Tratte da:
silviothemilvio
Artista (gli piacerà essere chiamato così?) creativo che nelle sue immagini inserisce molte suggestioni tratte dai videogiochi e, più in generale, dal mondo dell’informatica. Andate a fare un giro sulla sua raccolta di fotografie, ne vale la pena.
Archivio Mensile: Aprile 2007
S.T.A.L.K.E.R.: Shadow of Chernobyl
Ogni mondo virtuale ha una sua geografia dentro cui il giocatore individua relazioni di causa effetto a seconda di come viene impostato il racconto ludico. Nei videogiochi la narrazione non è un elemento di gameplay vero e proprio ma è sicuramente un elemento strutturante che permette di definire alcuni generi rispetto ad altri e che, spesso, differenzia opere altrimenti indistinguibili. Non si tratta soltanto di un movente che spinge ad andare avanti, ma anche di un modo per definire una visione d’insieme legando tra loro locazioni altrimenti amene. La narrazione gestisce i passaggi, li fluidifica nel discorso ludico rendendoli significanti e definendo lo spazio-tempo complessivo che altrimenti risulterebbe anonimo. Per capire meglio la questione basta esaminare Painkiller che lavora in modo esattamente opposto a quanto descritto: c’è una storia di fondo che lega i diversi livelli, ma i passaggi tra una mappa e un’altra non vengono mai gestiti in modo narrativo e quindi sembra sempre di attraversare degli scenari di cartone, delle mere scenografie messe su per rendere coreografici gli scontri. Per quanto belli possano essere, i livelli di Painkiller risultano irrimediabilmente slegati, frutto di un montaggio brutale che li rende contingenti senza strutturarli in un “mondo”, rendendoli di fatto più simili ad arene dove quello che conta è soltanto sopravvivere. Ma riprendiamo il nostro discorso.
Molta della bellezza narrativa di un gioco passa davanti al giocatore che quasi non si rende conto di quanto sia importante nell’economia del suo divertimento quello che invece percepisce soltanto come un aspetto accessorio del videogiocare. Eppure quanto del fascino di, per fare un altro esempio, Half-Life 2 dipende dall’ambientazione? Ovvero da come è stata pensata la geografia dei vari livelli? Non stiamo parlando del level design in senso stretto, ma più propriamente di ciò che c’è intorno e che raramente viene considerato. Il level design è l’atto di scavare un tunnel in una montagna per permettere di arrivare dall’altra parte. In base alle scelte fatte dal designer, il percorso sarà più o meno tortuoso, ci saranno più o meno bivi, trappole, enigmi da risolvere, nemici da eliminare e via di questo passo. Purtroppo non possiamo addentrarci troppo nella materia per non finire lontani dal bersaglio. Quello che ci interessa in questo caso non è tanto il come vengono pensati i livelli a livello di rapporto diretto con l’interazione del giocatore, quanto di come vengono “rivestiti” e di come S.T.A.L.K.E.R.: Shadow of Chernobyl sia la massima espressione di una ricerca che sta finalmente portando alcuni autori a produrre coscientemente del senso attraverso la descrizione ambientale, tutto questo grazie al genere dei giochi cosiddetti free roaming, nati ufficialmente con GTA, che hanno iniziato ad imporre alcune problematiche di tipo socio-architettonico ai designer. Come rendere “viva” una città virtuale? Ovvero come descriverla in modo tale da renderla plausibile per il giocatore?
La città riflette le ansie, le aspettative, le risposte alle difficoltà ambientali dei suoi abitanti, che finiscono per essere rappresentate in modo funzionale e simbolico, strutturando il potere e definendo le distanze tra i diversi cittadini. Quando l’Impero Romano crolla, le sue città si rimpiccioliscono diventando implicitamente il simbolo del declino. Quando l’Inghilterra diventa potenza commerciale e coloniale, Londra inizia a mostrare al suo interno il nuovo potere, ridefinendosi nelle sue strutture e ridefinendo contemporaneamente il modo di vivere dei suoi abitanti. La vita delle città è una serie di segni prodotti dal variare della società stessa che se ne serve per rappresentarsi, una visione che traduce l’essere oggi e le aspettative degli abitanti. Come rendere la complessità di una città all’interno di un videogioco? Ovvero, ampliando la domanda, come riprodurre un ambiente al presente, la sua geografia, con tutte le trasformazioni che lo hanno riguardato e lo hanno fatto diventare quello che è?
