Arsludicast 202: Non siamo pavidi perché siamo Arsludici

Come il finale di un qualunque Nightmare, in cui Freddy sembra che sia morto ma invece no, torna ArsLudicast, in una puntata tutta dedicata al mondo dell’horror!

Dietro richiesta del nostro lettore “Il cane”, la redazione si cimenta in un’analisi del modo in cui i videogiochi cercano di farci paura. I nostri splendentissimi redattori Simone Tagliaferri, Alessandro Monopoli e Vittorio Bonzi, carenti dell’Anelli ma confortati dal Rud, passeranno in rassegna giochi horror vecchi e nuovi; e finalmente vi diranno cosa è bello e cosa no, ché loro sì che lo sanno.

Troverete un flame, una telefonata, introduzioni duplicate e misteriose alle recensioni singole e finalmente ne saprete di più sulle sorelle del Rud e del Monopoli.

In mezzo a tanto barbarico favellare, si parla di:

Vi ricordiamo che se volete assistere come ospiti al podcastproporre un argomento di discussioneo, perché no?, proporre un arrangiamento al Monopoli, potete farlo contattandoci a: arsludicast@arsludica.org o redazione@arsludica.org, oppure utilizzando l’apposito thread sul forum!

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Brano in Apertura:
Baldur’s Gate 2, Dragonbattle music, di Michael Hoenig, Howard Drossin arrangiata ed eseguita da Alessandro Monopoli

Brano in Chiusura:
Theme of Laura di Akira Yamaoka

24 commenti su “Arsludicast 202: Non siamo pavidi perché siamo Arsludici

  1. Bella puntata davvero!
    Sopratutto perchè si è finalmente parlato di gamedesign mettendo sul tavolo alcune proposte interessanti, e sottolineando quello che per me è sempre stato più che evidente: se i mostri si possono ammazzare non fanno più paura.
    Rimane comunque la domanda “si può fare un videogioco horror immersivo, adulto e magari innovativo dal punto di vista del gameplay?”
    Bravi ragazzi.

  2. Gran bella puntata. Mi ha interessato soprattutto la digressione sulle avventure grafiche. Per molto tempo ho amato questo genere di giochi ma, ultimamente, me ne sono distaccato e non per ragioni di meccaniche, di game design maldestro o per l’eccessiva facilità. Il vero motivo è che mi sono reso conto di come (paradossalmente, vista la natura del genere) le avventure grafiche che possano vantare una profonda caratterizzazione dei personaggi ed un intreccio che non sia un mero pretesto per proporre enigmi più o meno logici siano pochissime. Mi vengono in mente solo: Grim Fandango (per me il migliore in assoluto), the longest journey, Sanitarium (almeno sino alla prima metà del gioco, la seconda parte è, a mio parere, da buttare), I Have No Mouth, and I Must Scream (tra alti e bassi), Discworld Noir (solo per quel che riguarda i suoi arguti dialoghi) e, più di recente, the whispered world, Gray Matter (anche se si ammoscia sul finale), The Marionette e Trauma (quest’ultime due facenti parte del panorama indie). Mi chiedo perché siano così poche le avventure grafiche (genere che, più di qualsiasi altro, è dotato d’una connaturata propensione alla narrazione) capaci di scendere in profondità nella costruzione di personaggi umani e complessi, le cui storie ci coinvolgano emotivamente al di là di trite cospirazioni globali, di qualche oscuro omicidio o dell’ennesima catastrofe cosmica che, il nostro protagonista, è puntualmente chiamato a scongiurare. Se avete una risposta o mi è sfuggito qualche titolo particolarmente esaltante (non ho menzionato The last express, uno dei giochi più affascinanti di sempre, perché credo che la sua grandezza appartenga più alle ardite idee di game design che alla trama in sé o ai suoi personaggi: interessanti ma nulla di più) fatemelo sapere.

