Sarà il mio ritiro forzato in un residence Cosentino, sarà il dover riempire le serate, saranno i colleghi che dopo averti preso un po’ in giro ti chiedono se gli presti il DS per addormentarsi o se porti giù la PS2 per una partitina ad Amplitude o Frequency in simpatia, sarà che due viaggi in auto di 5 ore (se tutto va bene) a settimana mi provocano uno stato di confusione esistenzialista ma l’aver completato Another Code mi ha fatto seriamente riflettere su come la presentazione ed il marketing di un videogioco condizionano le nostre valutazioni.
Per me, occidentale, Another Code era un’avventura grafica. Cosa poteva essere d’altronde? C’è un personaggio che si muove sullo schermo, si può interagire con l’ambiente e risolvere enigmi (molto puerili a dire il vero), ci sono tanti, moltissimi dialoghi, arricchiti da illustrazioni ed animazioni stile graphic novel che usano in maniera drammatica e claustrofobica i due schermi del DS.
Chiaramente si trattava di un’avventura grafica, anche se fatta male.
A gioco finito, invece, risulta chiaro che Another Code è un racconto interattivo come ce ne sono tanti in Giappone, solo con una interfaccia un po’ più ludica e ricca della media (specie nella prima metà di gioco), interfaccia che gli ha fatto guadagnare la distribuzione anche in occidente sotto una veste non solo inadeguata ma anche penalizzante agli occhi dei recensori e dei critici. Mi domando quanti occidentali sappiano dell’esistenza di questi non-giochi nipponici e quanti abbiano pensato che Another Code potesse essere un semplice romanzo interattivo potenziato da tecnologia 3D, in particolar modo quelli che lo hanno abbandonato nelle prime battute di gioco, periodo in cui questa differenza è poco marcata ed è facile essere tratti in inganno.
Come avventura grafica Another Code è sbagliato su tutta la linea: poca interazione, enigmi imbarazzanti per la loro semplicità e rarefazione, la storia che si racconta da sola, pochissime locazioni. I capitoli precedenti all’epilogo, inoltre, non sono altro che continui dialoghi in cui le brevi fasi di interazione (per lo più necessarie a cambiare locazione e a far partire un altro intermezzo narrativo) servono più per far riposare gli occhi che a proporre intrattenimento ludico. Eppure, valutato come altre novelle interattive per hand-held, il gioco ha un differente valore che, seppure ancora nella media, permette di considerarlo in una luce del tutto nuova.
Gli “enigmi” sono complicati quanto ci si aspetta dal genere: gli autori non vogliono che il lettore si trovi bloccato per giorni su un rompicapo, vogliono solo interromprere il flusso narrativo di tanto in tanto per far aumentare la tensione e la curiosità di chi legge. La storia è quel classico rimescolamento di pattern narrativi che si trova in un qualsiasi libro da scaffale vicino la cassa, eppure risulta ben strutturata e sufficientemente originale. Se l’atmosfera iniziale del gioco fa pensare ad un survival horror, il tutto si rivela più simile ad un miscuglio di Total Recall e Casper (compreso l’epilogo dolce-amaro) e vi assicuro che tale miscuglio ha comunque una plausibilità e un suo decoro nell’impianto narrativo. Almeno non ci sono tentacoli stupratori o adolescenti introversi con manie suicide.
La vicenda ruota sul tema soggettività della memoria, tema che provoca svolte narrative quasi geniali per un’avventura grafica, ma del tutto in linea con la superiore qualità narrativa che ci si aspetta dai racconti interattivi. Quel poco di interattivo che c’è usa il Nintendo DS come una proiezione fisica del mondo virtuale: esso diventa gli oggetti che la protagonista manipola, è il suo PDA sperimentale in grado di interfacciarsi con la memoria, una fotocamera, un libro, un portaritratti, spesso bisogna interagire con esso in maniera non ortodossa. Piuttosto che cercare l’immedesimazione nei personaggi, il gioco sceglie un percorso indiretto che proietta il giocatore stesso nel mondo immaginario, dandogli la possibilità di manipolarlo fisicamente, piuttosto che obbligarlo semplicemente ad impersonare la protagonista. E’ sicuramente un passo avanti rispetto alla fruizione del tutto passiva o limitata alle scelte multiple che solitamente si trova in questi media ma ancora è lontana dai paradigmi ben più liberi e intellettualmente stimolanti delle avventure grafiche classiche.