La Chernobyl di S.T.A.L.K.E.R. è la Russia di oggi: il cadavere radioattivo di un impero ormai razziato da sciacalli di ogni provenienza (locali e stranieri). In questo senso il titolo si propone come una vera e propria allegoria politica, mostrando una consapevolezza rara nei videogiochi. Il realismo degli scenari non è lezioso e immotivato, ma è la ricerca di un visivo/presente che illustri la realtà, metaforizzandola e scavalcandola in modo da metterla in gioco svelandola. Una città moderna a cui è scoppiato il cuore deflagrando la vita come si era configurata, ma anche il colosso sovietico stesso, mostrando al mondo la fragile immagine di un modello ormai allo stremo. Chernobyl è un’istantanea spettrale di ciò che fu: palazzi, fattorie, fabbriche, istituti di ricerca e la gloriosa centrale nucleare non sono altro che gusci vuoti di un territorio tornato ad uno stato preurbano popolato soltanto da rovine e mostri. La GSC è riuscita a narrare la storia di questo sfortunato territorio rappresentandolo in modo coerente e narrandolo continuamente in ogni dettaglio. Una sovra-storia senza la quale la narrazione esplicita, che inizia e termina l’esperienza ludica, non avrebbe alcun mordente e sarebbe anzi la solita storia di mutanti, esperimenti andati male e ambizioni di varia, perversa, natura. Ambientare uno sparatutto in un luogo così potente da punto di vista simbolico, sfruttandone la tragedia, è sembrata a molti una scelta ardita, soprattutto perché il genere non è quasi mai andato oltre le tematiche classiche con cui vengono infarciti, genericamente, i videogiochi.
S.T.A.L.K.E.R. porta all’estremo il cinismo degli FPS, brutalizzando la realtà e rendendola campo di battaglia fra forze politiche che si scontrano per il potere, incuranti di quello che hanno prodotto e di quello che potrebbero proporre. Ma ancora di più è il giocatore stesso ad essere proiettato in questo mondo sventrato diventandone attore consapevole: per tutto il gioco è chiamato a comportarsi più o meno come quelli contro cui spara, senza distinzioni precise fra buoni e cattivi e senza nemmeno doversi curare di dare una giustificazione al suo agire. Paradossalmente, in un gioco narrativo fino al midollo (pur avendo relativamente poche sequenze narranti intese in senso classico), l’unico elemento “sorvolabile” è proprio la storia principale che, anzi, non è determinante per poter arrivare alla fine del gioco. È il giocatore che deve impegnarsi per “scavarla” tra i detriti, per poter arrivare ad esprimere un desiderio finale che non sia scelto pescando nell’egoismo umano (come avviene, invece, altrimenti), ma che tenga conto della tragicità di ciò che lo circonda cercando di combatterla. È una presa di coscienza che avviene attraverso l’esplorazione e che non viene servita su un piatto d’argento come conclusione ovvia dell’aver giocato, ma diventa un premio nel momento in cui ci si è impegnati a comprendere, ad investigare, cioè, sul proprio passato. Non per nulla il finale più comune è quello per cui si chiede a Chernobyl di diventare ricchi, creando un crollo strutturale che ci sommerge, facendoci diventare detrito tra le macerie di un simbolo di potere di un impero decaduto. Un finale che si ottiene giocando in modo classico, ovvero accumulando grandi quantità di soldi e avanzando come un carro armato verso la fine, senza considerare null’altro che l’accumulo di risorse per essere più “potente” del nemico da abbattere. La fine degli sciacalli, insomma, che sfruttano le tragedie per arricchirsi. Il rapporto tra Chernobyl e il protagonista non è quindi distaccato e ininfluente. Le mappe non sono state progettate soltanto per affascinare il giocatore / passante mentre massacra il nemico di turno. Possiamo invece parlare di un rapporto d’identità tra il mondo e il suo unico punto di vista possibile (quello del giocatore, ovviamente) in cui l’uscita dall’anonimato e la riconquista della coscienza passa attraverso uno sforzo di ricerca e viene definito dalle regole del gioco, diventando quindi un contenuto attivo del gameplay e non soltanto un elemento passivo da guardare in modo distratto pensando soltanto alla sparatoria successiva.
