Alice: Madness Returns

Pubblicato da EA | Sviluppato da Spicy Horse | Piattaforme: PC (versione testata), Xbox 360, PS3 | Rilasciato nel 2011

American McGee’s Alice fu un titolo eccezionale per diversi motivi: da una parte era costruito in modo tale da prendere una struttura di gioco classica, quella degli action in terza persona, piegandola alle esigenze espressive del contesto narrativo; dall’altra aveva nel titolo il nome del suo autore, una vera e propria dichiarazione d’intenti che faceva presagire un futuro roseo per il medium videoludico inteso come mezzo d’espressione e non più solo di svago tecnologico leggero. Certo, a oggi le attese di allora sono andate tradite, com’è facilmente verificabile guardando gli scaffali dei negozi reali e virtuali, e i videogiochi hanno rinunciato sia all’emancipazione, sia a ritagliarsi un ruolo diverso. Quindi, vuoi per una difficoltà oggettiva di un ambiente d’informatici di andare oltre certi preconcetti estetici, vuoi per mere esigenze di un mercato sempre più difficile da comprendere che hanno spinto i grandi publisher a investire solo in campi dal ritorno sicuro, l’idea di videogioco come arte è andata appassendo, relegata a pochi ambiti e snobbata dalla stampa specializzata, rassicurata dal suo piccolo mondo antico fatto di sterili certezze e di stupidi feticismi per adolescenti brufolosi.

Ma torniamo a Alice. McGee prese la favola di Carroll e la piegò alla sua sensibilità gothica, che non significa, badate bene, fare quello che ad esempio ha fatto EA con Dante’s Inferno, dove l’opera originale era solo una scusa per impiantare una serie di stereotipi commercialmente appetibili e privi di qualsiasi creatività. McGee diresse il gioco in modo tale da piegarlo alla sua visione, ne costruì l’immaginario in modo tale che assumesse un senso complessivo più ampio, con una serie di rimandi che si sorreggevano a vicenda e si completavano. Non voglio discutere della qualità complessiva del gioco; quello che mi interessa è sottolineare il tentativo di creare un progetto organico, decisamente fuori dagli schemi dell’epoca. Insomma, Alice era un titolo firmato, nel senso di attribuibile a un singolo autore, sia dal punto di vista concettuale, sia da quello progettuale.

Il primo a deludere fu lo stesso McGee, che con i suoi progetti successivi non riuscì a ripetere quella fortunata esperienza: forse gli sono mancate le risorse, o forse è lui stesso a non aver più creduto nei suoi mezzi, fatto sta che si è perso in titoli poco riusciti, mettendo di tanto in tanto il nome in giochi di altri sviluppatori per provare a lanciarne le vendite (caso emblematico è Scrapland, che firmò praticamente a gioco chiuso) o iniziando progetti che non è mai riuscito a finire, come American McGee’s Oz.

L’annuncio di Alice: Madness Returns arrivò come un fulmine a ciel sereno: ci fu una specie di sovrapposizione mentale tra il gioco e il brutto film di Tim Burton, Alice in Wonderland, uscito solo qualche mese prima. Ben presto il gioco di McGee, nel cui titolo non compariva più il nome del suo autore, si staccò da quell’associazione forzata (probabilmente ricercata dal reparto marketing di EA) e si tornò a ragionare di come sarebbe diventata Alice a distanza di tanti anni. Da sparatutto a gioco d’azione in terza persona simile Devil May Cry? Quattro armi potenziabili spendendo dei cristalli, una specie di mossa speciale completamente inutile, Alice che rimpicciolisce a comando per trovare piattaforme e porte nascoste, dei porci da condire per scoprire altri segreti e tante piattaforme. Il materiale pubblicitario che anticipava l’uscita del gioco non era molto convincente. Lo stavano lanciando come un Battlefield 3 qualsiasi.