    Poi, se è possibile, vorrei che Tagliaferri chiarisse un punto che mi pare lui stesso abbia sollevato durante la puntata: perché sei così sensibile al problema dell’assenza di sfida da parte dei videogiochi contemporanei? Come ho già postato su un articolo di Rostislav Kovalskiy, non riesco proprio a capire chi concepisce i videogiochi come un esame. Non capisco soprattutto come ci si possa sentire “fighi” (ovviamente non mi riferisco a te) solo perché si è riusciti a finire un gioco particolarmente difficile. Ho sempre pensato, leggendo i tuoi articoli, che, a tuo parere, i videogiochi devono essere considerati come veicoli di comunicazione, forme d’espressione. Proprio per questo mi chiedo: che relazione ci trovi tra la qualità di un titolo a la sua difficoltà? Che un gioco sia semplice o rognoso non vedo come questo possa andare ad influire sulle potenzialità espressive di un’opera. Mettendo da parte il fatto che il grado di sfida è un elemento estremamente soggettivo (cosa non lo è dopotutto?), sarebbe come dire (mi si passi la provocazione) che “2001 odissea nello spazio” o “La ricerca del tempo perduto” (appartenenti a due discipline diverse: cinema e letteratura), sono belli perché mettono alla prova le capacità interpretative dello spettatore/lettore. Sarebbe ovviamente un’assurdità. Le due opere sono dei capolavori imprescindibili ma di certo non perché “criptici” (molti di noi potrebbero addirittura considerare la loro lettura perfettamente cristallina, a sottolineare, ancora una volta, la soggettività di questo parametro), ma perché propongono una visione personale e incredibilmente profonda della vita, dell’uomo, della memoria, del senso dell’esistere. Per dirla in poche parole non vedo come il grado di sfida possa essere considerato un parametro di giudizio valido.

  3. Una cosa non esclude l’altra. Comunque non mi sembra di aver espresso rimpianto per quei tempi, ho solo detto che all’epoca i videogiochi erano intesi in modo molto diverso da oggi. Gli sviluppatori sfidavano il i giocatori, che non avevano il diritto di finire i giochi, ma solo di provarci. L’espressività di un videogioco non è legato necessariamente alla sfida che propone. I videogiochi sono un insieme formato da molti sottoinsiemi diversi che possono convivere senza problemi, anche se antitetici. La sfida deve esserci, sì o no? Dipende. Giocare a un GDR che si finisce andando dritti e sparando all’impazzata non è il massimo della vita, anche se piace parecchio ai videogiocatori moderni, mentre rovinare un momento di climax con una serie di scontri lunghi e monotoni è un delitto, più che una feature. 

  4. Continuo a pensare che, certamente, espressività e sfida possano coesistere, ma non vedo come la seconda possa influenzare la prima. Pongo un esempio: Torment (prendo il caso di un gioco quasi unanimemente riconosciuto come un capolavoro) sarebbe stato un gioco migliore se avesse proposto un grado di sfida maggiore? E se fosse stato più semplice e i nemici più facili d’abbattere? La risposta che darei io è che non sarebbe cambiato nulla, Torment sarebbe rimasto il capolavoro che è in virtù di una capacità d’idagine sul tema dell’identità e della memoria che non ha paragoni nel mondo dei videogiochi. In ogni caso, grazie per il chiarimento.

  5. La questione della difficoltà è molto spinosa, ad alcuni piacciono quel genere di giochi dove ci sono 18928739018 nemici a schermo e una macchina riuscirebbe meglio di un’essere umano, altri preferiscono fruire dell’opera senza eccessivo stress.
    Questo vale anche per gli enigmi proposti, se la sfida deve essere tra lo sviluppatore e il giocatore allora è una sfida disequilibrata e senza senso, lo sviluppatore crea un prodotto con una funzione intrattenitiva e non un semplice rompicapo dichiaratamente “impossibile” … altrimenti equivarrebbe ad una sedia sulla quale è estremamente difficile e scomodo riuscire a sedersi, ovviamente è un fallimento di design, perchè una buona sedia è tendenzialmente una sedia comoda.
    Questo per dire che in ogni caso l’equilibrio è più difficile da raggiungere rispetto all’estremizzazione, un gioco dalla sfida ben bilanciata che riesca ad intrigare e divertire nel contempo è certamente più arduo da concepire di un gioco semplicemente impossibile.

