Gli occhi di un casual gamer per l’industria dovrebbero essere assimilabili alle cavità scopiche del fanciullino del Pascoli, e invece somigliano più al frignare del poppante con i genitori in continua apprensione dopo ogni ruttino con suono “borp” invece che con suono “burp”.
L’industria tenta di stigmatizzare la critica, cercando di svalutarla e di ghettizzarla, provando però a trovare un punto di mediazione con indicazioni come “i giochi dovrebbero essere valutati partendo dal punto di vista del pubblico di riferimento”.
Uno, preso da un incontenibile onanismo intellettuale potrebbe pensare che un minimo di ragione in postulati del genere ci sia anche, ma basta fermarsi a ragionare un attimo per capire come il discorso porterebbe a un’inevitabile degenerazione della critica stessa.
Sarebbe come se l’uomo primitivo, invece di imparare da quelli che lo hanno preceduto, avesse preteso di azzerare ogni volta la sua esperienza e di riscoprire ogni cosa da zero. Ovvero ignorare che, ad esempio, quella cosa informe gialla e rossa è meglio non toccarla perché brucia.
Pretendere che la critica non critichi perché un decenne davanti al gioco di Shrek si esalta come un babbuino davanti a una banana è assurdo.
Perché dovrei rinunciare alla mia esperienza per valutare, non so, uno Spore qualsiasi? Perché dovrei negare a me stesso che negli anni 90 Will Wright stesso realizzò Sim Life che è, a livello di complessità e profondità, mille anni avanti a Spore? Perché dovrei “dimenticare” per fare un favore a quelli a cui piacerebbe che i videogiochi venissero sempre giudicati capolavori (in fondo devono venderli… li capisco anche)? Ho il diritto a soppesare? Quando qualcuno viene a dire che giochi come Sim Life erano troppo complessi ho il diritto di alzare le spalle ed essergli indifferente?
L’arte nasce dalla critica e viceversa, l’arte nasce (anche) perché c’è una critica. La poesia nasce come esibizione pubblica, non come fatto intimo e privato. Vorrei mantenere il mio diritto a fare parte di un pubblico con esperienza e non di uno vergine che considera i videogiochi nati con la PlayStation o, peggio, con il Nintendo DS.
So da dove vengo, so dove vorrei andare (dove mi era stato promesso che si sarebbe andati) e capisco dove stiamo andando, ma voglio mantenere il diritto di non farmelo piacere, perché se è assurdo che tutti giudichino un videogioco dal punto di vista più gradito a chi lo produce, è ancora più assurdo che qualcuno creda di poter rinunciare a quello che è stato per poter venire incontro alle esigenze dell’industria.
Se la quantità di persone che acquista e gradisce un gioco fosse un metro di giudizio valido, basterebbero le classifiche di vendita per farsi un’idea di quali siano i videogiochi migliori e quelli peggiori. La verità è che non ha senso chiedere alla critica di abbracciare il punto di vista del lettore/giocatore medio, altrimenti la si fa diventare inutile e dannosa, perché incapace di esprimere una sua peculiarità, ovvero di porsi sopra le parti esaminando le cose dalla giusta distanza.
La critica fa il suo lavoro non certo quando stronca o quando esalta, ma quando analizza, quando trae argomenti da quello di cui fruisce, quando ne coglie alcune contingenze. La critica non dovrebbe essere quella che mette i voti o che scrive comunicati stampa sotto forma di anteprime e, spesso, di recensioni, ma dovrebbe cercare di “leggere” i videogiochi grazie a un certo bagaglio culturale ed esperienziale. L’alternativa è avere un ruolo da ratificatori di giudizi espressi a maggioranza. Una mera perversione di un concetto malato di gusto e democrazia.
D’accordo su tutta la linea. Su tgmonline ebbi una discussione con un’utente
proprio sul fatto “Eh ma giocotaldeitali è figo, come fai a dire che non ti
piace”, la mia risposta fu appunto che gioco da quando di anni ne avevo 5 e
che quindi il mio modo di valutare un prodotto è per forza di cose diverso
dal suo.
Concordo pienamente.
Ok, stampiamolo e sottoscriviamolo tutti : P
Vai con la domanda da 10 milioni di dollari
Siamo realmente sicuri di star sempre analizzando?
Quanto pregiudizi e preferenze personali influiscono sulla capacità di analisi?
Comunque ottimo punto di vista,un concetto semplice,ma molto importante.
Da incorniciare. Sottoscrivo ogni singola riga.
E aggiungo che è proprio anche grazie alla critica che molti designers e sviuppatori si sono dedicati al miglioramento e all’evoluzione dei loro giochi. Lo scambio di opinioni, l’analisi di ogni aspetto del gioco, ha aiutato parecchio gli stessi sviluppatori che hanno potuto osservare le loro opere da altri punti di vista, cogliendo quello che di buono avevano fatto e quello che di buono poteva essere fatto in più.
Oggigiorno, ahimè, la critica viene più bistrattata che altro, perchè spesso è più un cliente scomodo per i publishers, che devono infarcire i loro giochi di hype, che devono prostituire ogni singola dichiarazione dei PR. Guai a chi tocca gioco X, guai a chi tocca piattaforma Y, guai a chi tocca utenza Z.