Alice, ancora folle e circondata da personaggi più folli di lei, deve scoprire la verità sull’incendio che ha sterminato la sua famiglia. Più che scoprire, la deve “sbloccare”. Il Paese delle Meraviglie sta morendo, attraversato da un treno infernale che porta con sé morte e devastazione. Appare chiaro sin da subito che le sorti dell’immaginario della ragazzina e la risoluzione del caso sono legate a doppio filo: l’unico modo di salvare il Paese delle Meraviglie e tutti i suoi abitanti è scavare fino a trovare le risposte rimosse da anni.

Rispetto al primo capitolo, la narrazione è più didascalica e lineare. Mentre lì vigeva la legge delle associazioni mentale, qui gli elementi che vanno a comporre l’apparato scenografico che fa da sfondo all’azione sono sempre accompagnati da una contestualizzazione logica, fornita in primo luogo dalle introduzioni dei diversi capitoli ambientate nel mondo reale (o quasi), e poi dalla raccolta dei ricordi perduti di Alice, una semplice ricerca di oggetti nascosti che mira ad arricchire i tratti dei personaggi principali e a sbloccare qualche extra. Da una parte sembra ovvio l’intervento del publisher nel cercare di normalizzare il più possibile il gioco, in modo da renderlo appetibile ai più, ma va anche detto che sarebbe stato impossibile replicare il colpo di scena del finale del primo episodio che, nascendo da zero, poteva permettersi una maggiore apertura in termini di associazioni libere di elementi, anche contrastanti.


Detto questo va sottolineato come il level design di Alice: Madness Returns sia uno dei migliori degli ultimi anni: a parte la varietà degli scenari, con livelli splendidi come quello della Londra in pezzi o come quello dei castelli di carte galleggianti tra le nuvole, spicca l’intrico visivo ricercato in ogni situazione. Niente che possa far perdere il videogiocatore, visto che si è ampiamente guidati da indicazioni di ogni sorta, ma dei piccoli labirinti visivi con orizzonti infiniti che ricercano una poetica dell’indefinito, esteticamente parlando, e che, nonostante la povertà tecnica di alcuni elementi, creano un impatto complessivo notevole e, per certi versi, spiazzante. In certi casi si rimane incantati a osservare le scelte stilistiche, come nel caso del livello con elementi presi di peso dalla cultura cinese, tributo evidente al gruppo di sviluppatori che ormai da anni affianca McGee, o quando ci si trova a vagabondare per un’immensa casa di bambole da incubo, allegoria finale della prigione mentale costruita intorno ad Alice per farle rimuovere il passato.

Eppure c’è una cosa che mi ha inquietato dall’inizio alla fine del gioco. No, non la ripetitività e nemmeno le poche armi a disposizione. Anche sulla prima ora di gioco sottotono sorvolerei senza troppi rimpianti. Semplicemente, Alice: Madness Returns non è più una promessa: gli manca quella carica che aveva reso grande il primo episodio. È uscito quando sapeva già di avere perso, senza possibilità di appello. Rispetto ai tempi di American’s McGee Alice, pochi anni fa in realtà, il mondo dei videogiochi si è semplicemente involuto e si è rinchiuso nelle sue idiosincrasie, con poche isole felici a fare da contorno a una marea indistinta di stupidità. Che senso può avere proporre sul mercato dei Tripla A un titolo simile? I giocatori non l’hanno premiato e le vendite sono state piuttosto tiepide, ma il successo avrebbe portato all’ennesimo brand da rigiocare ogni anno. Che paradosso sarebbe stato ridurre un’opera sulla follia a un prodotto seriale? Ma, soprattutto, se ne sarebbe accorto qualcuno?

7 commenti su “Alice: Madness Returns

  1. A me sta piaciucchiando. Ci sto giocando a Nightmare, e a volte gli scontri sono abbastanza frustranti, causa meccanismo della schivata non proprio riuscitissimo a mio modesto parere.