That Cloud Game
Avete mai immaginato di librarvi in aria e volare liberi?
Download | Booklet | Protocollo di Kyoto
Macrotransazioni a 360 gradi
Quando parla Mark Rein o Tim Sweeney lo si sta a sentire. Quando CliffyB vaneggia di falli lunghi un metro e mezzo attaccati alla presunta originalità creativa di Gears of War un po’ meno. Mandato CliffyB a presidiare Hollywood, Rein e socio, magari sicuri dell’imminente (si spera) rilascio di Unreal Tournament 3 (di cui Gears può essere considerato il tech demo) rischiano di fare la figura degli ingrati quando dichiarano che, sostanzialmente, Xbox Live è una trappola. Denunciano l’impossibilità di pianificare rilasci gratuiti e di dover ubbidire allo scheduling aziendale Microsoft che pondera, quantifica e commercializza qualsiasi contenuto aggiuntivo, denunciano l’inadeguatezza del servizio (specie se visto in ottica PC, dove, oggettivamente, l’utenza è abituata ad altro e fatto meglio) e ne mettono in discussione la maturità.
Epic sceglie benissimo i tempi per fare outing: pochi giorni dopo il flop tecnico di Castlevania: Symphony of The Night, ritardato di un mese per rubare la scena al lancio europeo di PS3 e che arriva nei nostri hard disk come se lo sviluppo fosse finito dieci minuti prima, senza mai aver fatto debugging. Epic parla in concomitanza dell’annuncio di due mappe-remake per Halo 2, concedute ad “appena” 10 dollari, Epic parla con lo scandalo di Guitar Hero 2 per 360 che inizia a montare (chitarre difettose e contenuti aggiuntivi esosi e maliziosamente confezionati per obbligare gli acquirenti a spendere di più del dovuto), e riceve, come bonus aggiuntivo, il simbolico formattone di massa in seguito all’installazione dell’espansione commerciale di Marvel Ultimate Alliance, espansione che economicamente fa sembrare Kinghts of The Nine l’affare del secolo.
Sembra quasi tutto organizzato: delle personalità con una grande visibilità parlano male di qualcosa, i fatti danno loro ragione, la massa si scatena. Sembra quasi che l’era d’oro del digital delivery per 360 sia finita. Dopo Valve, un altro (falso?) mito viene ridimensionato. Joystiq, Kotaku, Penny Arcade, tutti si rivoltano contro quel feticcio che era XBLA, dopo mesi di supporto unilaterlamente positivo e sospettosamente acritico. I downloadable content costano troppo e per i giochi multiplayer minano la coesione delle community.
Chi dice ciò sembra aver già dimenticato quanto detto da Epic ed il suo vero significato: Rein ci ha detto che una piattaforma chiusa, monolitica e sotto il controllo diretto di chi licenza, schedula e approva la produzione di software è, potenzialmente, una trappola mortale. Non c’è community o software, c’è solo il profitto di chi gestisce unilateralmente tutti gli aspetti online dei giochi.
In effetti, Microsoft non ha bisogno che un gioco duri nel tempo. Ha bisogno di spremere, frammentare e scoraggiare le community sino a che gli utenti non posino l’attenzione su altri giochi. Ad un licensor che fa da publisher ad altri publisher che finanziano e distribuiscono sviluppatori che spesso fanno uso di outsourcing (chiaro qual è il vero problema dei costi dei giochi?) non interessa certo pubblicare titoli troppo longevi: egli vuole piazzarne di nuovi, perché anche se con i downloadable content ci sono ulteriori prospettive di guadagno, con i giochi a 60 euro la copia si incassa molto di più. Paradossalmente la Microsoft non può permettersi un successo delle proporzioni di Counter-Strike: vorrebbe dire avere molti utenti fedeli ad un acquisto fatto anni fa, acquisto che sottrae ore di gioco a qualche altro nuovo titolo su cui ci sono nuove royalty in ballo. Lo streaming di contenuti custom è altrettanto inconcepibile, non ci sarebbe modo di titillare la community giunta allo stremo della noia con nuovi, tardivi contenuti a pagamento per rendere un pochino più dolce la lenta quanto sicura discesa nell’oblio.