Molto ben scritto, ma sono d’accordo fino a un certo punto. Un videogiocatore avvelenato (e magari obnubilato da un hype “scorretto”… sono molto scettico sulle effettive capacità della critica di non farsi influenzare pesantemente da questo, specie a caldo) spesso non è in grado di cogliere fino in fondo quel valore di semplificazione, accessibilità e fruibilità, magari “riassuntivo” di tante esperienze ludiche precedenti, portato da alcuni titoli (un discorso valido non necessariamente solo per i casual games, ma ad esempio anche per l’edutainment, o semplicemente per titoli che escono fuori “meno hardcore” di quanto si pensava). Questo è qualcosa di diverso dal mero far coincidere le classifiche di vendita con la qualità.
La solita questione infinita dell’hardcore gamer che si contrappone al casual gamer… figura da cui tenersi lontani, spesso con pregiudizi, pur di sembrare il più esperto possibile. E così si scopre magari che qualcuno ha spudoratamente attaccato Oblivion sui forum solo per “fare bella figura”, mentre ci spendeva sopra decine e decine di ore e in privato ti diceva che “tutto sommato mi ci sono divertito tanto” (è un caso reale, non di fantasia).
Ogni arte, ogni campo, ha i suoi conoscitori e i suoi inesperti. Non posso dire di essere un esperto di cinema, ma ugualmente non ritengo un ignorante e anche se probabilmente mi piacciono film che alcuni cosiddetti “esperti” nemmeno vorrebbero toccare con un dito amen… pur con la mia inesperienza so cosa cerco da un film. Lo stesso vale per la musica, per l’arte pittorica, e in generale qualsiasi argomento faccia parte della propria vita.
Ciò che differenzia il videogiocatore è che lui non cerca di aspirare alla consapevolezza (il famigerato “conscious gamer” di Metalmark), quanto a quell’etichetta da hardcore, che per “contratto” tiene lontano ogni gioco che è potenzialmente casual: è così che Fallout 3 DEVE fare schifo, anche se magari poi ci si divertirà per ore (ma fa schifo ugualmente a prescindere).
Detto ciò lo spazio alla critica dovrebbe sempre restare e sempre ci sarà, così appunto in ogni altro campo. Non si attacchi però l’inesperto, perché alla fin fine tutti giochiamo con lo stesso intento, seppur con diversi bagagli culturali.
Bell’articolo.
Se la critica seguisse il pubblico medio… Ossatana che orrore! Ve l’immaginate a recensire i giochi?
@ Marco/Cav: La situazione contingente vuole che i publisher chied… pretendano che ci si rivolga ai casual gamer e a servire loro la pappa fatta, ma il discorso vale ugualmente anche per gli hardcore. Il critico è tenuto anche a stroncare l’effepiessone menoso o lo strategico spaccapolsi se lo ritiene giusto, anche se migliaia di flammosi lo osannano. E ci mancherebbe.
Interessante l’esperimento fatto da Ars Technica che ha fatto giocare ad un non gamer Fable II, seguendo quindi la lettera di Peter Moulineux (si scrive così? 😀 )
Che è saltato fuori? Che comunque il gioco non è assolutamente per un casual gamer.
Parliamoci chiaro, sono in parte d’accordo nel fatto che in sede di recensione (recensione, non analisi, io continuo a considerarli due modi diversi di trattare un prodotto) vada tenuto conto del target cui il gioco si rivolge.
Mettere 4 ad un gioco per bambini in riviste per giocatori non bambini è un po’ una sciocchezza.
Non sono d’accordo sull’idea di casual che si sta formando all’interno dell’industria stessa. Intanto che il casual sia attratto dalla semplificazione di meccaniche di gioco, cosa che non reputo del tutto corretta. In secondo luogo credo errata la convinzione che il casual sia una categoria su cui si possa fare un ragionamento: sono i casual, tanti casual, che si lasciano attirare per motivi diversi ma difficilmente giocano per motivi diversi da quelli che li hanno spinti a giocare. Vedo il casual gamer come appartenente di una maggioranza che si divide in molte nicchie.
Inseguirlo da parte dell’industria vuol dire perdere colui che compra molto per attirare più giocatori one-shot che ovviamente non possono minimamente essere fidelizzati se non riproponendo in salse sempre diverse lo stesso gioco che li ha attirati.
Posso semplificare la psicanalisi.
Posso usare termini sempre più comuni.
Alla fine, però, chi mi ascolta non ne saprà di più della materia, almeno non di più di quanto ne saprebbe sentendo Taylor in Beautiful.
Il problema è, che ci fa la recensione di Giulia Veterinaria su GamePro, rivista che amo leggere seduto nel divano buono del salotto dove campeggiano PS3, un LCD Full HD ed un impianto audio Bose?
Videoludicamente parlando tendo ad essere razzista, desidero che giochi di carattere casual o dal target anagrafico conclamatamente basso vengano collocati a parte in pubblicazioni come quella che ho citato; credo addirittura che delle pubblicazioni dedicate siano non solo possibili, ma addirittura auspicabili. Eccoci dunque di fronte alla necessità di capire quali debbano essere le competenze di chi recensisce giochi casual, il modo in cui l’esperienza acquisita su giochi tradizionali può essere reimpiegata e modificata nel nuovo campo di applicazione.
Quanto alla possibilità di affrontare criticamente il campo di cui sopra, ho le mie riserve: il casual gaming è un settore compromesso dalla pubblicità e dai suoi stessi crismi di accessibilità estrema. Se un prodotto del genere si dimostra meritevole di approfondimento ulteriore rispetto alla funzione primaria dell’intrattenimento, beh, allora non è più casual gaming. Ci muoviamo su un territorio nebuloso ed inesplorato.
Need more discussion, please.