Sul numero di Dicembre 2010 dell’edizione italiana di Game Informer (presuppongo che nell’edizione americana l’articolo sia apparso a novembre), Matt Helgeson affronta un tema piuttosto importante e del quale qui su Ars Ludica abbiamo discusso diverse volte. Già il titolo dell’articolo non lascia dubbi sulla volontà polemica dell’autore: “Videogame, è tempo di crescere”, quindi si comincia con un “Patetico: questo è l’unico aggettivo per descrivere il modo in cui EA ha gestito la controversia legata ai Talebani in Medal of Honor.”
Per chi non ricordasse i fatti, Helgeson riporta i due comunicati con cui Electronic Arts ha cercato di arginare le critiche dovute al fatto di permettere ai giocatori di far parte dell’esercito dei talebani durante le partite multigiocatore. Nel primo si parla dei videogiochi come di una specie di versione evoluta di “guardie e ladri”, con gli americani al posto delle guardie e i talebani al posto dei ladri. Qualcuno dovrà pure interpretarli i ladri, no?
Il secondo comunicato parla dei videogiochi definendoli una forma d’arte (riducendo l’arte a un modo per raccontare storie…) e tirando in ballo The Hurt Locker e Salvate il Soldato Ryan. Riassunto: perché loro possono esistere senza polemiche e noi no? Il risultato finale della presa di posizione di EA lo conoscono tutti: in Medal of Honor i talebani non sono più tali, ma si sono trasformati in una triste e anonima opposing force qualsiasi.
Da questa visione contraddittoria, che emerge dai comunicati di un gigante dell’industria dei videogiochi stessa, Helgeson spreme una domanda semplice quanto fondamentale: come mai i rappresentanti dell’industria dei videogiochi, siano essi produttori, autori o giornalisti, si arrabbiano quando il medium videoludico non viene preso sul serio, se poi sono essi stessi a immiserirlo con le loro parole? Perché non si vuole abbandonare la visione del videogioco come “giocattolo tecnologico”, pur ambendo a fargli avere la considerazione collettiva di “nuova forma d’arte”?
Questa ambiguità non è propria solo degli operatori del settore, ma anche dei videogiocatori stessi, che non riescono a decidere cosa vogliono fare da grandi e continuano a ondeggiare tra la voglia di emancipazione e quella di conservazione; da una parte non riescono a negare la natura polivalente del medium videoludico, che di fatto ammette la possibilità di usarlo come forma di espressione artistica, ma dall’altra hanno paura che mettendo in gioco il videogioco (perdonatemi…) diverrebbe più problematico approcciarvisi.
I motivi per cui sarebbe importante stabilire una linea comune, o quantomeno dei punti fermi ai quali fare riferimento, sono molteplici. In primo luogo si guadagnerebbe quella credibilità necessaria per affrontare alcune battaglie e per contrapporre ragioni fondate a certe volontà censorie. Paradossalmente, gli avvocati che di volta in volta sono chiamati a difendere i videogiochi nei tribunali sembrano nutrire per essi più considerazione dei videogiocatori stessi (probabilmente le laute parcelle aiutano).
In secondo luogo, l’industria inizierebbe a credere maggiormente in sé stessa e, pur senza essere costretta a intraprendere chissà quale rivoluzione, potrebbe iniziare a concepirsi come parte del mondo e non come un mondo a parte, così da evitare approcci goffi e introversi ogni volta che entra in contatto con gli altri.
Ovviamente per ottenere qualche risultato è richiesto un cambio di mentalità che metta da parte alcuni pregiudizi e che coinvolga tutti gli operatori del settore, in primo luogo la stampa specializzata che dovrebbe modificare in buona parte l’approccio alla materia di cui parla. Se vogliamo difendere il videogioco come una forma di espressione con la stessa dignità culturale di altri media, dobbiamo essere noi stessi a vederlo e a parlarne come fosse tale, evitando le chiavi di lettura più facili e gli schemi collaudati dentro i quali siamo imprigionati.
Il primo passo da compiere sarebbe quello di individuare un valore assoluto di un’opera che vada al di là dei meri valori produttivi, riconoscendo nel relazionarsi delle singole parti che compongono il tutto l’essenza di ciò che andiamo cercando da anni, ovvero quei significati che non si riescono a spremere altrimenti e che appaiono sfuggenti ogni volta che sembra di poterli toccare.
