visto solo il filmato introduttivo), si è solo limitato a scopiazzare e a stravolgere una recensione scritta diversi mesi fa su un sito di videogiochi,  inventandosi parecchie frottole sul gioco e “divertendosi” (se così si può dire) a inanellare una sequenza infinita delle solite banalità sul tema della violenza dei videogiochi. Perfino il ministro della giustizia avendo paura di perdere punti carisma al cospetto delle mamme inferocite, si è scomodato a bofonchiare qualcosa su una certa authority per monitorare questi passatempi “così violenti che vano in mano ai bambini”. Malgrado sia stato smascherato il caso di mala informazione, malgrado si sia spiegato che, sulle loro confezioni i giochi consiglino l’età giusta dei loro possibili fruitori,  l’opinione più diffusa non è cambiata di molto. Nel pensare comune i videogiochi sono ingiustamente violenti, fanno leva sulla questa violenza e sui desideri reconditi degli adolescenti/bambini per vendere di più, sono stupidi, sono fatti solo per bambini al massimo per adulti che non vogliono crescere.  Ma perché tutto ciò?
Io non sono ne uno storico ne un sociologo ne altro di simile, riferisco solo quello che vedo e che penso in proposito. Innanzi tutto, penso che nella nostra società, il pensare comune non ha ancora capito che ruolo estetico ha avuto ( e ha tuttora) la rappresentazione della violenza nei mezzi espressivi umani. Non dico che la violenza vada accettata sempre e comunque, dico solo che nella nostra società non viene mai “letta” per il significato che può avere in un contesto espressivo, ma sempre e solo “giudicata”. Su diversi blog, ho letto parecchi pareri di mamme inferocite e disgustate, che non si scagliavano solo sui videogiochi, ma non ammettevano a priori assolutamente nessun tipo di raffigurazione di violenza. Ripeto, che non sempre la violenza in un contesto espressivo è giustificata, ma quando lo è,  pochi sembrano accorgersene. Questo è un pregiudizio pesantemente radicato e presente ben prima dell’arrivo di Internet dei videogiochi e dei nuovi media.
Parlando più in specifico nel nostro paese oggi, i videogiochi sono ancora vittima dei soliti pregiudizi: primo, un qualcosa che si chiama “gioco”, secondo il pensare comune più diffuso, è qualcosa che viene associato automaticamente ai bambini e all’infanzia, quindi, cose scabrose e violente in un prodotto che dovrebbe essere “fatto per i bimbi”, è da considerasi immorale. Secondo, di conseguenza  la stessa parola “gioco” fa perdere completamente importanza e serietà al prodotto in questione, quindi, quando generalmente si pensa ad un Video-“gioco”, non si pensa mai a un oggetto culturale che possa portare chissà quale profondo messaggio nella mente di chi gioca. E per finire, Nei Videogiochi, a differenza della letteratura, dell’arte, del cinema ecc… non si è solo semplici spettatori, ma si compiono delle azioni virtuali in un mondo virtuale, quindi, sempre secondo il pensare comune generalizzato, compiere azioni virtuali riprovevoli equivale a pensare di farle per davvero (se in GTA picchio le vecchiette per strada sono uno stronzo perché lo potrei fare anche nella realtà).
Io mi domando, come si può superare questi pregiudizi nel pensare comune? E’ un po’ una mia ossessione, forse perché mi interessa dimostrare che non sono un adulto che non vuole crescere (come mi hanno detto in un blog), o forse perché realmente vedo i videogames come degli oggetti culturali veri e propri, che, nel tempo, acquisteranno sempre più importanza. La situazione non è facile, perché prima di tutto bisogna analizzare questi oggetti culturali che abbiamo di fronte per tentare di capire qual è il loro linguaggio e come possono comunicare, una volta fatto questo, bisogna convincere chi è fuori da questo mondo, se non a capire, almeno a rispettare questo stesso linguaggio. Per queste cose di solito io guardo sempre al cinema, che a cercato e conquistato lentamente una sua “nobilitazione”. Il linguaggio del cinema oltre che esplicato da teorici e addetti ai lavori, si è ritagliato la sua fetta di importanza grazie al “costume”. Nel corso dei primi decenni del secolo l’usanza di andare al cinema si è estesa a tutte le fasce sociali dei paesi occidentali, e lentamente il suo linguaggio si è fatto strada tra il costume generale, tanto che oggi risulta appreso dalla totalità delle persone. Forse un giorno anche i videogiochi saranno sempre più radicati nel costume sociale, e il loro linguaggio sarà compreso da tutti, tanto da parere normale giocarci (in questo senso il fatto che l’età dei viedeogiocatori sia aumentata è un “buon segno”).

