Il tenore dei commenti nel Windows Phone Marketplace

Un po’ come Terra Bruciata di Ringcast, ma per scritto.

Nei commenti di Droplitz Delight:

Allora voi credete che e’ un gioco bello ma secondo me no ed e’ anche a 1€ in quanto su iPhone Dead Space costa 1€ che e’ un gioco bellissimo e hanno fatto anche mass effect su android pensate voi se sapevo di questa fregatura avevo preso un android o un iphone.

risposta cortese:

Bel gioco e ottimo prezzo. Vorrei solo dire a quelli che si lamentano che è normale pagare 99 cent per un gioco. E vorrei anche ricordare che si paga il servizio dei punti xbox live. Se ciò non vi interessava o non vi piaceva, perché non avete preso un android o un iOs? 🙂 saluti a tutti 🙂 Rispondendo a Giuseppe, Android e iOs son sempre disponibili in negozio, nessuno ti obbliga a tenere un Wp 🙂

risposta disillusa:

Caro Giuseppe hai ragione su tutto tranne che sul prezzo, i giochi che hai citato costano sui 5 euro, purtroppo qui su Windows Phone siamo abituati a schifezze disumane vendute allo stesso prezzo e quando esce un giocco a 99 cent è un mezzo miracolo

pietra tombale:

Testa di rapa obiettivi e classifiche li hanno tutti i giochi anche senza x box live!sei inutile!nn è il fatto di pagare un euro due euro e il principio di arricchimento ingiustificato che fa innorridire!c e quessi si fanno i soldi per si giochi di *** ma ti rendi conto?ma che te lo dico a fa manco sai cos e l economia

Cercate pure in giro per il marketplace, troverete commenti analoghi (anche peggiori) che vanno a picchiare sempre sulla stessa cosa: il prezzo. “Bel gioco ma abbassate il prezzo” (3 euro), “abbassate il prezzo”, “bellissimo ma 3 stelle perché non è gratis”, “quando lo rendete gratis?”.

E’ vero, rispetto all’App Store e al Play Store il Windows Phone Marketplace è meno ricco, con meno (anzi decisamente poche) applicazioni interessanti e con un prezzo medio più alto (soprattutto con pochissime applicazioni gratis). Siamo nell’empasse di una piattaforma meno appetibile della concorrenza (salvo che non vi piaccia Metro, l’elegante interfaccia di WP), su cui gli sviluppatori (credo “incoraggiati” da Microsoft) tengono prezzi mediamente più alti data la limitata base d’utenti, la qual cosa non rende certo la piattaforma più appetibile.

Lasciando stare il fatto che Windows 8 ucciderà in un colpo solo sia il PC (almeno così teme Valve) che Windows Phone 7 (i telefoni WP7 attuali verranno aggiornati al massimo alla versione 7.8 e tanti saluti), la cosa preoccupante è avere da attingere a un bacino di utenti così proni al bimbiminchismo, così disabituati all’acquisto e convinti che sviluppare software sia come fare beneficenza. Tale bacino di utenza quanto è condiviso con iOS e Android? Chi dei due è più responsabile di averlo plasmato così Arpagone? O Windows Phone per affinità si cucca le gioie della tipica utenza parassita PC?

Per l’estiva riflessione sulla cosa, rimando anche alla geniale sintesi di Matthew Inman, This is how I feel about buying apps – The Oatmeal.

Infinity Blade e Infinity Blade II

 

Gli Infinity Blade sono giochi di una furbizia che merita di passare alla storia. Un solo grosso ambiente da percorrere più volte (molto lentamente), un sistema di gioco ridotto all’osso, un gameplay che dà al giocatore quello che vuole in termini di immaginario (armaturone cool, spadoni cool e mostroni da abbattere strusciando un dito sullo schermo), qualche spruzzata di gioco di ruolo tanto per dare l’illusione di quel minimo di profondità che non fa mai male (ma tanto la differenza la fa l’equipaggiamento, che è un invito a dare altri soldi a Epic per avere subito il migliore), qualche micro segreto e la migliore grafica mai vista su un sistema mobile.