  6. Alcuni saggi imparano a sedersi anche sui chiodi. Il concetto di comodo va bene per un salotto. Comunque è ovvio che dal discorso “sfida” vadano esclusi tutti quei giochi volutamente impossibili o quelli praticamente ingiocabili. La sfida va lanciata secondo delle regole e deve coinvolgere chi la riceve, altrimenti diventa un mero atto di sadismo. Altrettanto ovviamente, il livello della sfida dipende dal tipo di giocare a cui questa è rivolta. Il discorso è più complesso di quello che sembra e non è riducibile a una mera questione di difficile/facile. Però, così come non sono accettabili le sfide impossibili “entro certi limiti”, altrettano sono inaccettabili i videogiochi luna-park, quelli in cui entri ed esci senza provare altro che sensazioni effimere.

  7. Simone però, se voglio essere “sfidato”, compro la settimana enigmistica o rifaccio l’esame di latino (che per me equivale ad un suicidio 🙂 ) cosa c’entra il tasso di difficoltà con la capacità di un’opera d’esprimere una visione, uno “sguardo”? Se poi per te il videogioco debba ANCHE essere un “oggetto” che svolga una “funzione” (quello di metterti alla prova) è un altro discorso, legittimissimo, ma che io non condivido.

  8. Per essere chiari, quel che voglio dire è che, a mio parere, un gioco può benissimo essere difficile o facile (entrambe percezioni assolutamente soggettive), lineare (sappiamo benissimo che esistono tantissimi videogiochi splendidi e narrativamente rigidi, uno su tutti Silent hill 2) o incentivare il giocatore a sperimentare ma no vedo come, tutto questo, possa aggiungere o togliere allo spessore espressivo di un videogioco. Vedo però che molti (soprattutto i videogiocatori della “vecchia guardia”, tra cui anch’io ho la prsunzione d’inscrivermi) avvertono la nostalgia di un’epoca nella quale finire un gioco non era un diritto ma una remota possibilità. Tutto ciò, dopotutto, aveva senso nell’epoca delle sale giochi, dove delle macchinette dovevano spillarti più spiccioli possibile, adesso è ancora così essenziale? In ogni caso nessuno potrà convincermi che (per rimanere nella contemporaneità) un titolo (per me modesto) come Demon’s Soul (da più parti considerato un ritorno a quella concezione di videogame come “esame”) sia meglio di un’opera indie come The museum of broken memories, un’avventura grafica (?) di Jonas Kyratzes che ha un tasso di sfida bassissimo ma che riesce ad esprimere, con una profondità inarrivabile, l’orrore della guerra, della morte, della distruzione, memorie che ci legano ad un incubo da cui non si riece a fuggire. Ma ancora una volta, ci tengo a precisare, la facilità con cui si porta a termine The museum of broken memories non ha niente a che vedere con la sua grande qualità, fosse anche stato difficilissimo ma, al contempo, appagante, (con un grado di sfida mal calibrato si sarebbe potuto parlare al massimo di game design mal studiato ma non è questo che m’interessa) credo che ciò non avrebbe aggiunto o tolto nulla alla grandezza espressiva di quest’opera.

  9. Brumaio wrote:

    Simone però, se voglio essere “sfidato”, compro la settimana enigmistica o rifaccio l’esame di latino (che per me equivale ad un suicidio ) cosa c’entra il tasso di difficoltà con la capacità di un’opera d’esprimere una visione, uno “sguardo”? Se poi per te il videogioco debba ANCHE essere un “oggetto” che svolga una “funzione” (quello di metterti alla prova) è un altro discorso, legittimissimo, ma che io non condivido.

    No no, per me non “deve”, per me “può”. Fondamentalmente Il videogioco può essere quello che vuole. I videogiochi di cui mi lamento sono quelli che ne ti sfidano, ne esprimono una visione. I videogiochi luna park. Sono il primo a trovare sublime The Graveyard che dura 0 e ha sfida 0 e ad amare Torment per come è costruito (anche se lì la sfida c’è).

  10. Simone Tagliaferri wrote:

    I videogiochi di cui mi lamento sono quelli che ne ti sfidano, ne esprimono una visione. I videogiochi luna park. Sono il primo a trovare sublime The Graveyard che dura 0 e ha sfida 0 e ad amare Torment per come è costruito (anche se lì la sfida c’è).