E’ per questo che Microsoft non vuole espansioni gratuite per Gears. Stratificare la community, diminuendone coesione, interazione e numero, questa è la soluzione, così da spingerla verso l’immancabile sequel o un nuovo titolo-clone. Per Guitar Hero pare stia funzionando. Dopo la guerra all’usato, ecco la guerra alla longevità estrema che l’online gaming garantisce naturalmente: si deve limitare quello che gli utenti possano fare con il fine ultimo di impedire che la community stessa diventi autosufficiente e non abbia bisogno di “servizi aggiuntivi” a pagamento. Quindi ecco la fine dei server controllati direttamente, dei contenuti editabili, del modding, della creatività e della genialità degli utenti che ha ridato spesso nuova linfa a vecchi giochi. Meglio comperare il nuovo episodio o l’espansion pack, nell’ottica di chi gestisce queste “innovative” piattaforme di gioco Next Gen.
Anche se non è direttamente attinente ad XBL, pensate sia un caso che alla vigilia di Metal Gear Solid 4 i server di MGS3 siano stati chiusi? O che presto l’emulatore a bordo di 360, quello che permette di giocare ad Halo 2, smetterà di essere supportato?
Major Nelson giustifica i costi altissimi per le vecchie canzoni di Guitar Hero 2 tirando in ballo i diritti musicali, arriva quasi ad alludere che è la Microsoft che ci rimette. Io faccio fatica a credergli, vedo solo una catena di intermediari e costi inutili, proiettati in un modello di distribuzione che avrebbe dovuto annientarli. Quello che Nelson non dice è che MS su ogni transazione percepisce dal 30 al 70% di royalty, che, nella maggioranza dei casi, raramente sono inferiori al 50%. Pochi centesimi a contenuto? No. Per far arrivare qualcosa nelle tasche di tutti, servono almeno una decina di euro, specie con così pochi utenti effettivi. Servono macrotransazioni. E il cinismo di chi sa che su 360 il futuro sarà Rock Band, non Guitar Hero, quindi tanto vale prendere quello che c’è da prendere subito e lasciar morire in HD chi non verrà catturato dalla nuova serie.
In tutto questo è difficile pensare ai videogiocatori come a qualcosa di diverso che a dei tossicodipendenti agli occhi dei publisher: è sempre su di noi che le loro politiche inefficienti, quasi di sussistenza, gravano. Solo i giocatori possono decidere se è opportuno continuare a pagare per i gabelli che Microsoft chiede per fare ciò che su PC (ma anche su Mobile, nei paesi civilizzati) si fa da una vita, senza limitazioni, senza costi aggiuntivi e in maniera più diretta, dinamica che valorizza quel costosissimo acquisto che è un videogioco al giorno d’oggi.
Epic questo lo sa, è per questa ragione che condanna Games For Windows Live. Stiamo parlando di Epic Games, una delle uniche aziende, dopo Bioware, che ha fatto del supporto gratuito a lungo termine dei propri giochi e delle proprie tecnologie un modello di successo. Oggi non avremmo avuto Gears Of War se anni fa la Microsoft avesse disposto il boicottaggio commerciale di Unreal Tournament in concomitanza dell’uscita del mediocre UT2003 (non avremmo avuto nemmeno l’ottimo UT2004!).
Rein e Sweeney sanno che il dialogo che Epic ha con i suoi fan, quelli che controllano e tengono ancora attivi i server dedicati, che affollano le ladder competitive di mezzo mondo, è ciò che da valore aggiunto ai suoi giochi. Se si espropriano questi diritti alla comunità videoludica, si mette al rischio non solo il futuro di un marchio, ma il senso stesso e il valore ultimo del gaming “sociale” su console, che non può essere ridotto ad un semplice modello di consumo a senso unico ma necessita di un canale di espressione bidirezionale per sopravvivere.
Ringrazio il buon Emack che in mia assenza ha aperto un topic sul forum per continuare la discussione sull’argomento.
La mancanza
Il mio rapporto giovanile con il videogioco fu all’insegna della mancanza. Mentre i miei amici si trastullavano con il Nintendo (il primo, sarebbe a dire il NES) o il Sega Master System, io spremevo tutto il possibile da un Commodore Vic=20; ma spremi spremi, non è che ne potesse uscire un Super Mario Bros, un Wonder Boy, un Power Strike.
