Autore: Roberto Genovesi | Editore: Dino Audino
Anno di pubblicazione: 2006 | Pagine: 110 | Prezzo: 10 €
Subito dopo aver notato il libello in questione, ho cominciato a pensare di essere libero. Libero dalla tirannia dei tomi in lingua inglese, libero dalle pindariche suggestioni del Bittanti, libero di poter assaporare finalmente un saggio sul game design concepito da un italiano e scritto in italiano. Naturalmente, non mi aspettavo il trattato del secolo, la pietra miliare per ogni riflessione videoludica; prevedevo invece di trovarmi di fronte ad uno stringato ma completo vademecum da consultare velocemente prima di lanciare la mia fantasia a briglia sciolta verso la formulazione di un qualche improbabile concept.
E’ dunque con tale spirito che ho cominciato a sfogliare le pagine: una breve introduzione nella quale si decantavano le peculiarità “cross-mediali” del videogioco e le sue infinite potenzialità; un sintetico capitolo sulla storia dell’industria; alcune premesse sulle professioni e sulle varie piattaforme videoludiche. Più proseguivo, più l’incantesimo si stava spezzando e l’entusiasmo andava incrinandosi: l’autore si rivolgeva ad un lettore completamente a digiuno di videogame, sia dal punto di vista prettamente “giocoso” che da quello inerente lo sviluppo di un titolo. Numerose le inesattezze, mostruose alcune sviste (Nintendo 64 scambiato per SNES; Resident Evil 4 attribuito al Game Boy per ben due volte; la ripetizione della parola “bag” al posto di “bug”). Con un tonfo nel cuore, sono così giunto al termine del libro, maturando la convinzione di aver trovato disattese tutte le mie aspettative. Forse avevo preteso troppo, forse il “game designer” ribadito nel retro di copertina mi aveva lasciato troppe buone speranze. Non lo so. So invece perfettamente che Roberto Genovesi, pur prodigandosi in numerosi approfondimenti, è uscito fuori tema, per due ragioni: la prima è che, giunto all’ultimo capitolo, il lettore ha le idee ancora più confuse rispetto a prima di come si realizzi un videogioco (insomma, da dove cominciare e come cominciare a scrivere un documento di design?); la seconda, non meno importante, è che il concetto di gameplay, vero perno attorno al quale far ruotare qualsiasi idea, non viene neanche lontanamente esplicato e inquadrato come componente fondamentale di un videogame. Senza gameplay non si ha videogioco; anzi, non si ha neppure un gioco. Senza definire le meccaniche, le regole, non si può procedere nella scrittura di alcunché. L’autore invece preferisce parlare lungamente di storyboard, di intelligenza artificiale, motore grafico, interfaccia utente, ambienti di gioco ma non è in grado di far emergere la sottile linea rossa (il gameplay, appunto) che collega i succitati elementi.
Una bocciatura senza riserve, dunque? No. Qualche merito c’è, e il più importante di tutti è quello di aver introdotto esplicitamente la figura del game designer nell’editoria italiana. Non bisogna inoltre sottovalutare l’egida di mamma Rai che pervade il manuale: sia Roberto Genovesi (il quale, nonostante tutto, mostra di possedere delle buone competenze), sia Giampaolo Rossi (autore della prefazione) orbitano infatti nell’apparato mediatico più importante d’Italia, lasciando presagire finalmente una seria rivalutazione del videogioco nei prossimi anni. In soldoni, “l’ABC dei videogiochi“, pur essendo un’occasione sprecata, lascia un moderato ottimismo per il futuro. Nell’attesa, però, bisogna ancora affidarsi a quei mattoni in lingua inglese e alle visioni del Bittanti.