Nikolay Baryshnikov di 1C: “Anche con un buon gioco, è diventato quasi impossibile fare soldi.”

In un’intervista rilasciata a gamesindustry.biz, Nikolay Baryshnikov, il capo del publisher russo 1C Company (quelli di King’s Bounty e Cryostasis), ha fatto una serie di dichiarazioni piuttosto interessanti. L’amico di Zangief ha affermato che è diventato difficile avere successo con un gioco ad alto budget: “Credo che l’industria sia in un tale stato che anche con un buon gioco, è diventato quasi impossibile fare soldi”.

Il problema principale sono le aspettative dei videogiocatori che, spendendo dai quaranta ai sessanta dollari si aspettano: “centinaia di ore di gioco, decine di migliaia di ore di filmati di qualità, una modalità multigiocatore super…” Baryshnikov prosegue spedito su questa strada: “per accontentarli dovremmo spendere, non so, duecento milioni di dollari… anche quando produciamo titoli di grande qualità, ma senza uno dei componenti elencati, la stampa sentenzia ‘85%, ci ho giocato, è bello, ma non ha i filmati o altro…’. Oppure sono i giocatori a dire che: ‘non c’è multiplayer, non lo compro’ e gli affibiano 22.”

L’intervista prosegue parlando di come i giocatori siano oggi tentati da diverse offerte ludiche e si conclude affermando che è inutile tentare di competere sullo stesso piano di un Call of Duty 7, ma conviene rivolgersi alle nicchie, soprattutto nel mercato PC, con giochi mirati a crearne di nuove come Rig’n Roll o Men of War (che poi è anche quello che fa da anni la Paradox con i suoi giochi strategici molto complessi, o la Spiderweb con i suoi giochi di ruolo dalla grafica spartana, ma molto intriganti e articolati).

Insomma, il futuro del mercato PC è nelle nicchie? Ovvero in tutti quei videogiocatori che sono stati bistrattati e ignorati dal mercato di massa negli ultimi anni? Chi può dirlo, magari è proprio così o, più probabilmente, ci sarà una convivenza forzata tra mercati paralleli che punteranno a soddisfare il proprio target in modo sempre più mirato.

FONTE

Halo: Reach [Single Player]

Prodotto da Microsoft | Sviluppato da Bungie | Piattaforma Xbox360 | Rilasciato il 14 settembre 2010

È un vero peccato che solo adesso, a 9 anni dall’uscita del primo episodio, il franchise di Halo abbia ricevuto una produzione all’altezza delle sue potenzialità. Dopo una trilogia caratterizzata da un level design spesso ripetitivo e poco ispirato e una trama che ha perso coerenza con l’avanzare della serie, fa piacere trovare un titolo la cui struttura sia sufficientemente sviluppata da non sminuire l’ottimo gameplay che costituisce la formula Halo. Per dover di cronaca questo miglioramento era già ravvisabile nel sottovalutato Halo 3: ODST, ma la brevità della campagna, coadiuvata dalla scelta antipatica di vendere l’espansione a prezzo pieno negli Stati Uniti, hanno lasciato che questa caratteristica passasse inosservata.

La storia di Reach è un diretto prequel di Halo: Combat Evolved e ripercorre la caduta del pianeta omonimo seguendo la prospettiva di una squadra di Spartan chiamata Noble Team; ritorna quindi l’iconografia del gruppo compatto introdotta in H3:ODST, con il giocatore relegato ancora una volta al ruolo del nuovo arrivato, in questa istanza chiamato con l’appellativo generico di Nobel Six.

Come la Recluta della precedente espansione quindi, ci troviamo di fronte ad una semplice proiezione virtuale del giocatore, senza pretese di evoluzione o introspezione psicologica. Sia ben chiaro, con ciò non voglio affermare che Master Chief sia stato un gran protagonista tragico, ma la sua unicità e l’aura quasi messianica che lo avvolgeva gli conferivano una certa identità che lo staccava leggermente dalla prospettiva del giocatore, eventualità che non accade con Noble Six dato che l’unica caratteristica del personaggio viene a malapena accennata all’inizio dell’avventura, per poi essere quasi subito dimenticata a causa dell’incalzare degli eventi.

Per quanto riguarda il plot H:R riesce, per fortuna, ad abbandonare l’epica pomposa che ha caratterizzato la trilogia “classica”, proponendo uno sviluppo degli eventi organico e credibile. In contrapposizione al viaggio a tinte mistiche di Master Chief, dove si aveva l’impressione che la storia continuasse per inerzia, l’invasione del pianeta è presentata con un meccanicismo talmente cinico da creare un impatto notevole: iniziare la campagna con una semplice missione di ricognizione e ritrovarsi l’intera flotta Covenant in assetto offensivo crea comunque una sensazione molto forte, indipendentemente dalla nostra familiarità con gli eventi..