Nemmeno il passaggio al PC, scelto a discapito delle povere Amiga che già facevano capolino nei cataloghi di vendita per corrispondenza (sui quali comunque sbavavo copiosamente, s’intende snobbando la sezione biancheria intima femminile), risolse il problema: scoprii presto che certe cose, semplicemente, sul pc nessuno si era mai preso la briga di farle (bene).
Così il povero giovane pc-ista dipendente da Street Fighter 2 in sala giochi si ritrovò ad annaspare tra imbarazzanti porting dello stesso, picchiaduro alternativi che usavano un solo tasto oltre a quelli direzionali (Ultimate Body Blows), picchiaduro shareware quasi pregevoli (One Must Fall, non il 2097) ma un pochino limitatini (due lottatori identici, uno stage, un round). Lo stesso che si divertiva, sempre in sala giochi (e soprattutto in doppio), alle prese con i soccer più disparati, a casa faceva un grosso sforzo di fantasia per vedere in (credo si chiamasse) “International Soccer” qualcosa di decente; e non lo salvò nemmeno la Signora Sensible Software, perché il loro Soccer era sì divertente, ma non era la stessa cosa.
Mi chiedo ancora oggi da dove nascesse quel desiderio di giocare, non a un gioco bello, ma a un gioco specifico, bello o raccapricciante che fosse; desiderio poi soddisfatto a distanza di diversi anni, grazie all’emulazione, quando ormai aveva mutato forma assumendo quella di una vaga curiosità, e quando ormai alle lacune al parco giochi del PC erano bene o male state messe delle pezze (Super Street Fighter 2 Turbo, qualche Mortal Kombat, Fifa e Actua Soccer, Rayman, successori vari).
Oggi si piange, ci si fascia tanto la testa per la presunta ventura morte del pc come piattaforma di gioco, ma ci fu un tempo in cui la situazione era ancor meno rosea; e se è vero, non lo so, ma se è vero che risorse creative stanno venendo dirottate dal PC verso altre piattaforme, non posso fare a meno di constatare come il mercato dell’intrattenimento sia più vario (e fluido) che mai, e come questa conseguenza sia il minimo che ci si deve aspettare. Non ultimo, va considerato che il PC come lo conosciamo oggi tramonterà, o per meglio dire muterà radicalmente, anche per ciò che esula dall’intrattenimento: sempre maggiori porzioni di sistema operativo e software saranno delegate ad una comunicazione client-server, la quale se riuscirà, appoggiandosi al web, anche ad essere multipiattaforma, potrà mettere sullo stesso piano tutti gli scatolotti da gioco che ci troveremo a comprare.
Social News – Anno 4, Numero 3 – Marzo 2007-04-12
Cliccate qui per scaricare il numero della rivista Social News di cui si parla in questo articolo
Una rivista italiana che nulla centra con i videogiochi dedica un intero numero ai videogiochi. Il fine? Probabilmente esplorare il rapporto tra tecnologia e adolescenza e cercare di capire perché i bambini e gli adolescenti passano tanto tempo con questi impalpabili “giocattoli virtuali”. La rivista parte con un articolo di Marina d’Amato piuttosto interessante soprattutto per il fatto che fa un quadro globale sulla diffusione dei videogiochi e su come vengano fruiti dalle diverse “classi sociali”. L’articolo successivo è scritto nientepopodimenoche da Giovanna Melandri che, con parole televisive, politiche e piuttosto generiche, anche se equilibrate, fa un discorso soppesato e piuttosto scialbo in cui sciorina buonismo in quantità, dimostrando però che si può parlare di un argomento senza demonizzarlo. Insomma, un perfetto discorso centrista che tenta di tenere i piedi ovunque senza scontentare nessuno e senza dire pressoché nulla che vada oltre l’ovvio… perfetto per un ministro… sorvolabile ma non disprezzabile.
Quote dall’articolo:
“La convinzione che mi anima, dunque, è che sia quanto mai opportuno illuminare i valori positivi ed educativi delle nuove (i videogiochi vanno per i 40 e ancora sono “nuovi”? NDKarat) tecnologie e al tempo stesso condividere una piena assunzione di responsabilità nei confronti della tutela dei minori.”