Episodic Gaming: come dovrebbe essere

Da narrativista convinto, mi sento quasi obbligato nel dare una mia interpretazione di quello che vuol dire realmente Episodic (o Serial) Gaming. La mia motivazione nasce dalla malcelata intenzione di molti distributori di sfruttare il momento per creare un modello basato sullo sfrenato sfruttamento commerciale di idee alquanto confuse, piuttosto che cercare di far evolvere un modello di fruizione che potrebbe seriamente rivoluzionare l’agonizzante mercato video ludico.

E’ palese che il modello dei serial TV stia diventando una macchina per soldi ben più efficiente della produzione di colossal cinematografici: il sistema consente un miglior riuso di contenuti (set, costumi, personaggi) e propone al fruitore una maggiore gamma di situazioni ed esperienze, capitalizzando il passato in maniera molto più efficiente di una saga cinematografica a costi infinitamente minori.

Un modello del genere, se applicato con criterio al mondo videoludico, permette un enorme abbassamento dei costi di produzione sul medio e lungo termine, a fronte però di costi di avvio maggiori di quelli di un progetto di tipo tradizionale. Se da un lato il falso mito (alimentato da altri fini) del ridurre il serial gaming a dei mini-sequel non sta in piedi, dall’altro il riuso di modelli e location su un engine consolidato possono rendere questo approccio ideale, se accoppiato ad una generazione di contenuti abbastanza rapida e ad uno storytelling proporzionato al format.

Il punto cardine di un modello episodico, infatti, è il continuo dialogo con lo spettatore. Perdendo questo ritmo, il modello rischia di naufragare in prodotti che non garantiscono continuità e coerenza alla user base, che percepisce solo degli spin-off dalle intenzioni poco chiare e dai contenuti insoddisfacenti. Il poter mantenere una impressione fresca nella memoria dell’utente è un fattore fondamentale, i serial usano il pregresso per motivare le azioni future dei protagonisti e dei comprimari, per analizzarne le sfaccettature, per dare un significato ad indizi disseminati al fine di realizzare quel climax che sfocia in rivelazioni sconcertanti, da risolvere, ovviamente, in una nuova puntata…

Un serial game deve avere dei personaggi interessanti in grado di evolversi nel tempo e di creare una certa affezione nei confronti dell’utente: mentre un titolo stand-alone può appoggiarsi a storie scontate e a personaggi del tutto bidimensionali, prediligendo l’azione sulla narrazione, il serial game ha bisogno di archetipi ben definiti, personalità che affascinino il giocatore e ne sappiano catturare l’interesse nel tempo.

Allo stesso tempo, al level design è richiesto un ulteriore salto di qualità: l’approccio a zone usa e getta tipico dei giochi di azione cozza con il modello, per via del non poter realizzare contenuti così dettagliati in tempi così limitati. Ancora una volta, però, i serial classici fanno scuola: il riuso delle locazioni ha una specifica valenza nel contesto narrativo di un serial (e non solo, si pensi a Deus Ex). Luoghi abituali e ritrovi comuni per i personaggi funzionano come dei catalizzatori per quegli elementi di approfondimento caratteriale e socializzazione che diventano necessari per creare un buon rapporto con gli utenti. Essi sono degli ottimi punti di partenza e di arrivo per le varie storyline: il luogo dove si può iniziare e concludere il viaggio dell’eroe, che torna alla normalità dopo le imprese dell’episodio. Caratterizzare decine di locazioni da riusare in situazioni e angolature differenti, arricchendone il numero di volta in volta permetterebbe di creare una infrastruttura scenografica e narrativa impensabile in un serial televisivo e ben più simile ai mondi virtuali degli Online Game, dove le locazioni del quotidiano diventano tavolozze in cui dipingere storie sempre nuove.

