Sviluppato da Terry Cavanagh | Distribuito da Web | Piattaforme: PC | Pubblicato nel 2010 | Sito ufficiale
Inizi a giocare. La grafica sembra uscita da un Atari 2600. Un platform bidimensionale. Il primo ostacolo ti chiarisce tutto: tu vuoi saltare, ma il protagonista si ribalta e si attacca al soffitto con i piedi. Scendi. Dai, scendi. Non fare così. Non ne vuole sapere di saltare. Fa su e giù, giù e su. I primi schemi sono piuttosto facili. Quasi noiosetti. Poi gli spuntoni prendono piede, le piattaforme iniziano a muoversi, lo spazio si apre e tu inizi a chiederti perché continui a giocare, visto che muori in continuazione. Eppure vai avanti e lo finisci anche. Quante volte sei morto? Tante, tantissime, ma non troppe. Probabilmente potevi fare molto peggio. La voglia di mollare ti è salita spesso lungo la spina dorsale arrivando fino al cervello. Ma poi hai continuato. Anche quando appena entrato in una schermata particolarmente complessa ti sei lasciato andare allo scoramento. Quante volte morirò qui dentro? Ce la farò a passare? Quante volte ti sei detto: “è impossibile, questo è pazzo”. Fortunatamente, pur dopo molti tentativi, ce l’hai sempre fatta e dopo anni passati davanti a titoli che si finiscono da soli, ti ha fatto piacere riuscire a finirne uno tu.
Il minimalismo retrò che Cavanagh ti sputa in faccia come fosse una firma non ti spaventa. Anzi, a dirla tutta è difficile trovare qualcosa di più bello graficamente in questo inizio 2010… e non parlo soltanto della scena indie. Dopo Don’t Look Back, in cui aveva raccontato l’inferno con una manciata di pixel e colori molto meglio di quanto fatto dalla EA e dal suo miliardario Dante-trash per adolescenti della YouPorn-generation, Cavanagh gioca con la voglia di saltare e la ribalta, letteralmente. Prende le regole di un genere e le scuote, creando un titolo eccezionale che fa scempio delle convenzioni. La sua abilità maggiore sta nel saper “inquadrare” il gioco, ovvero nella sapiente gestione di cosa inserire e, soprattutto, cosa non inserire nel paesaggio evitando il più possibile ridondanze, barocchismi e, soprattutto, la modernità in quanto tale, pur non rinunciando a essere originale. Essenziale.
Articolo già pubblicato su Babel 21
Ci sto giocando sti giorni, meraviglioso.
Don’t Look Back è uno dei giochi più belli degli ultimi anni, un vero capolavoro e devo ringraziare Ars Ludica per avermelo fatto conoscere. Cavanagh è un vero autore, uno che, attraverso i suoi piccoli giochi, trova sempre il modo di dire qualcosa di personale (da questo punto di vista è davvero notevole anche un titolo come Best Years). Non ho ancora giocato con VVVVVV però mi insospettisce il discorso sulla “difficoltà”. Molti pensano (Non sto dicendo che lo abbia detto anche Tagliaferri) che, per appagare il pubblico della “vecchia scuola”, cresciuto con titoli che oggi la maggior parte di noi non esiterebbe a definire quantomeno frustranti, i videogames debbano rappresentare, in primo luogo (o, spesso, unicamente), una sfida di destrezza, di coordinazione testa-dita. Ovviamente non credo neanche nell’estremo opposto, ovvero in giochi che si finiscono schiacciando solo un pulsante ed in cui la morte è stata rimossa. A mio parere, però, la difficoltà eccessiva (che ovviamente, in linea, di massima, non può che essere soggettiva) non fa altro che creare tra il testo ed il fruitore un senso di straniamento, rende difficile l’immedesimazione, il lasciarsi assorbire da ciò che il videogame vuole narrarci (sempre nel caso abbia davvero qualcosa da dire, e, purtroppo, sono casi rari). Non credo che i giochi debbano per forza cercare l’immedesimazione, ma non mi si venga a raccontare che il senso di straniamento provocato dal centesimo caricamento dovuto alla centesima morte consecutiva sia un effetto voluto e coscientemente cercato (qui Brecht non centra proprio un bel niente 🙂 ). Quel che, dal mio punto di vista, mi sento di rifiutare con assoluta radicalità, è l’dea che la “difficoltà”, il senso di sfida, sia una qualità in sè. Ciò che, invece, è ben più importante (forse la sola cosa davvero importante) è riuscire a trovare qualcosa da dire, che è esattamente ciò che cerca di fare Cavanagh con i suoi lavori. Spero che questo valga anche per VVVVVV anche se, leggendo la recensione, mi pare di capire che, questa volta, le cose siano andate diversamente.
Guarda VVVVV mi pare uno dei giochi meglio equilibrati degli ultimi tempi insieme per certi versi a Bayonetta, è difficile perchè c’è del trial and error ma sembra nella giustissima misura che ti fa dire “Cazzo, ancora” e non “Cazzo, vaffanculo”
Ho appena provato Pathways, ennesimo capolavoro (assolutamente gratuito) di Cavanagh. Un gioco in cui, come la vita, non si può guardare indietro e ricominciare, c’è solo un percorso con scelte per le quali ogni risposta è sbagliata. I’itinerario si ripete ma in fondo l’esito è sempre il medesimo e forse non esiste nessun percorso perchè tutti sono privi di senso. Nella visione desolata ma lucida e carica di disperata ironia di questo autore la vita appare solo un gioco a perdere. Provatelo se non l’avete già fatto, non ve ne pentirete.