Gli unici frangenti in cui la trama perde colpi si registrano nei momenti in cui la storia si permette un breve detour in un’installazione dei Precursori (ambiente un po’ fuori luogo in un contesto così vicino agli umani) e quando si cerca di sottolineare alcuni momenti con un registro così eccessivamente drammatico da risultare fuori luogo se confrontato con la generale sobrietà che caratterizza non solo il racconto, ma anche le ambientazioni e gli scambi di battute tra i comprimari.

A proposito degli altri componenti del Noble Team, è un peccato che questi personaggi non siano stati usati in modo più estensivo; perché i presupposti ci sarebbero stati tutti: le differenze fra Spartan di diverse generazioni (a parte un componente, sono tutti guerrieri “di serie B” in termini di costi e prestazioni), le dinamiche e i rapporti che si creano all’interno del gruppo (la non chiara relazione tra il comandante Carter e il suo secondo Kat, la tendenza di Jun ad agire da solo) o anche semplicemente alcune impronte caratteriali che vengono abbozzate troppo tardi per essere approfondite (come l’attaccamento di Jorge a Reach e il suo rapporto con la dottoressa Hasley). Dispiace che questi personaggi, il cui appellativo “Noble” assumerà un significato solo a posteriori, non abbiano trovato cinque minuti in cui uscire dai loro archetipi, magari con una cutscene in sostituzione alle schermate di caricamento; e sarà ancora più triste quando le loro backstory verranno relegate a semplice approfondimento esclusivo ai fan più accaniti, riportate in qualche libro o in qualche side story, privandole quindi della forza che avrebbero avuto nel gioco.

L’intenzione di confezionare un’esperienza migliore, più completa e articolata è visibile anche nel gameplay; il sistema di armi è stato riveduto e perfezionato: ora ogni strumento di offesa ha una nicchia specifica e a parte qualche sporadica eccezione (come il fucile a concussione), ogni arma risulterà utile in un particolare tipo di confronto. Ciò permette di aggiungere una componente tattica notevole che modifica in modo dinamico la difficoltà dei vari incontri, soprattutto nei livelli avanzati, dove sarà richiesto al giocatore di combattere orde di nemici con un equipaggiamento quasi mai ottimale, costringendolo a cambiare continuamente approccio, soprattutto alle difficoltà Eroico e Leggendario. Certo si sente la mancanza dei Flood (esclusi per un motivo puramente narrativo) e del dual-wielding, ma per fortuna l’inclusione di tutti i nemici Covenant precedentemente apparsi nella serie, più l’aggiunta di abilità attive come sprint, jetpack e scudi a bolla riescono a supplire egregiamente a questa mancanza, tenendo la varietà a livelli molto alti. Un ultimo plauso va fatto al combattimento veicolare, qui presentato in maniera più estesa sia come tipologia di mezzi (un livello avrà luogo nello spazio orbitale) sia come integrazione con le sezioni a piedi (i livelli di New Alexandria ricordano i fasti della Stanza di Controllo del primo Halo e della Mombasa di Halo 2).

In conclusione: A metà strada tra fan service e una genuina, quanto inevitabile, maturazione, Halo: Reach è l’episodio più puro e meglio realizzato del franchise: finalmente l’ottima giocabilità  viene completata da un design non ripetitivo e una storia che vale la pena di essere raccontata. Certo l’ingenuità della serie si fa sentire e il gioco non riesce a creare quella tensione drammatica a cui aveva puntato, ma il (temporaneo ?) abbandono di Master Chief ha permesso di presentare una trama più credibile, libera dall’insulso, e a tratti ridicolo, finalismo che ha caratterizzato la prima trilogia.

Note Finali: Questa recensione è stata scritta dopo un playthrough completo della campagna (difficoltà Leggendario, nessun teschio attivo) e un totale di 2 ore dedicate a gioco cooperativo e testing dei vari livelli di difficoltà.

Da un punto di vista tecnico è stato notato un miglioramento generale della resa visiva soprattutto in termini di quantità di poligoni ed effetti particellari; purtroppo però il framerate soffre di sporadici cali in adiacenza a fasi concitate.

Frammenti

Maghi e palle verdi. Chi poteva pensare che sarebbe finita?

