Nessuna correlazione tra i massacri e i videogiochi

Tra le millecinquecento pagine del manifesto di Anders Behring Breivik, ci sono anche alcuni brevi paragrafi dedicati ai videogiochi, di cui si parla soprattutto come passatempi (Breivik è un appassionato di fantasy). Solo Call of Duty: Modern Warfare 2 viene descritto come parte integrante del suo addestramento (World of Warcraft è stato usato come scusa per fare assenze, lamentando una dipendenza dal gioco). Ovviamente, parte della stampa e della società civile ha trovato in questi accenni dei motivi sufficienti per sparare a zero contro i videogiochi, anche se si tratta di voci isolate e con poco seguito. Nel mentre, Coop Norway, una catena d’ipermercati norvegese, ha deciso di ritirare ben cinquantuno giochi violenti dagli scaffali, seguendo non si sa bene quale criterio (probabilmente il PEGI?).

Ma è veramente possibile dare la colpa ai videogiochi per il gesto tutto ideologico di Breivik? Uno psicologo americano, Christopher Ferguson, che ha compiuto diversi studi sull’argomento in seguito ai fatti della Columbine, crede di no. Intervistato da Forbes (link) ha dichiarato che non bisogna incolpare i videogiochi per l’accaduto e, anzi, che traformarli in capro espiatorio per ogni massacro compiuto da un bianco è da ignoranti e razzisti.

La sua tesi è che quando i massacri avvengono in scuole popolate da minoranze, nessuno cerca capri espiatori e nessuno parla mai di videogiochi come moventi per l’accaduto, dando implicitamente la responsabilità dei fatti all’ambiente sociale dove sono cresciuti, mentre ogni volta che un massacro è compiuto da un maschio bianco, è inevitabile che qualcuno additi il medium videoludico come causa scatenante della violenza.

Per Ferguson le stragi sono inevitabili, anche se fortunatamente rare, e nessuno può farci nulla. Sono come fulmini a ciel sereno di cui la società non vuole sentire parlare e quindi torna comodo incolpare un fattore esterno e alieno. Comunque, per i fatti di Oslo, Ferguson nota anche che la stampa non ha mostrato il solito accanimento verso i videogiochi, come avvenne nel caso del massacro della Columbine, quando Doom e Quake furono messi letteralmente alla sbarra e accusati di aver indotto Eric Harris e Dylan Klebold ad agire come fecero. Oltre al fatto che a Oslo non sono stati coinvolti cittadini americani, lo psicologo nota anche che ormai i videogiochi sono parte integrante della cultura collettiva e che, quindi, ci sono molte più persone in grado di distinguere e capire che non possono essere la causa scatenante di un gesto apparentemente folle, e che sono soltanto una forma d’intrattenimento come le altre. Certo, rimangono dei gruppi organizzati, solitamente parte della destra conservatrice, che sono pronti ad accusare i videogiochi di qualsiasi male della società, ma nel caso di Oslo non sono riusciti a far penetrare le loro accuse.

Scientificamente, l’idea che la violenza nei videogiochi, nei film o in televisione contribuisca agli omicidi di massa non ha alcun fondamento. Credo che la recente sentenza della Corte Suprema abbia aiutato in questo senso, soprattutto perché ha chiarito che la ricerca scientifica non è riuscita a dimostrare alcuna correlazione tra i fenomeni.

Ferguson nota anche che il massacro della Columbine fu un momento importante per gli studi in materia e che le pacate reazioni ai fatti di Oslo sono state anche il frutto delle numerose ricerche svolte in quegli anni per capire se veramente i videogiochi violenti potessero veramente essere dei “veleni digitali che corrompono le menti dei giovani”, come affermato da quelli che ne chiedevano la messa al bando.

È proprio su parte di quegli studi che si è basata la già citata sentenza della Corte Suprema, che ha dato ragione all’industria videoludica equiparando i videogiochi agli altri media. Alcuni di questi studi, hanno dimostrato che circa il 95% dei giovani americani ha giocato con dei titoli contenenti scene di violenza e che, quindi: “Collegare gli omicidi di massa ai videogiochi quando l’assassino è un giovane maschio bianco equivarrebbe a incolpare il fatto che indossava delle Sneakers.” Ferguson nota anche che quando l’omicida è un individuo adulto, i media non danno mai la colpa delle sue gesta ai videogiochi, anche se è statisticamente dimostrato che il giocatore medio ha oggi 37 anni e che il 25% dei videogiocatori ha più di 50 anni (dati dell’Entertainment Software Association).

Comunque, con la sempre maggiore diffusione dei videogiochi, diverrà più raro sentire tesi come quelle che seguirono al massacro della Columbine. Certo, bisognerebbe portare un po’ di questa cultura anche in Italia, dove parte della stampa ha subito dato la colpa ai videogiochi per la lucidissima follia di Breivik, probabilmente per non dover parlare del suo essere di destra e reazionario. Evidentemente, da noi gli studi scientifici e la cultura non fanno presa e si preferisce continuare a cercare capri espiatori in tutti quei fenomeni che le vecchie generazioni, purtroppo ben salde al potere, stentano o non vogliono proprio capire.

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