    Non è come il primo, ma mi rendo conto che a rigiocarci a distanza, anche il primo è invecchiato abbastanza male.

  2. Attenzione!!! Il post potrebbe, in alcuni passaggi, far menzione ad aspetti che qualcuno potrebbe ritenere “spoilers”. Ritengo questa questione un’assoluta assurdità, un male che spesso danneggia l’informazione videoludica ma, per togliermi ogni scrupolo ho voluto avvertirvi. Dunque, in caso abbiate un’acuta sensibilità anti-spoiler, non continuate a leggere.

    Sottoscriverei quest’articolo parola per parola, davvero eccellente. È vero che c’hai abituati bene ma credo che questo sia uno dei tuoi pezzi più lucidi e sottili nel descrivere un aspetto emblematico dell’evoluzione (o, per meglio dire, involuzione) della recente produzione videoludica. Purtroppo, anche per me “Alice: Madness Returns” è stata una cocente delusione. Il primo episodio, nonostante l’aspetto narrativo avesse (almeno apparentemente) un peso inferiore, riusciva a scavare con maggiore profondità nell’inquietudine del senso di colpa, costruendo un personaggio principale di notevole spessore (altro che Tim Burton, ma, ormai, è sin troppo facile sparare su di lui). Proprio i personaggi sono, a mio parere, il principale problema di questo seguito. Lo Stregatto, per citarne uno, ha perso ogni tratto di follia, è diventato un mero strumento d’informazione sulle meccaniche del gameplay (fin quasi ad apparire completamente avulso dalla diegesi): una specie di tutor in parole povere. Anche Alice appare un personaggio alquanto scialbo, poco definito, caratterizzata da un eccesso di buon senso e lucidità (almeno stando alle osservazioni che, ogni tanto, le sentiamo esternare durante il gioco) per essere un’anima lacerata dal dubbio e dall’instabilità mentale. Poi, mi ha proprio indispettito l’inserimento, da parte degli sviluppatori, di un’alibi per Alice; come se sentissero l’assoluta necessità di affermare ad ogni costo (e, ciò che è peggio, in maniera smaccatamente didascalica) la sua innocenza. Questo, a mio parere, non può che banalizzare le interessanti intuizioni sul tema della colpa che (con ben altra maturità) American McGee aveva formulato nel precedente episodio. Questo Alice: madness return, finisce poi per invischiarsi in argomenti “delicati” come quello della pedofilia, ma lo fa in maniera compiaciuta e sensazionalistica; non c’è mai un momento in cui lo sguardo degli sviluppatori mostri autentica e sentita compassione nell’osservare il dolore delle giovani vittime. Insomma, per quel che mi riguarda, di questo gioco salverei solo lo splendido level design, capace di creare sorci che attingono alle suggestioni del surrealismo pop. È davvero triste, come sottolinei anche tu, che pure coloro che in passato hanno tentato di mostrarsi “Autori”, assumendo la responsabilità non solo d’apporre una firma, ma, soprattutto, di esprimere una propria personale visione, oggi si limitino a concedere solo qualche stimolo puramente visivo ed assolutamente di superficie.

  3. Come al solito non capisco che bisogno ci sia di costruire questi castelli in aria…come se McGee, o chiunque altro, non avesse più il diritto, la capacità o “l’innocenza” per far qualcosa che possa essere anche solo lontamente “diverso”, solo perchè il mercato è stato divorato dagli assassin creed, dai gears of war e simili. Che c’entra lui ?

    Questo Madness Returns ha qualcosa in più e qualcosa in meno rispetto al primo, e gli stessi problemi di fondo. Quello più grande credo sia sopratutto uno, ed è probabilmente quello che ha trascinato tutti noi al cinema a vedere un film pessimo: usare il paese delle meraviglie come sponsor di se stesso, e poi non rendergli giustizia ma neanche per metà.