Il mondo dei videogiochi nacque in preda a un delirio utopistico: dinamico, giovane, pieno di idee e di prospettive interessanti per il presente e per il futuro, non sembrava avere limiti. Anche durante la crisi dei primi anni Ottanta, che fermò il mercato ma non certo gli sviluppatori e i loro sogni (erano per lo più ragazzi che producevano i giochi nelle loro case e che non sapevano bene nemmeno come distribuirli, Richard Garriott insegna), non venne meno la capacità del neonato medium di raccontare il mondo “nuovo”. Specchio di una società in cui le sicurezze andavano disgregandosi, i videogiochi diventarono la valvola di sfogo e il vero mezzo di espressione di una generazione che non riusciva più a fronteggiare la realtà nelle forme istituite dalle generazioni precedenti. Il fordismo stava morendo, soffocato da una visione del mondo più individualista e frammentata; e la stabilità globale, dovuta alla Guerra Fredda, stava per lacerarsi irrimediabilmente causando una delle crisi storiche più importanti dell’umanità (ancora la stiamo vivendo).

Le forma d’arte mature, pur riuscendo ad andare più a fondo nell’analisi del periodo storico in corso, non riuscirono a rappresentarlo bene come uno Space Invaders o un Pac-Man; non avevano la potenza iconica di quei piccoli universi di pixel apparentemente così slegati dalla realtà. C’era voglia di anarchia espressiva e di libertà dalla cultura immanente che, paradossalmente, partiva da testi tutt’altro che progressisti come Il Signore degli Anelli o la fantascienza di Isaac Asimov. Molti titoli nascevano dalle esperienze di vita degli autori stessi e le prime macchine (anche) da gioco su cui era possibile sviluppare liberamente erano piene di titoli oggi improponibili e sopra le righe che avevano come protagonisti operai, postini, pittori di appartamenti, ragazzini che affrontavano diversi aspetti della quotidianità e così via. I nemici potevano essere sì fantasmi e mostri assortiti, ma anche la carie e, perché no, la ricerca di un lavoro.

La verità è che, non essendoci modelli da seguire o un mercato da soddisfare a tutti i costi, non c’erano limiti definiti. Lo stesso genere dei giochi di ruolo non nacque da complicati calcoli di mercato di qualche mastodontica multinazionale, ma da gruppi di ragazzi che passavano i pomeriggi a tirare dadi e a perlustrare dungeon abbozzati su dei fogli di carta che esistevano soltanto nella loro fantasia (il genere era così legato alla sua controparte “reale”, ovvero ai giochi di ruolo da tavolo, che spesso il materiale cartaceo che corredava le confezioni dei videogiochi era parte integrante dell’avventura e non era possibile prescinderne per portarla a termine; come spesso non era possibile giocare senza disegnare le mappe dei dungeon a mano o scrivere appunti su appunti per prendere nota di indizi importanti).

Chi definiva i videogiochi alienanti e slegati dalla realtà, non conosceva quei mille universi fatti di ambienti suburbani deliranti o di scuole oppressive che venivano messe a soqquadro in modo liberatorio da bambini che erano tutto tranne che eroi. Si trattava di titoli dotati di una carica ribelle avulsa agli intellettualismi o alla progettualità commerciale. Spesso sembravano realizzati più per sghignazzare tra amici che per cercare approvazione tra la massa dei videogiocatori, la quale, non essendo incasellata in settori di mercato, non esisteva ancora.

A guardarla da un altro punto di vista, molti videogiochi nascevano dalla volontà degli sviluppatori di dimostrare la loro abilità con il codice; erano dei giovanotti eccitati dalla novità che avevano tra le mani e che si preoccupavano relativamente poco di adeguare i contenuti alle aspettative di un pubblico che ancora non esisteva in quanto tale. In fondo, i videogiocatori e gli sviluppatori spesso corrispondevano e non sono pochi i titoli che nascono come variazione di altri soltanto per dimostrare di saper fare meglio.

Non voglio mitizzare quegli anni, dai quali nacquero immani schifezze, ma anche titoli folli e geniali che oggi sono improponibili in un mercato asfittico e basato sulla riproduzione ossessiva di pochi esemplari di rilievo (basta vedere i mille cloni di Gears of War che, nonostante siano evidentemente delle derivazioni prive di creatività, trovano comunque il plauso della critica e del pubblico). Volevo solo ricordare a me stesso che “videogioco” può essere anche una palla che salta in un labirinto di travi di ferro, o un contadino che deve raccogliere delle mele che cadono da un albero. In fondo, sono andate perdute un’infinità di possibilità, nonostante le promesse/marketing dello sviluppo tecnologico.

Articolo già apparso su Babel 25

Planescape: Torment su gog.com

Dopo lo scherzone che quelli di GOG hanno fatto ai loro utenti (me compreso), quasi non volevo dare questa notizia. Però l’amore ha vinto. Il secondo gioco del catalogo Hasbro pubblicato su GOG.com è nientemeno che Planescape: Torment. Come facevo a non segnalarvelo? Suvvia, se esiste Ars Ludica un po’ lo si deve anche a lui.