L’articolo successivo è di Franco Frattini, quello che è stato preso in giro da tutta l’Europa per il caso Rule of Rose, e che ribadisce di voler affrontare l’argomento “videogiochi” in modo sempre più ridicolo. Parla della necessità di una regolamentazione del settore ma porta esempi campati in aria parlando ancora di Rule of Rose nel modo peggiore possibile e dimostrando di non saperne ancora nulla del gioco in questione, che viene però sfruttato come pretesto per attaccare le “lobby” internazionali dei produttori di videogiochi tentando di passare da eroe. La quantità di imprecisioni e di assurdità contenute nell’articolo meriterebbero l’oblio, ma come non sottolineare l’attacco al PEGI per la mancanza di sanzioni per chi vende giochi vietati ai minori? Come se il PEGI fosse legge dello stato…
Comunque, eccovi alcuni quote che danno l’idea del livello dell’articolo:
“Alcuni mesi fa, venendo a conoscenza dell’esistenza di un videogioco in cui a vincere sono giovanissimi coetanei capaci di sadismo e violenze su di una loro compagna di scuola, ho ritenuto di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica europea su questo fenomeno che ora ci preoccupa fortemente” (ovviamente si riferisce a Rule of Rose e probabilmente il “ci preoccupa” è riferito a lui e a Borghezio visto che in Europa hanno velocemente cassato la sua prima proposta invitandolo ad informarsi prima di sparare a zero… evidentemente il consiglio non è stato colto visto che a Marzo 2007 ancora parla del gioco nei termini soprascritti. NDKarat)
“in nome di quale etica possiamo permettere (proprio in base ai criteri ricordati) ad un sedicenne di interpretare-giocando, cioè “immedesimandosi nella parte “, il ruolo del violentatore della compagna di scuola?” (qui insiste… probabilmente questo gioco in cui ci si immedesima nella parte di un violentatore lo hanno sviluppato apposta per lui. NDKarat).
“Giovani e giovanissimi vanno aiutati – anche dalle istituzioni – a tenere lontana ogni tentazione a farsi “campioni del male”. Famiglie, strutture sociali, istituzioni pubbliche, e gli stessi produttori debbono darsi da fare perchè sia premiato il migliore e sia scoraggiato e sconfitto il violento.”
Giriamo pagina per trovare l’articolo di Giorgio Calò che, dimostrandosi pronto sulla notizia, se la prende nientepopodimeno che con Yu-Gi-Oh accusandolo di incitare al satanismo (gosh Batman, passami lo spray repellente per satanisti!) Basterebbe questo per strappare la pagina e gettarla in un fiume ma come non sottolineare il fatto che in Italia il buon Yu-Gi-Oh non va più di moda da qualche tempo? Sorvoliamo su un paio di errori sintattici e passiamo al…
Quote dall’articolo:
“invocare ad alta voce lo spirito al quale ci si vuole rivolgere, e il gioco viaggia intorno ad un inganno maligno che ha a che fare coi poteri della magia oscura, coi mostri resuscitati, i posseduti che ritornano, anime che vagano disperate, le valchirie che escono dai sarcofagi, i demoni selvaggi, la sepoltura prematura e ancora altro occultismo; anche la Chiesa ha alzato la voce contro questo fenomeno, nel quale è difficile non riconoscere un odor di satanismo.”
Mi sono quasi stancato. Ci sono molti altri articoli che vi invito a leggere, di cui un paio che se la prendono (giustamente secondo me) con la mancanza di leggi precise che regolino il settore, oggi governato da sistemi di autoregolamentazione decisamente inefficaci. Ovviamente tra i vari articolisti c’è chi spara verso i “modelli diseducativi” presenti nei videogiochi, c’è chi propone la diffusione di giochi portatori di valori cristiani (poteva mancare la voce del Vaticano?) come alternative positive ai videogiochi violenti. C’è chi racconta di psicopatologie derivanti dall’uso intensivo di videogiochi… insomma, nel calderone c’è veramente tutto, compresi Dolcenera (sì, proprio la cantante… lo so… penso anche io quello che state pensando voi) e l’onnipresente Bittanti. Insomma, la sfilata di psicologi, espertologi e politici produce un mix interessante che merita di essere letto, anche per rendersi conto di come vengono percepiti i videogiochi dall’intellighenzia nostrana.
La rappresentazione della follia in Shivering Isles
Giocando a Shivering Isles mi è rimasta una strana sensazione in bocca, come la mancanza di qualcosa che doveva esserci ma che, per un qualche motivo, è stata rimossa. Ci ho pensato su ma non ho saputo dare una risposta concreta a questo sentire, almeno fino ad oggi quando è affiorata questa piccola riflessione.