Ecco, non fosse confezionato benissimo è probabile che entrambi i titoli che compongono la serie sarebbero stati derubricati come laser game con l’addenda di qualche variante, quindi ignorati per la ripetitività di fondo e la lentezza di comodo (di un’ora di partita quanto si giocherà effettivamente? Cinque minuti?), funzionale solo per allungare il brodo, che li caratterizza .

Tra il primo e il secondo capitolo le differenze sono minime. Per la maggior parte si tratta di piccoli aggiustamenti di poco conto. Infinity Blade II, rispetto al primo, allarga un po’ l’ambientazione, aggiunge diverse situazioni, ma nella sostanza il gioco è sempre quello e non ci si può fare veramente nulla: il tutto si riduce a parare i colpi e rispondere all’avversario quando si sono rotte le sue difese. Più hai lo spadone grosso, più gli fai male. Se vuoi ammazzare i nemici più grossi devi avere lo spadone più grosso.

I soldi per acquistare l’equipaggiamento si trovano in giro (altra furbata per evitare che il giocatore schivi gli estenuanti e ripetitivi filmati), si ottengono combattendo o si prendono pagando soldi veri. L’equipaggiamento è prezzato in modo tale da stabilire un limite preciso entro cui la spesa di soldi veri diventa una necessità per le gonadi, se non si vuole ripetere decine di volte la stessa solfa per accumulare i soldi per vie ludiche. Il tutto è così viscido, furbo e in un certo senso disonesto che ricorda un falso invalido. Be’, almeno questo non costa soldi pubblici.

Party Wave

Party Wave è un po’ un segno dei tempi. Se lo si avviasse ignari del passato di Mistwalker e di Sakaguchi sarebbe uno dei tanti giochi da due soldi che popolano l’app store. Lo compri per pochi spiccioli, ci giochi quell’oretta perché in fondo non è male, ne capisci presto i limiti e lo molli per qualcos’altro. Spiegare le due fasi in cui è diviso non è difficile. Nella prima bisogna trascinare (letteralmente) dei surfisti provenienti da varie direzioni dello schermo nel punto perfetto in cui prendere l’onda, rappresentato da una zona di mare luminosa. Sulla strada dovranno evitare rocce, boe e animali acquatici vari.

La seconda fase è la classica cavalcata dell’onda. Il giocatore deve solo cliccare sui surfisti prima che raggiungano il fondo dello schermo per fargli riprendere quota. Se si riesce a farli arrivare alla fine dell’onda in numero sufficiente, si ottiene un punteggio in base alle evoluzioni eseguite, determinate da vari fattori legati al momento in cui si sono toccati i surfisti e a quanti di loro sono ‘sopravvissuti’. I livelli successivi si sbloccano se si sono accumulati abbastanza “perfect”. In ogni livello se ne possono ottenere due: il primo si ottiene se tutti i partecipanti riescono a prendere l’onda, mentre il secondo se tutti raggiungono la fine dell’onda.

Ci sono alcuni bonus nascosti, qualche variante rappresentata dal tipo di animali acquatici che appariranno per disturbare i surfisti, ma in generale Party Wave è tutto qui. Non sarebbe neanche male, se non fosse il nome che porta nei credit. Anzi, facciamo così: non è affatto male per quel che dura ed è puerile cercarci un qualsiasi elemento che possa fungere da firma del papà di Final Fantasy. In questo senso si tratta di un titolo fortemente pessimista, e proprio il silenzio di un autore storico è la maledizione peggiore che si possa esprimere sull’intero mondo dei videogiochi.

Quello che Anna non dice

Poi uno decide di andare in montagna.
Voglio dire, è anche naturale volersi prendere una pausa dall’insalubre mistura di smog newyorkese e umidità amazzonica che è Milano d’estate.
Anche se certe volte sarebbe meglio chiudersi in casa, staccare il telefono e abbracciare il condizionatore d’aria, che c’è crisi e le vacanze costano.
E infatti qualcuno ha deciso di risparmiare sulle ferie e investire (!?) tempo, fatica e denaro nella creazione di un videogioco e, in maniera del tutto fortuita, queste persone sono anche le stesse che da anni parlano malissimo dei videogiochi altrui sulle “pagine” di questo sito.
E io adesso, per diritto di precedenza (ho risposto “primo!” nel topic redazionale in cui si assegnava la recensione), farò a brandelli il giochino dei Dreampainters.

