Sviluppato da ZootFly | Distribuito da Koch media | Piattaforme: PS3, Xbox 360, PC | Pubblicato nel marzo 2010 | Sito ufficiale
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Lo confesso, ho usato Prison Break: the Conspiracy per fare un esperimento e ho sfruttato un paio di amici come cavie. Uno dei due è un fan sfegatato della serie televisiva, mentre l’altro non ne ha mai vista una puntata nonostante l’insistenza del primo nel proporglielo come il miglior telefilm mai realizzato. La domanda di partenza è quella che sembra porsi ogni recensione di un videogioco sulla faccia della terra: è divertente?
Il fan accende la console e inizia a giocare. Io vado a farmi un caffè e torno dopo una ventina di minuti in salotto. Trovo il mio amico assorto e completamente immerso nel gioco. Ci scambio qualche parola e ottengo una serie di citazioni dalla serie che, pur avendone viste alcune puntate, non capisco appieno (lui è uno di quelli che sa vita, morte e miracoli di tutti i personaggi… anche dei cani e delle mosche). Gli piace il gioco? Assolutamente sì. Mi tengo fuori dal giudizio perché in questo caso non è importante. Perché gli piace? Parlandone a posteriori mi ha detto principalmente perché secondo lui cattura bene lo spirito del telefilm. Mettiamoci anche un altro paio di elementi: era molto eccitato dal poter provare il gioco prima che uscisse nei negozi e quando gli ho proposto la cosa si è in un certo senso sentito investito da una specie di missione che trascendeva il titolo in sé.
Il problema è capire se tutto questo faccia parte del gioco. Direi di sì, visto che mi è impossibile negare che si sia divertito da pazzi, arrivando a chiedermi di dargli la mia copia (“Tanto a te l’hanno regalata, purciaro”… ahem, che amici che ho!).
Con il secondo amico la prova è andata diversamente. Premetto che non è un videogiocatore accanito e che preferisce di gran lunga i titoli casual a quelli più impegnativi (a livello di tempo). Grande giocatore di Farmville e Bejeweled vari, non disdegna però di dedicarsi a qualche gioco più complesso quando attira particolarmente la sua attenzione. Anche lui inizia a giocare. Passato qualche minuto in silenzio davanti allo schermo inizia a parlarmi d’altro. Passa una mezz’ora e capisco che sta giocando quasi per farmi un favore. Mentre parliamo della canzone di Emanuele Filiberto rifatta da Elio e le Storie Tese, gli chiedo a bruciapelo se si sta divertendo. La risposta è un sì poco convinto. Però continua a giocare. Nota qualche errore narrativo che l’altro non aveva notato e dice che il gioco è carino ma non lo esalta.
Ho per caso scoperto l’acqua calda? Ovvero che i fan sono più portati ad apprezzare titoli ispirati alle loro passioni i quali, giocati da altri, possono lasciare indifferenti? Sì, questo è ovvio e non avevo bisogno di nessun esperimento per dimostrarlo. Averlo fatto mi consente però di riflettere sulla natura del divertimento e su quanto sia assurdo volerlo usare come “elemento oggettivo di giudizio” in una recensione.
In questo caso se il primo amico dovesse scrivere di Prison Break: The Conspiracy, ne uscirebbe fuori un articolo esaltato in cui lo definirebbe senza dubbio un capolavoro… e ne sarebbe convinto, perché per lui è così. Nel secondo caso la recensione sarebbe più fredda e distaccata e probabilmente di capolavoro non si parlerebbe mai. Chi dei due avrebbe ragione? Se considerassimo il solo divertimento, la avrebbero entrambi, perché non è possibile per nessuno negare a una persona il fatto che si sia divertita o meno, anche con il gioco (o qualsiasi altra cosa) più brutto del mondo.
Oltretutto, immagino che i fan della serie preferirebbero conoscere il giudizio di un fan come loro rispetto a leggere l’articolo di un indifferente. Perché? Perché anche loro si esalterebbero per le citazioni e le atmosfere mutuate dal piccolo schermo. Anche loro saprebbero cogliere le sfumature che ha colto lui e trarrebbero piacere nel leggere un testo scritto da chi pensano possa comprendere quello che cercano nel videogioco del loro telefilm preferito.
Viceversa i non-fan rimarrebbero freddi di fronte alla passione, che può far chiudere gli occhi sui difetti, anche quelli più evidenti, e preferirebbero sicuramente l’altro articolo, più nelle loro corde.
Diventa quindi facile affermare che il divertimento non nasce soltanto dal gioco in sé, quanto da una serie di fattori che vanno a interagire tra loro e di cui il gioco è effetto e causa nello stesso momento. È proprio per questo che bisognerebbe cercare di tenerlo fuori da ogni discorso critico, dandogli il ruolo che merita. Cercare di renderlo un “dato” è un atto di arroganza che ne ignora la natura essenzialmente aleatoria e determinata. Se la critica videoludica vuole maturare, può ancora permettersi di rimanere attaccata alla mammella del nulla?
Quello che ci si limita a giudicare è quindi il prodotto da un mero punto di vista tecnico e produttivo,
Ecco perchè ha poco senso parlare di “critica” videoludica.
Non c’è critica, non c’è analisi dei contenuti, non c’è interpretazione, non c’è ricerca di collegamenti o elucubrazioni mentali.
Ci sono infinite discussioni tecniche, lunghi trattati sui controlli il cui compito dovrebbe essere assolto dla manuale di istruzioni e un breve commento se il costrutto, delineato da alcuni fattori, possa incontrare o meno il favore piacione e facilone del pubblico.
“Ho per caso scoperto l’acqua calda?”
Sì. Ma che recensione è? Di che gioco si tratta? Azione, stealth, adventure … i meccanismi su cui si basa funzionano o no? Solito articolo alla Ars Ludica, mezza pagina di menate e del gioco non si parla.
