Journey

Sviluppato da Thatgamecompany | Pubblicato da Sony Computer Entertainment | Piattaforma PS3 | Uscito nel marzo 2012

Non è pretenziosamente artistico come Superbrothers: Sword & Sorcery, non è ludicamente immaturo come i titoli di Tale of Tales, nessuno si è sciroppato pipponi esistenziali pre o post lancio per Journey e forse, proprio per questo, riesce molto più efficace di quella accozzaglia male assortita di giochi artistici che prima te lo dicono così poi ci credi.

Journey non prova ad essere arte, non annichilisce la razionalità con barocche verbosità testuali a malapena comprensibili o con sbilenche inquadrature postmoderne. Journey è un mondo di fantasia con delle regole di interazione ben determinate e chiare (si, ce l’ho con te The Path) che riesce a comunicare con il giocatore senza ambiguità e inutili abominazioni ludiche (e qui cade Sword & Sorcery).

Thatgamecompany è attentissima a non rendere mai il videogiocatore uno spettatore passivo, un difetto assai comune tra i giochi col piglio artistico. Il gioco piega al volere del giocatore tutto quello che c’è: cutscene, musica, ambienti, tutto segue l’avatar e non lo estromette mai dalla sua centralità, instaurando da subito un rapporto molto intenso. In quello che fa Thatgamecompany non c’è mai l’individualismo figlio di Facebook che bazzica presso certe sterili correnti dello sviluppo Indie: c’è mestiere, umiltà e professionismo. C’è una profonda presa di coscienza che arte, tecnica, multimedialità e creatività sono un tutt’uno, hanno tutte il loro peso e solo un’ottima coesione di queste componenti può evitarti di sconfinare nel genere dei DVD da sala d’aspetto. È un lavoro di squadra, non il parto di un ambiziosi praticoni senza mestiere.

Journey esce così bene dal suo essere perfetto, una giusta commistione di interazione, musica ed estetismo, da non avere bisogno di una chiave di lettura. C’è chi ci vede la parabola della vita umana, chi quella della ricerca del significato della religione, chi una sarcastica, quanto diabolica, parabola del maschile che affronta mille prove per giungere al femminile. Un ulteriore fregio di maturità, come in Flow e Flower, è quello di non fornire un’interpretazione prefabbricata ad uso e consumo degli utenti che si illudono di essere i prescelti dal verbo (e quindi migliori). Non ce n’è bisogno perché un videogioco, in quanto interattivo e dinamico, non sempre ha bisogno di avere una rassicurante sinossi in cui incastonare a posteriori le esperienze che si faranno. Per quello c’è il cinema di David Lynch, qui ci si crea la propria esperienza così come viene.

Non si muore, non c’è punteggio (o forse sì: dipende dal significato che darete alla sciarpa), non ci sono livelli eppure il suo mondo semplice ma al tempo stesso complesso ti fa emozionare, divertire ed esplorare con una intensità piuttosto rara per gli standard odierni. Ci sono sequenze in cui la ricerca del dettaglio è palese, eppure non è mai offensiva verso l’intelligenza dell’utente, che non viene mai messo da parte per glorificare l’idea o l’ideatore.

Journey è anche unottima esperienza musicale, con temi che si intrecciano in base alle vostre azioni, che reagiscono al contesto, che donano consistenza al deserto visionario e alle rovine titaniche che il nostro avatar si troverà a percorrere.

Thatgamecompany ha anche dato una sua personalissima visione del multiplayer: nel cammino si incontreranno altri viandanti, apparentemente anonimi (in realtà ognuno ha un ideogramma assolutamente distintivo) con cui condividere il viaggio ed i pericoli. A fine viaggio (e solo allora) ad ogni ideogramma sarà associato anche il nome dell’utente PSN e potrete contattarli per condividere impressioni sulla vostra avventura.