Per anni i soggetti in questione ci hanno ammorbato con il loro sproloquio reazionario sul come l’open world sia una schifezza, su Bioware cacca pupù, su Bethesda con i bug e Kojima gnegnegne, occupando tutte le frequenze udibili di ArsLudicast con le loro voci stanche e il caratteristico ticchettio di chi nel frattempo sta anche chattando altrove con le manine unte di coda alla vaccinara.
Quantomeno i nostri non mancano di coerenza, e decidono così di dar vita, come opera prima, ad un’avventura grafica, genere dato più volte per morto e sepolto, vero feticcio dei videogiocatori di vecchia data al quale io sono assolutamente immune, visto che anzi mi repelle.

Anna si fonda su delle dinamiche semplici: un inventario ridotto all’osso, l’interazione con il mondo che ci circonda relegata a qualche clic e il classico WASD per muoversi. Da subito veniamo messi di fronte alla volontà del designer: gli spazi esplorabili sono pochi, anche nella zona iniziale all’aperto è viva la sensazione di impotenza, non abbiamo altra scelta che focalizzarci sulla risoluzione degli enigmi per avanzare, anzi per andare sempre più a fondo, sempre più lontano dall’uscita.
La componente horror non si presenta attraverso una minaccia fisica alla nostra incolumità, ma piuttosto nell’ineluttabilità del percorso. Certo non mancano alcuni elementi classici del genere ma il crescendo di tensione, nella mia personale esperienza, è stato caratterizzato da una domanda costante: “ma dove diamine sto andando? Perché lo sto facendo?”. Non conosciamo niente del protagonista, così come anche non siamo in grado di determinare le sue riflessioni o decisioni (non sappiamo neanche che aspetto abbia), ed è questo distacco tra giocatore e protagonista a creare una singolare chimica di gioco, nella quale siamo più ospiti che parte attiva.
La narrazione è frammentaria, e si manifesta principalmente nelle mutazioni dell’ambiente; un modo di raccontare le cose che può appartenere solo al videogioco e mai abbastanza sfruttato nelle produzioni videoludiche. Nello scenario rimarranno costantemente però elementi a noi familiari, come a sottolineare il legame con la realtà, che non è necessariamente il paesaggio bucolico fuori dalla segheria.
Certo Anna non è esente da difetti: personalmente ho trovato frustranti alcuni enigmi, la cui soluzione è suggerita da indizi troppo scarni (quando presenti), sicuramente il rimanere bloccato in un punto mi ha dato la possibilità di guardarmi meglio attorno, però mi ha anche indotto più volte ad un metodico uso dell’inventario in stile “prova tutto con tutto”; con il senno di poi alcune cose possono sembrare logiche ma altre continuano a non avere senso … o magari sono io poco avvezzo a tali raffinatezze cerebrali.
L’impatto visivo è scarno e non eccessivamente curato; alcuni elementi risultano addirittura fastidiosi all’occhio e in aperto contrasto con il resto della veste grafica, l’interazione con l’ambiente è quasi esclusivamente limitata agli oggetti e agli elementi utili alla risoluzione degli enigmi. Il sistema è snervante poiché riporta automaticamente l’oggetto in inventario (togliendolo dalle mani) tutte le volte che si tenta un’azione non consentita, la quale spesso corrisponde all’aver cliccato per errore due millimetri accanto al corretto hot spot.

Inoltre Anna è breve, brevissimo: l’ho finito in quattro ore circa di gioco, ma se non mi fossi piantato duro su alcuni enigmi forse sarebbe durato la metà, Simone Tagliaferri assicura la presenza di molteplici finali determinati dalle nostre azioni, ma personalmente non ho no notato nessun bivio evidente, nessun punto che mi desse l’impressione di poter compiere una scelta a discapito di un’altra, in sostanza tutte le soluzioni che ho applicato (una volta trovate, diamine) mi sono sembrate le uniche possibili, dunque non parlerei di “buona rigiocabilità”.
Il gioco poi propone solamente un gameplay basato sulla risoluzione degli enigmi, l’area di gioco limitata e l’assenza di altri personaggi non lascia spazio a nessuna alternativa, ma anche questa potrebbe essere considerata una scelta di design: la volontà di non spezzare mai il lento ma inesorabile ritmo dell’esperienza, claustrofobica negli spazi fisici come in quelli mentali.
Oppure semplicemente non avevano abbastanza soldi e risorse per mettere più carne al fuoco.