Ecco, mi riferivo proprio a questo!
Vazkor wrote:
http://multiplayer.it/recensioni/75775-prison-break-the-conspiracy-funzionera-la-lima-nella-torta.html
e cerca di tornare il meno possibile se devi produrre commenti così stupidi.
Ottimo pezzo e buon esperimento.
In fondo le conclusioni a cui giungi sembrano completamente ovvie una volta che le si è lette. Rimangono quasi oscure, invece, se non si è mai speso un minuto per pensarci su.
Personalmente, dopo aver vissuto da entrambi i lati della barricata (scrittore di recensioni Vs. lettore di recensioni) ho smesso completamente di considerarle e le leggo solo a gioco provato e/o ultimato. Preferisco ottenere un mio giudizio giocato e poi confrontarlo con quello degli altri rispetto al processo inverso, anche e soprattutto per i motivi che elenchi tu: un concept che a me fa impazzire potrebbe rivelarsi noioso per qualcun altro, ad esempio.
Per fortuna mi sono creato un po’ di amicizie su cui posso contare da questo punto di vista: se voglio un parere rapido su un JRPG in uscita so a chi chiedere, così come so che il mio interlocutore capisce i miei gusti e saprà darmi l’imbeccata giusta in base a cosa mi soddisfa.
Nemmeno sapevo dell’esistenza del gioco e perciò sposo parzialmente l’opinione di Vazkor sulla mancanza del parlare del gioco.
Senza parlare del gioco, l’articolo perde profondità: la conclusione è talmente intuitivamente banale (ai fan piace, ai non fan quasi non videogiocatori non fa né caldo né freddo) che mina tutto l’intento critico (se era questo l’intento).
Inoltre l’esperimento si poteva approfondire con delle considerazioni su quanto influisca il valore in sé del gioco sull’opinione, se i fan mangino anche la cacca purché griffata come piace a loro, se i riferimenti incrociati ad altri medium rovinino l’esperienza di chi non conosce le produzioni da cui il gioco deriva, se il citazionismo faccia da collante necessario a salvare un prodotto mediocre dall’oblio… ce ne sarebbero di cose su cui pensare, parlare e scrivere ma si sceglie “l’acqua calda”.
Magari sbaglio io ad interpretare il pezzo, può darsi.
l’intento non era dire: ai fan piace, ai non fan no. Quello è abbastanza scontato. L’intento era di sottolineare come sia impossibile definire divertente o meno un videogioco, a prescindere dalla qualità dello stesso.
Allora trovo sbagliatissimo il titolo dell’articolo.
E’ un po’ come quando vi chiedono se qualcosa “fa ridere” o se “fa paura”. Viene identificato il paradigma stilistico, anteponendo all’opinione fatta da motivazioni culturali, sociali e formative che svincola totalmente dal gioco ed è sottintesa a colui che scrive. Praticamente la reazione emozionale fatta regola, classificata e catalogata all’interno di determinati canoni di azione, probabilmente per renderla fruibile a chiunque. Una chimera che equivale alla pretesa di oggettività ad ogni costo. In questo caso il gioco si rivolge dichiaratamente agli spettatori del telefilm.. per quale gli si dovrebbe dare contro se mantiene quanto poco ha promesso, svolgendo il suo lavoro di espansione (o anche solo immersione) di quel determinato background?
Secondo me la più grande limitazione dei recensori (e mi ricollego anche all’intervento di Nevade) è che spesso confondono il divertimento con un indice di qualità assoluta.
Se mi danno un gioco che a me non piace affatto, ne farei una recensione negativa.
E qui entra in gioco la critica.
Capire che gioco è, a chi è indirizzato, cosa si aspetta quella gente e se i singoli elementi funzionano per quel tipo di pubblico, come è collocato nel canone o nel genere a cui si ispira.
Fatto questo, tutto il resto diventa molto secondario ed il sistema di grafica/giocabilità/longevità/presentazione non stà più in piedi, perché i videogiochi non sono automobili o computer, così come non lo sono i libri.
Infatti è quasi impossibile trovare recensioni eque di titoli rivolti ad un pubblico di bambini
Il problema di questo articolo, al massimo, è che è cascato sotto la categoria “recensioni”.
Alla fine pare sempre che avete una paura terribile di fare una recensione normale, per non dover riconoscere le banalità di fondo a cui anche il medium videogioco non sfugge.
D’altra parte se il videogioco può essere giustamente super partes rispetto al divertimento, figuriamoci se non lo è rispetto alle vostre esigenze intellettuali.
Maelzel wrote:
È anche quasi impossibile trovare titoli rivolti ad un pubblico di bambini che siano realmente pensati e sviluppati come si deve, pensando a creare qualcosa di adatto per un bambino e magari anche pensato per far giocare assieme genitori e figli. Invece nella maggior parte dei casi si tratta di giochi tali e quali – per struttura e idee – ai giochi “normali”, solo realizzati un po’ peggio, tarati su livelli di difficoltà molto bassi e resi accattivanti dal protagonista su licenza. Ché tanto il bambino si diverte comunque. Ed è vero che si diverte comunque, ma non è questo il punto.
le_mirage wrote:
O magari, semplicemente, non ne hanno voglia? Di siti tutti uguali che fanno le recensioni normali (ma cosa sono, poi, le recensioni normali) è pieno il Web. A me non dispiace avere anche qualcuno che parte da un gioco per fare delle riflessioni un filo tangenti. È quello che dovrebbe fare la critica, per quanto mi riguarda. Altro che guida all’acquisto.
le_mirage wrote:
La banalità, solitamente, è agognata dagli utenti più pigri che non vogliono fare alcuno sforzo per capire.
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