La questione non è quella di far crescere i videogiochi, ma di riscoprirli nuovi, neonati. Chissà se saremo mai pronti a farlo.
Anchio sono stato infastidito da questa scelta, però c’è da dire una cosa: è in linea con la tendenza tutta americana di puntare tutto sul politically correct e questo obbrorio non lascia scampo nemmeno ad altre forme artistiche: lo sapevate che nell’ultima versione dell’Huckleberry Finn la parola “nigger” è stata sostituita da “slave” ?
Comincio a pensare che questa dicotomia dell’industria multimiliardaria dei vg abbia un suo perché.
Se si parla di un videogioco in modo maturo, io publisher rischio di dover spostare i miei prodotti verso un target di mercato diverso (es. quello dei 30/40enni), perdendo un’altra consistente fetta di mercato (es. quella dei bambocci con le manine cioccolatose). Conviene?
Spero di non sembrare presuntuoso,ma secondo me,la questione è relativamente semplice.
Una delle poche cose che accomuna molte,forse tutte,le forme d’arte è il loro essere intrinsecamente elitarie,o comunque di nicchia,poiché impiegano un linguaggio doppiamente mediato (linguaggio+mezzo,o codice,proprio di quella forma artistica). Il videogioco,volendo essere,o in questo caso più probabilmente presentarsi e basta,come “espressione artistica” va inevitabilmente a scontrarsi con la natura dell’industria videoludica,considerata a livelli mondiali (Wallstreet journal di 2\3 mesi fa) “uno dei più validi esempi di industria di consumo di massa”. “Industria di consumo di massa” implica che il prodotto debba essere immediatamente fruibile e rapidamente consumabile,per fare spazio al prossimo.Sono tratti che,evidentemente,non possono andare d’accordo con la natura di un’opera d’arte.
Probabilmente è questo l’enorme problema del videogame come medium in questi tempi: un conflitto tutto interno tra le sue due nature.Infatti vi sono contemporaneamente quella di oggetto d’arte,bello in quanto dona spunti di riflessione, e il bisogno dell’industria che lo produce di,detto brutalmente,piazzarlo a più gente possibile,in nome del profitto. Tale lacerazione viene accentuata dalla divisione in fasi del processo di “creazione” del videogioco: nella fase di ideazione si pensa spesso a renderlo “artistico”per poi dover fare la dolorosa scelta nella fase di produzione e di marketing tra lasciarlo così come è o commercializzarlo,nel senso di banalizzarlo,per aumentare le vendite.
Abbiamo già visto tale processo in altre forme d’arte,quali la pittura e la musica,in cui oggi convivono due livelli: quello dell’arte per intenditori,ristrettissimo,e quello dell’arte “pop”,per cui (ORRORE) “arte e ciò che il mercato considera tale”.
In questo specifico caso la banalizzazione ha assunto le vesti della “correttezza (abbstanza ipocrita) a tutti i costi” tipica della cultura degli USA,come ha giustamente ricordato Mr.Rud.
Tanto per annunciare la scoperta dell’acqua calda,concludo dicendo che la questione è grave e urgente,nonché scusandomi per la lunghezza del commento.
Butto lì una provocazione: ma davvero un videogame come l’ultimo Medal of Honor meritava di vedere difesa la propria dignità culturale?
@ Archangel
La coscienza della propria importanza trascende dalla qualità intrinseca del prodotto. anche Super Columbine Massacre RPG non era un granchè come gioco, ma affrontava a viso aperto una tematica molto importante
Super Columbine Massacre però era un prodotto indie che, al di là dei limiti tecnici e della pochezza del gameplay, nasceva con lo scopo di provocare e stimolare un dialogo, mentre MoH è un prodotto sfacciatamente commerciale, che tra un “fuck” e l’altro scimmiotta la guerra anabolizzata e holliwoodiana di titoli come CoD.
E se da un lato vorrei che anche ai videogiochi fosse riconosciuto il diritto di trattare anche quei temi maturi e controversi, come si addice ad un medium complesso, dall’altro non me la sento di difendere a spada tratta un gioco (o peggio, un’industria) che per ragioni di marketing cerca di proposito la polemica e strumentalizza tutto in nome del profitto.
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