Another Code è breve: si finisce in un pomeriggio senza problemi, circa 5 ore di gioco complessivo, con la possibilità di un replay che chiarisce alcune zone grigie della storia se alla fine della prima giocata si spengono le candeline nei titoli di coda. La sua brevità è un problema perché alcuni degli spunti che offre sembrano più una coincidenza che una reale intenzione. Another Code come avventura grafica è debole, come romanzo interattivo è passabile, come alternativa al semplice videogiocare e alle classiche tecniche di game design sull’identificazione è notevole, se non altro perché ha avuto il coraggio di ibridarsi in qualcosa di leggermente diverso.
Another Code è un monito su quanto i nostri limiti culturali possano condizionare le nostre valutazioni qualitative, quanto la mancanza di un canone di riferimento sufficientemente valido possa sviare le nostre aspettative.
Esso ci ricorda che, in fondo, la bellezza è solo negli occhi di chi guarda.
Si può dire che abbia comprato il DS perché smanioso di provare Another Code, ammaliato del bellissimo stile grafico e dalla dolcezza della protagonista. Dopo aver finalmente messo le mani sul titolo, e dopo averlo giocato fino in fondo, mi ha lasciato un senso di vuoto, come se mi trovassi dinanzi ad un prodotto sopravvalutato. Una delusione, insomma.
Leggendo il tuo articolo, invece, mi rendo conto di come io abbia frainteso lo spirito di quel videogame: non era ciò che mi aspettavo fosse, di qui il mio giudizio negativo.
Dunque, quel senso di vuoto forse non era dettato da cattiva qualità, bensì da una sorta di “lost in translation”, quella perdita quasi impalpabile ma sensibile di significato e di significante che impedisce la corretta fruizione di un contenuto.
Del resto, come comincia la Divina Commedia in inglese?
Halfway through the journey we are living
I found myself deep in a darkened forest,
For I had lost all trace of the straight path.
Perde la potenza dell’originale.
La dolcezza della protagonista ha ammaliato anche me.
Bell’articolo.
LOL credo di essere l’unico che aveva scambiato la protagonista per un ragazzo albino.
Troppi Castlevania, suppongo.
Le avventure grafiche mi piacciono quanto più si avvicinano a un racconto, come se fossero un fumetto in cui invece che per vignette la trama si sviluppa per click. Perciò odio i tempi morti, come il farsi avanti e indietro per 2-3 schermate in completo silenzio perché è richiesto da un enigma, oppure cercare il modo di risolvere un enigma astruso. Però l’interattività, i finti bivii, le piccole chicche inutili ai fini della trama, sono per me molto importanti per apprezzare un gioco del genere.
Può darsi che realmente il modus con il quale ci si avvicina a un gioco può influenzare in un certo modo il nostro giudizio (Genette qualcosa da dire a questo proposito, ovviamente riferendosi ai testi tout court, da dire l’avrebbe). Però è anche vero che, indipendentemente da tutto il resto, se il gioco è scarso lo resta, indipendentemente dalla “chiave di lettura”.
Anche Phoenix Wright è “un’avventura grafica a metà” eppure secondo me è innegabilmente meglio di Another Code, malgrado la evidente scemenza nel gameplay. I “generi” o gli “stili” (bella questa) dei giochi erano più trasparenti un tempo, al giorno d’oggi un po’ più difficile averci a che fare in maniera non equivoca, come dici tu tra l’altro. Ma “servono” veramente? Nel senso, sono utili?
a me è piaciuto invece.
Anche io come Emack ho affrontato il gioco con un’altra idea in testa. Amo le avventure punta e clicca classiche (quindi quelle occidentali) e purtroppo questa si vede che è realizzata da un team giapponese, a metà mi son quasi addormentato. Peccato..