    Se la poni in questo modo sono totalmente d’accordo (anche e soprattutto per quel che riguarda The Graveyard, a mio parere, il titolo migliore dei Tale of Tales che, per come la vedo io, non sono poi riusciti a mettere a frutto quel che, con quella piccola opera, avevano laciato sperare). In ogni caso, nel mio piccolissimo, continuerò a sostenere quegli sviluppatori che, prima di pensare a calibrare il tasso di sfida, si pongono il problema di COSA vogliono esprimere attraverso il loro videogioco (sempre che abbiano qualcosa da dire, e ciò accade sempre più di rado) e di COME desiderano sviluppare il loro pensiero. Le software house che, ad esempio, spendono mesi (o anni) di produzione per calibrare ed equilibrare ogni aspetto del loro gameplay (ogni riferimento alla blizzard è assolutamente voluto) mi fanno sbellicare dalle risate (poi però, vedendo quanto vendono e i votoni che si beccano sulle riviste di settore mi viene subito da piangere 🙂 )

  11. Il mio ideale di gioco è assassin’s creed, difficoltà vicina allo zero e massima libertà di gioco, almeno nei due capitoli finali. Io non ho più voglia di arrabbiarmi e frustrarmi quando torno a casa. Ho abbandonato il multiplayer online per questo motivo. Se poi il gioco riesce a coinvolgermi e suscitami delle emozioni meglio ancora.

  12. I gusti sono gusti e se per te Assassin’s creed è un gioco “emozionante” io non posso permettermi di sindacare. Tanto per saperlo, però, cosa ti entusiasma esattamente di un gioco al cui centro della trama c’è una cospirazione globale e (se non ricordo male) una profezia aliena e dove, come se non bastasse, i personaggi sono figurine inconsistenti oltre che assolutamente inverosimili? Te lo chiedo perchè vedo che sto gioco è piaciuto a moltissima gente e anche qui su ars ludica ha molti estimatori. Io dopo aver finito il secondo episodio (e dopo aver assistito a quello che, a mio parere, è uno dei più orrendi e ridicoli finali della storia dei videogames) ho giurato con me stesso che non avrei mai più giocato a nessun altro titolo di questo franchising. Inizio a credere che forse non abbia capito qualche importante passaggio dell’intreccio o che non abbia colto qualche profondo e recondito significato. Se è così fammi sapere. Gli apprezzamenti per questa serie rimangono per me un assoluto mistero (esattamente come l’esaltazione che suscita ogni nuovo gioco della Blizzard).

  13. @Brumaio
    Vediamo, correre sui tetti di Monteriggioni, salire sul duomo di Firenze, ammirare da quell’altezza una Firenze medioevale verosimile e poi buttarsi giù ed atterrare in un carretto pieno di fieno. Incredibilmente liberatorio per me. La possibilità di affrontare le missioni un pò come ci pare, una trama piacevole. Non c’è nessun intreccio e nessun recondito significato, è proprio questo il bello. A me pare che quando i giochi cercano di prendersi troppo sul serio finiscono per diventare un bel film interattivo, magari con una bella trama ma nel quale il giocatore fa la parte dello spettatore. 
    Se ci penso bene tutti i miei giochi preferiti hanno al centro una cospirazione globale, io sono sempre l’eroe che deve salvare il mondo dai cattivoni. Qualche esempio, Mass Effect 2, Dragon Age Origins, Infamous, Fallout 3. grande senso di libertà, ma trama banale. Io adoro questo tipo di giochi, se questo ti suscita disprezzo nei miei confronti me ne farò una ragione, ma non mi metto certo a giocare a Heavy rain per farti contento.