    Ok, il level design di Madness Returns è più bello di quello del primo. Ma che me ne faccio se tutto quello che devo fare è saltare in giro per le stesse solite piattaforme in salse diverse? Se non posso toccare una foglia, una porta, a malapena una leva, se CACCHIO NON POSSO PERDERMI! Siano nel paese delle meraviglie, non in Raymen!

    Almeno nel primo gioco si poteva andare dove si voleva all’interno di un livello, ma adesso? Mi miniaturizzo, e mi indicano la strada. Non mi miniaturizzo, e mi ricordano che potrei miniaturizzarmi. Vedo la leva, e mi dicono che possono tirarla. Vado qui, e c’è uno script, vado di la, e ce n’è un altro…che palle!
    Per ogni un briciolo di atmosfera in più rispetto al primo Alice, in Madness Returns ce n’è un barile in meno. Ma, pazienza. I messaggi ovunque e gli aiuti invadenti sono la conseguenza della politica attuale.

    Per la storia e i personaggi vale lo stesso discorso. Sono icone di loro stessi, e poco altro. Almeno nel primo episodio non c’èra nessuna pretesa di profondità: si andava nel paese delle meraviglie per picchiare i personaggi e per vedere com’erano in stile dark. Punto. Non c’era alcuno spessore in niente e la cosa funzionava, perchè tutta la curiosità era unicamente visiva e la domanda principale era “fammi vedere com’è il cappellaio matto”. In questo seguito si è cercato di fare le cose in grande, ma non mi pare che si sia raggiunto l’obbiettivo. I personaggi non hanno niente di inquietante, di buffonesco o di inaspettato. Non fanno paura, ne fanno ridere, ne sembrano fiabeschi. Alice è un accozzaglia di disturbi mentali, perchè qualcuno deve aver pensato che fosse la più ovvia versione dark della bambina del racconto originale…bambina che però poi si scrolla la follia di dosso, prende un coltello, fa a pezzi mezzo mondo, e così “guarisce”…no, non ci siamo. Proprio no.

    Non si fa così il gioco di Alice nel Paese della Meraviglie. Epperò ce lo giochiamo lo stesso, e il film pacco ce lo vediamo lo stesso, perchè non c’è nient’altro in giro Chissà se qualcun altro ci riproverà. Almeno il gameplay è difficilotto, ma solo a difficoltà nightmare (il tutto si risolve in rendere Alice ultra-fragile, tra l’altro) e solo perchè è scriptatissimo e ci costringe a usare un pò tutte le cose offerte (e tra queste, purtroppo, il pessimo sistema di puntamento). Questo potrebbe essere tuttavia già molto, in un periodo in cui nella media dei giochi con combattimenti ci sono mille armi inutili e una sequenza buona per tutto il gioco.

  4. io l’ho giocato e mi è piaciuto.
    l’unico grosso difetto è il motore grafico..ok l’unreal engine ma non puoi usare oggi la prima versione che era stata fatta..

  5. non so se ha senso riprendere un vecchio post ma il gioco (me ne avete messo curiosità voi) l’ho finito e mi ha preso abbastanza. va bene che il gameplay non ingrana mai, va bene che è tutto una citazione (psychonauts spudoratamente, c’è pure un cameo di raz e tim schafer nei ringraziamenti speciali), va bene che i combattimenti fanno piangere sangue. ma è soprattutto un gioco di atmosfere, parecchio suggestivo e pure inquietante, con scenari fantastici.

    ah, e mi ha sorpreso pure la sceneggiatura: se mettiamo da parte le seghe pseudo-intellettualoidi sulla profondità psicologica dei personaggi c’è un bel gioco tra humor e tematiche serie, con battute che mi hanno fatto sorridere più volte. niente esistenzialismi da bar, però ne viene fuori un bel ritratto allucinatorio della cultura positivista di fine ottocento, tra perbenismo e cinismo, molto più intelligente della media videoludica.
    mica male.

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