Il gioco è molto breve (circa tre ore) ma si presta ad essere rigiocato più volte, perché ogni capitolo può essere affrontato in più modi. Il gioco mette a disposizione delle sfide (trovare oggetti, raggiungere un obiettivo apparentemente irraggiungibile) che vi faranno tornare più volte sui vostri passi, anche perché ogni capitolo è accessibile (e anche qui il come la dice lunga tra dilettanti e professionisti del genere) individualmente dopo aver completato il cammino almeno una volta, minimizzando il tempo sprecato tra i vari replay ma perdendo molto dell’esperienza progressiva che dà il gioco nella sua interezza.

8 commenti su “Journey

  1. Matteo, un giorno mi spiegherai perché The Path sarebbe stato accompagnato da pipponi esistenzialisti sull’arte e Journey no, visto che thatgamecompany ha ripetuto più volte e in più occasioni che il loro scopo era quello e che cercavano un approccio più emozionale che ludico. Preciso che non ho giocato Journey e che sono tentato di acquistare una PS3 solo per giocarci, così non leggete la frase precedente come un giudizio sull’opera in sé.

    Ad esempio: http://blog.us.playstation.com/2011/01/11/jenova-chen-explains-journey-social-relevance-and-artistic-inspirations/

  2. Simone, credo che questo excerpt basti:

    That’s the fun part of video games. It’s not just art. It’s not like a movie, where if you have a script, everything is set. But video games, you have your team with you, and then you have the technology you are developing. What if the technology suddenly does not support what you originally envisioned in the design? Then you have to change your design.

    Il riferimento a The Path è anche dovuto ad una pessima gestione dei controlli, che uccide il gioco. Questo è grave, specie se devi “vendere” un’esperienza, invece di un gioco da apprendere.

  3. Matteo Anelli wrote:

    non sempre ha bisogno di avere una rassicurante sinossi in cui incastonare a posteriori le esperienze che si faranno. Per quello c’è il cinema di David Lynch

    di cui immagnp non avrai visto niente vista l’affermazione. per il resto le frecciatine ci stavano tutte, il mondo degli “art games ha veramente del penoso

    comunque bella idea quella di sprecare su console only un tipo di gioco che ha senso solo su pc (come tipo di utenza, come gameplay non so)

  4. P6 wrote:

    Matteo Anelli wrote:
    non sempre ha bisogno di avere una rassicurante sinossi in cui incastonare a posteriori le esperienze che si faranno. Per quello c’è il cinema di David Lynch

    di cui immagnp non avrai visto niente vista l’affermazione. per il resto le frecciatine ci stavano tutte, il mondo degli “art games ha veramente del penoso
    comunque bella idea quella di sprecare su console only un tipo di gioco che ha senso solo su pc (come tipo di utenza, come gameplay non so)

    In effetti non vedo molto le necessità di tutti questi sberleffi nei confronti degli “altri”. Mi ricorda quell’atteggiamento “sportivo” tipicamente italiano, per il quale si elegge periodicamente un campione (salvo sconfessarlo alla prima papera) e tutti gli altri diventano in automatico dei secondi, degli imitatori, dei falsi o degli sconfitti.

    Le capacità artistiche non dovrebbero essere una sorta di blasone da strapparsi a vicenda o a cui arrivare prima, ma vabbè…impressione mia.

    D’accordissimo sul punto portabilità, anche se ormai è un discorso più ampio di quanto potrebbe sembrare, anche se per niente più complesso. Semplicemente, mi sa che l’esclusiva di certi titoli ad una piattaforma rispetto che a un altra…ha fatto solo vendere più piattaforme.

  5. ” In quello che fa Thatgamecompany non c’è mai l’individualismo figlio di Facebook che bazzica presso certe sterili correnti dello sviluppo Indie”

    Esempi? Ultimamente noto una sfortunata tendenza, nella scena, a dare maggiore risalto ai “personaggi” piuttosto che alla qualità dei giochi, motivo per cui uno come Phil Fish riceve attenzione pur non avendo pubblicato nessun gioco (e ci sta mettendo eoni per l’unico che ha in mano). Ti riferisci a questo?

    Quegli screen sono fra i più belli che abbia visto ultimamente, segno di quanto conta la direzione artistica piuttosto che certa ricerca del “realismo”.

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