Per quegli sfigati inutili che non lo conoscono ancora (giocatelo ed evolvetevi dal vostro stato larvale!), diciamo che Planescape: Torment è uno dei giochi di ruolo per computer più belli e acclamati di sempre. Nato sulla scia di Baldur’s Gate, di cui condivide il motore grafico, ha impiegato poco ad emanciparsi grazie alle sue incredibili qualità. I giocatori rimasero infatti coinvolti da una storia insolitamente ben narrata che permetteva di risolvere la maggior parte delle situazioni semplicemente dialogando, dai personaggi profondi e ben caratterizzati e da una visione di fondo di ampio respiro, insolitamente ispirata per un videogioco. Era un’epoca felice in cui si pensava che i giochi di ruolo potessero evolversi in un senso che, invece, è andato perduto con gli anni.

Se ve lo siete perso, andate ad acquistarlo immediatamente. Tra gli extra otterrete degli artwork e dei wallpaper molto belli.

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Monday Night Combat [XBLA/Multiplayer]

Sviluppato da Uber Entertainment per Microsoft Games | Piattaforma XBLA | pubblicato nell’agosto 2010

È incredibile come i ragazzi di Uber Entertainment siano riusciti a creare una piccola ma viva community tramite un titolo XBLA, in un ambiente polarizzato come XBox Live (dove il 90% del traffico multiplayer è spartito tra Call of Duty e Halo). Dopo il flop di Blacklight: Tango Down sembrava impossibile un’impresa del genere, e invece …

La meccanica basilare di MNC è costituita dalla modalità Fuoco Incrociato: due squadre di sei componenti si affrontano in un ibrido tra uno sparatutto in terza persona e un Tower Defense: ognuna delle due squadre ha una base e un punto focale (la Soldisfera); l’obiettivo principale è quello di distruggere, danneggiandola con l’aiuto di robot controllati dalla IA, la Soldisfera nemica.

Ciò che riesce a fare magistralmente Monday Night Combat è amalgamare perfettamente la componente ruolistica di uno shooter alla Team Fortress 2 con l’intero sistema economico e le meccaniche tipiche di un Tower Defense: a differenza di altri giochi objective-based, infatti, ai giocatori non è richiesto necessariamente di cercare di eliminare gli avversari; ma in compenso devono occuparsi attivamente della difesa della propria base (supportata anche dalla costruzione di torrette) e della scorta dei propri droni verso la base nemica. Ogni azione portata a termine dal giocatore (un assist, l’eliminazione dell’avversario o la distruzione di droni e torrete avversari) gli frutterà denaro utilizzabile per acquistare strutture difensive, droni aggiuntivi o potenziamenti personali, oltre che per aumentare il proprio punteggio (le leaderboard sono score-based, in contrapposizione a quelle kill-based tipiche di titoli come Gears of War o Halo).

La parte ruolistica invece trova in TF2 la sua ispirazione principale, proponendo una struttura più semplificata (ma non per questo semplicistica) del titolo Valve. Le classi, o meglio “ruoli”, disponibili sono 6 (Assalto, Mitragliere, Tank, Cecchino, Assassina, Supporto), ognuna dotata di 2 armi e 4 abilità: tre skill attive assegnate a tre pulsanti specifici più una skill “passiva” che determina alcune caratteristiche specifiche per ogni ruolo (aumenta velocità, recupero salute etc.). Ognuna delle abilità può essere potenziata tre volte e ogni livello acquisito richiede una certa quantità di denaro, rendendo la scelta più ardua da un punto di vista strategico (“Decido di potenziare la mia abilità o investo quel denaro in difesa ?”). Certamente una maggiore scelta fra le abilità disponibili sarebbe stata migliore in termini di longevità, ma il sistema funziona e non sembra in alcun modo incompleto, nonostante alcune skill (come quelle del Tank) risultino poco utili.

Da un punto di vista stilistico va apprezzata la scelta di utilizzare un contesto sportivo. Proporre il Monday Night Combat con uno sport, con tanto di mascotte, nomi altisonanti, telecronaca e sponsor è stata una trovata molto divertente ed originale; certamente il gameplay non ne risente, ma i colori vivaci e la telecronaca gasata sono un’alternativa più che benvenuta ai termini militaristici dei vari Call of Duty e ai colori spenti di Bad Company 2.

Anche se MNC soffre dei tipici problemi di un titolo Arcade multiplayer (bassa densità di giocatori, matchmaking più lento della norma), il fatto che il titolo sia sopravvissuto all’uscita di Halo Reach dimostra come un concept ben sviluppato e un supporto eccellente (MNC è uno dei pochi titoli che non ha bisogno delle approvazioni Microsoft per essere aggiornato) sia capace di sopravvivere ad esperienze multigiocatore più complesse e blasonate.