Quasi un anno fa, usando Source e Hammer come cavia misi in evidenza un po’ dei limiti dei tool di content design odierni. Il risultato ad oggi è che, come previsto, Valve e Ritual sono divenuti vittime della loro stessa tecnologia e di una concezione troppo tradizionale e frettolosa dell’episodic gaming. Ecco la Valve-Publisher costretta a regalare due titoli di caratura commerciale al fine di ravvivare l’interesse per il secondo capitolo di una esalogia frettolosamente ridimensionata a trilogia, (visto che  con circa 7-8 mesi ad episodio avrebbero richiesto 3 anni e mezzo di lavoro), con l’infausto effetto di relegare in secondo piano il piatto forte, rispetto agli omaggi multiplayer-oriented Team Fortress 2 e Portal. Segno che neanche una grande IP può salvare da un marketing troppo aggressivo. E pensare che due anni fa Half-Life 2 era una delle IP più anticipate al mondo.

Telltale Games, invece ci offre il suo Sam & Max Season 1 in chiave apertamente seriale: per meno di 33 euro di “abbonamento” sarà possibile assicurarsi i 6 episodi della prima stagione ricevendoli prima in digital delivery su base mensile e poi, alla fine della serie, in cofanetto, per un totale di quasi 45 ore di gioco. Nonostante l’IP di successo (che può facilmente rendere vendibile una formula che non lo sarebbe per illustri sconosciuti), sembra che i prezzi contenuti (meno di 10 euro ad episodio, o meno di 5 se si prende tutto il pacchetto) e la presentazione di un piano ben definito e che fa già sperare in una stagione due stiano seriamente premiando gli ex Lucas Arts.

In conclusione, possiamo dire che, ad oggi, non esiste un vero araldo dell’Episodic Gaming, a meno di non fare dietrologia e cercare nel passato dei vari Commander Keen & Co. di Apogee. L’unico esempio calzante del periodo moderno (parliamo comunque del 2000) è Siege Of Avalon di Digital Tome (che, guarda caso, offriva una formula del tutto simile a Sam & Max). I giochi sopra citati sono le uniche prove che una IP originale, se commisuarata da release frequenti e da una qualità adatta può riuscire. D’altra parte, l’enorme cimitero di nomi illustri (realmente episodici) come Heroes Chronicles o la sfortunata serie di Blair Witch dimostrano come anche le IP più blasonate, se catturate dagli ingranaggi della macchina dei soldi, possono produrre dei fallimenti concreti. I popolari motori 3D, inoltre, sembrano più un ostacolo che un vantaggio: la dipendenza dalle tecnologie di ultima generazione riducono i tool di editing a delle trappole per specialisti, troppo dominati dalle esigenze tecniche per essere dei veri strumenti di content delivery.

La posta in palio rimane alta, bisognerà stare a vedere solo chi avrà la forza di uscire dai canoni attuali per cercare di realizzare qualcosa di realmente innovativo…

Non gioco più… (ovvero: “Lo strano case del Dottor B. H. Markuse”)

Dagli archivi di Ars Ludica (il forum).