Avviando Oblivion dopo l’installazione di Shivering Isles, un messaggio a schermo ci comunica l’apparizione di una strana isola in mezzo alla Baia di Niben. Senza avere nessun motivo valido, a parte la curiosità e aver speso i soldi per farla apparire, ci rechiamo sul posto e scopriamo che, in realtà, l’isola è un portale per il mondo del signore della follia (Sheogorath). Ci entriamo dentro senza un vero motivo (tranne i due espressi sopra) e ci troviamo in una stanzetta al cospetto di uno dei servitori della divinità che ci introduce al luogo in cui ci troviamo. Anche qui siamo chiamati a scegliere se accedere o non accedere al nuovo territorio… senza nessuno che ci dia un motivo valido per fare la seconda scelta. Nonostante questa entrata brutale non mi sia piaciuta molto, non è questo il motivo dello scarto maggiore tra me e il gioco, anche perché ben presto si dimentica questa introduzione forzata all’espansione e si inizia a girare per queste fantomatiche Isole Tremanti.
… nel mondo della follia manca la follia …
I personaggi sono lunatici e i dialoghi sono spesso apparentemente poco sensati… ma è tutto qui.
La vegetazione è strana e sicuramente fantasiosa, i paesaggi, pur bellissimi, sono “normali”, le due aree in cui è diviso il continente, Mania e Dementia, sono caratterizzate nelle loro differenze ma nessuno è realmente… folle. Mania è luogo accidentato e immerso in un autunno perenne, mentre Dementia è un luogo dark pieno di paludi… Lo stesso discorso è fattibile per i dungeon: si va da alcuni visivamente banali (corridoi di pietra, torce alle pareti, colonnati vari, umidità, mostri stereotipati, qualche pulsante da premere… dei normalissimi dungeon, insomma) ad altri che ricordano tane di insetti (con i nemici che sono proprio degli insetti).
… dov’è la follia nel mondo della follia? A parte alcuni elementi superficiali, cosa lo distingue dal continente di Cyrodiil (dove si svolge Oblivion)? Lo stesso palazzo del dio della follia è fin troppo normale. Possibile che l’unico elemento “eccentrico” di questo universo parallelo siano i dialoghi? Sì. E forse è per questo che risultano fastidiosi. Stonano. Gli abitanti del posto sembrano esistere in modo normale e si comportano in modo normale (tranne qualche rara eccezione). Hanno delle case sviluppate in senso verticale, che ricordano molto alcune abitazioni Inglesi, dove vanno a dormire come normalissimi esseri umani. Ci sono addirittura dei normalissimi negozi e un museo delle stranezze (perché in un mondo folle dovrebbe esserci un museo delle stranezze? Non è il mondo stesso che dovrebbe essere “strano” nella sua interezza?)… insomma, molti parlano dando ad intendere chissà quale universo interiore, ma poi, guardandoli girare per la città, sembrano dei perfetti borghesi fantasy che girano per un luogo fin troppo stereotipato. È per questo che ascoltarli parlare non da alcun gusto… sembrano dei registratori: quello che dicono non lega con ciò che hanno intorno.
Eppure la follia nei videogiochi è stata rappresentata più volte con risultati pregevoli: Sanitarium e il suo manicomio “interiore”; il primo Thief, in cui la casa di Constantine presentava architetture schizzate e improbabili; American McGee’s Alice, in cui i livelli erano versioni deformi dei luoghi del romanzo di Lewis Carroll; sono tutti esempi di rappresentazioni efficaci e non scontante in cui si è realizzata una geografia descrittiva intonata con il tema stesso dell’opera. In Shivering Isles questo non è stato fatto. Non ci sono punti di contatto tra la pretesa e l’esecuzione, non c’è nessun sovvertimento (o riscrittura) dei canoni proprio del delirio. Il mondo non è capovolto, non è riletto attraverso un filtro altro rispetto a quello della normalità. Non c’è nessuna traslitterazione dell’esperienza che metta in discussione l’ovvietà della realtà. Shivering Isles è folle come un impiegato del catasto che scegliesse di andare a lavoro per un giorno con una giacca rossa piuttosto che blu.