  14. Paolo se ti ho offeso ti chiedo sinceramente di scusa, non era affatto mia intenzione. Figuriamoci, chi sono io per dire cosa è bello ed emozionante e cosa non lo è. Pensavo che il tono del mio messaggio fosse chiaro. Se però le mie parole ti sono apparse una critica ai tuoi gusti ti chiedo nuovamente scusa. Comunque, per quel che può interessarti, mi fa abbastanza schifo anche Heavy rain 🙂 . I giochi che, a mio parere, esprimono una visione profonda dell’uomo, del mondo, della vita, attraverso personaggi “umani” e “credibili” sono altri, che poi sono quelli che cito continuamente nei miei post (e che credo siano amati dalla maggior parte dei lettori di Ars ludica): Torment, Silent hill 2, Psychonaught, Ico (un po’ i soliti che si sentono citare), ma m’è molto piaciuto anche Red Dead redemption (escludendo una prima parte che, a mio parere, è spazzatura, il resto credo sia davvero notevole) e giochi indie come: Pathways e The Museum of Broken Memories. Questi sono alcuni dei titoli che preferiscono e che, a mio parere, si fanno fautori di una concezione del videogioco come forma d’espressione. Con questo non penso che chi ha gusti diversi dai miei non capisca niente di videogiochi. Se sostenessi qualcosa di simile meriterei davvero il tuo disprezzo. Non mi sognerei mai di dire che chi gioca (ad esempio) con call of duty o medal of honor sia uno stupido, ci mancherebbe, sarei io lo stupido se lo pensassi. Sono cose ovvie, ma credo che, per non essere travisati, sia meglio ribadirle. La mia domanda su cosa ci trovi di bello in assassin’ s creed era sincera, proprio perchè vedo che è piaciuto a moltissimi. La tua risposta è stata esauriente e corrisponde ad un’aspettativa di gioco che io non condivido ma che, ovviamente, rispetto. Tutto qui.

  15. Volevo ringraziarvi ragazzi per il saluto a inizio puntata e complimenti al Monopoli come al solito per le sue doti chitarristiche e per avere eseguito la intro che avevo suggerito :)!

  16. @Brumaio
    No, tranquillo non mi sono offeso, mi sono solo messo sulla difensiva, perchè quando si parla di gusti videoludici si rischia sempre di farsi male. Bellissimi sia Torment che Silent hill 2. Red Dead redemption è in un angolo della mia mente, fra i giochi in dubbio. Ne parlano tutti bene, ma l’ambientazione western non mi entusiasma. Credo che il prossimo gioco che comprerò sarà o Portal 2 o L.A. Noire. Agli sparatutto non gioco più, ho poco tempo per giocare e i ragazzetti che mi killano a ripetizione mi irritano molto. Magari quando costerà poco proverò Crysis 2, ma anche no.
    Comunque tutti questi discorsi per dire che sono d’accordo con te, ognuno ha i suoi gusti, alcune volte coincidono con quelle degli altri, altre no.

  17. Assassin’s Creed si basa prevalentemente sul gameplay intuitivo e sul grande senso di libertà, e in questo vince a mani basse la sfida con qualsiasi diretto competitor.
    AC diverte e anche parecchio, punto.
    Sarà la componente Free-roaming, per me fondamentale in qualsiasi gioco ormai, ma ho trovato AC piacevole, giocabile e mediamente coinvolgente.
    Poi ci sarebbe la questione, completamente a parte, che sintetizzerei così: ci sono voluti dei FRANCESI per fare un gioco fico sul rinascimento italiano. Shame on us.

  18. @ Kinda Inappropriate
    “Poi ci sarebbe la questione, completamente a parte, che sintetizzerei così: ci sono voluti dei FRANCESI per fare un gioco fico sul rinascimento italiano. Shame on us.”
    In effetti la cosa è un pò triste. C’è da dire che di grossi sviluppatori in Italia c’è solo Milestone che però si occupa di giochi di guida e basta.  Beh, Gioventù ribelle aveva i numeri per poter diventare l’alternativa ad Assassin’s creed, peccato che il progetto sia stato chiuso. 😉

  19. Ho appena cambiato idea, il mio gioco preferito è Cho Aniki. Potete ammirarne il gameplay su youtube: http://www.youtube.com/watch?v=sxektgHKdLs XD

  20. Ragazzi, non ricordo il nome di un survival horror di  cui avete parlato nella puntata. Exatica o qualcosa del genere, credo fosse per Pc e dicevate sia antecedente all’uscita di Resident Evil

  21. Sbagliato il quote, vabbè… 🙁

    Ringraziavo il Monopoli e aggiungevo che mi inquieta il fatto che abbia la stessa IDENTICA voce di un mio amico 😀

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