Screamer 2

“Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii… boom! Piomba sulla scrivania ancora illibata lo scatolone che contiene il case. Cosa? Il case, mamma, è quella scatola che contiene le componenti del personal computer. Componenti? Sì… scatole che contengono scatole, che contengono scatole, che contengono altre scatole, che contengono nuove scatole, all’infinito. Tre milioni per una matrioska? Non preoccuparti, con la rateizzazione non ce ne accorgeremo nemmeno. E poi mi serve per studiare, devo fare la tesi. Seehhh… dopo due nanosecondi, arriva di straforo il primo gioco masterizzato: Screamer 2. Musica techno a palla, scelta del tracciato, schermo diviso in due, scelta delle auto, attento, quella a trazione posteriore è più veloce ma anche più difficile da controllare, ecco, questa curva la devi prendere così, cercando la corda in modo aggressivo e lasciando scorrere la macchina verso l’esterno, è qui che si fa la differenza. Dal tramonto all’alba e dall’alba al tramonto. In breve, la macchina dentro cui corrono altre macchine diventa ciò che è: una droga potentissima. Al mattino, ti alzi insolitamente presto, con la scusa che dovresti studiare e, mentre il fratello minore è ancora a scuola, ti alleni in modalità sfida contro il tempo. Nel pomeriggio, dividi lo schermo. La sera, dopo cena, non puoi resistere a farti un giretto. La notte, continui a ripercorrere i tracciati, agitandoti nel sonno. Poi, dopo un po’, arriva la nausea, seguita da una fase di distacco e di rifiuto. Tuttavia, non dura molto e si arriva ad una sorta d’equilibrio assuefatto nel giro di una settimana, finché non si è sviscerato il gioco in ogni minimo dettaglio, sino all’ultima, minutissima matrioska, non a caso un differenziale nell’ordine dei micron. La prima conseguenza di tanto impegno profuso, e di tanto tempo impiegato, è che quel gioco sarà impresso per sempre nella mente del videogiocatore, marchiato a fuoco con sfrigolio di neuroni che si liquefanno ed evaporano, liberandosi nell’aria attraverso la ventola di raffreddamento situata nella parte posteriore del corpo-macchina. Seconda conseguenza: prima o poi lo reinstallerai. Preso dalla nostalgia e dalla noia per i nuovi, ma insulsi giochi allegati alla tua rivista preferita, andrai a ricercare quel vecchio compact disc con la speranza che il lettore ottico sappia riprodurre le stesse sensazioni di un tempo. Funziona quasi sempre, ma il segnale proveniente dal passato tende a degradarsi piuttosto velocemente, abbandonando il videogiocatore in una valle di processori orribilmente mutilati (privati del “core”, ovvero “scorati”). Terza conseguenza: cercherai dei surrogati. Potranno passare anche mesi o addirittura anni, ma, prima o poi, la tentazione si farà viva e difficilmente potrai resisterle. Quarta conseguenza: butterai un sacco di soldi per acquistare giochi ingiocabili, frustranti, irritanti, indigeribili poiché indirigibili. Di solito, tali giochi sono caratterizzati da un periodo di permanenza su hard-disk inferiore al tempo necessario alla loro installazione. Quinta conseguenza: nel giorno più nebbioso dell’anno, salirai su di una montagna desolata ed incredibilmente irta e, giunto in cima, stremato, in ginocchio, ti chiederai, con le lacrime agli occhi ed una mano protesa nel vuoto, quali terribili peccati debbano aver commesso i tuoi antenati perché tu debba soffrirne così tanto nel tentativo di espiarli. Sesta conseguenza: farai il penoso tentativo d’abbandonare la rassicurante e collaudata zona budget per il selvaggio e periglioso territorio denominato “hic sunt smanettones”. Farai gli upgrade del caso, cambierai tutto meno il case e, non prima d’aver scagliato diversi suini contro i muri della tua cameretta, otterrai il computer superpalestrato per l’ultimo videogioco ultrarealistico. Ma la delusione è dietro ogni poligono, spesso le aspettative si rivelano del tutto inopportune. Settima conseguenza: prima o poi ti comprerai una console. Da mettere sul mobile del salotto, magari per ascoltarci un po’ di musica o vederci un film, e smetterai finalmente di pretendere l’impossibile da una scatola, cranica o casistica che sia. Abbasserai incredibilmente le tue aspettative, smetterai di mitizzare la tua infanzia e di cercare di riprodurla all’infinito, ti cercherai un lavoro serio, metterai la giacca e la cravatta, diventerai quello che si dice “un uomo fatto e compiuto”. Non importa se abiterai ancora coi genitori, di questi tempi, gli affitti… Ottava ed ultima conseguenza: non sarai mai più felice come quando giocavi a Screamer 2.
Che fare, quindi? È possibile sfuggire a questa spirale infernale? Perché, anche se evidentemente parodiata per necessità d’intrattenimento, tale successione di eventi ha certamente punti di contatto con l’esperienza videoludica del videogiocatore medio-standard. Allora? La morale è sempre quella: esiste una relazione bilanciabile tra dipendenza e felicità. Banalità delle banalità, stechiometria esistenziale, chimica organica applicata all’inorganica, informatica psicanalitica ed elettrotecnica sentimentale, dove sono le differenze che ci avevano promesso? Perdute o mai esistite, ironia della sorte, non fa alcuna differenza. L’unica via sembra essere quella di aggrapparsi alle propaggini del Caso da cui un tempo ci siamo staccati come se fossimo frutti maturi: le esperienze regresse infinite. Ma va bene anche solo Esperienza. Cosa c’insegna Costei? In una realtà fatta di sfumature sovrapponibili a piacere come in una libreria finlandese (peraltro molto simile ad un quadro svedese), Essa c’insegna che sarebbe buona norma trovare i coefficienti del caso prima di strafogarsi e sviluppare, di conseguenza, e non a caso, intolleranze croniche verso quelle sostanze necessarie per raggiungere l’equilibrio tra i due piatti della bilancia. Tra queste, a noi ci piace vi sia il silicio. ”

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