Un breve cenno alle musiche composte dal Monopoli, certamente ben scritte ed eseguite, ma talvolta in apparente contrasto con l’ambientazione e la storia suggerite dal gioco: spesso il tema principale, dai toni sereni e rilassati, compare in maniera inopportuna esattamente dopo un forte momento di tensione, interrompendo così, involontariamente, la sospensione di incredulità che dovrebbe essere alla base di un gioco come questo. Comprendo perfettamente l’intenzione di voler affrontare il problema dell’accompagnamento musicale con uno spirito diverso, ma spesso risultano più appropriate le scelte più convenzionali adottate in altri brani sempre nello stesso gioco.
Tirando le somme Anna è un titolo singolare, figlio di scelte talvolta radicali che riflettono perfettamente i suoi creatori e per questo contrario a molte delle tendenze attuali del videogioco. Il mio personale astio nei confronti del genere mi spingerebbe a dire “anacronistico”, ma la verità è che alcuni degli elementi fondanti di questo gioco sono quelli che da anni cerco di promuovere nelle infinite discussioni con amici e parenti.
Non compratelo, tanto dovrebbero esserci in giro già dei torrent, e in alternativa potete contattarmi per avere il codice review. Se però sentite proprio l’irrefrenabile pulsione di spendere 8 euro, cercate comunque di tenere bene a mente che dietro a tutto questo ci sono delle persone grasse e antipatiche.

P.S.
Complimenti ai Dreampainters per la citazione da Indiana Jones.

 

romanità: 10
chitarrismo: 8
fogliame: 6
free roaming: 2
incremento del PIL: 1
tonalità di marrone: 8

questo articolo è stato scritto ascoltando:
The Heliocentrics – Out There (2007)

ArsLudicast 220: Altro giro, altra morte di ArsLudicast

 

E anche quest’annata del podcast videoludico più vilipeso, e vilipeso con maggior merito, di sempre si è conclusa. Inutile specificare che stavolta sì, è finita davvero.
Un Simone Tagliaferri inopinatamente disfattista per via della propria scarsa ispirazione e un Alessandro Monopoli in cerca di ludibrio tentano, insieme a Vittorio Bonzi (e a nessun altro, giacché Matteo Anelli è afflitto da innumerevoli problemi logistici), di fare un resoconto della stagione, tirare le somme insieme ai remi in barca e accomiatarsi con simpatia in vista dello iato estivo (e anche di tutte le altre stagioni – chiudiamo qua, come si è detto). Il tutto nel corso di un episodio breve, come fu l’anno scorso, comprensivo di un annuncio il cui accoglimento sarà forse variabile e di un’infornata di aneddoti monopoliani come non ne avete mai sentiti – anzi sì, ma non smettono certo di essere un piacere per questo; senza contare che stavolta vanno a formare il più ricco e potente affresco epico della storia umana!

Ovviamente questa è proprio l’ultima puntata in assoluto, sì.
O forse no?

In ogni caso, buon proseguimento d’estate a tutti voi, e grazie per l’affetto dimostratoci!

Scaricate l’episodio:

 

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Brano in Apertura: Tema di Battlefield di Fredrik Englund, David Tallroth e Jonas Ostholm, arrangiato ed eseguito da Alessandro Monopoli.

Brano in Chiusura: Daoka (da Outcast), composto da Lennie Moore.

Vi ricordiamo che se volete assistere come ospiti al podcastproporre un argomento di discussione, farci tantissimi meritati complimenti e insulti (meritiamo entrambi), o proporre un arrangiamento al Monopoli, potete farlo contattandoci a: arsludicast@arsludica.org o redazione@arsludica.org, oppure utilizzando l’apposito thread sul forum.

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Intervista a Li-Chung Chih

(A cura di Carola Cudemo)

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Ars Ludica dà il benvenuto a Li-Chung Chih, un artista 2/3D che ha lavorato a importanti videogiochi sviluppati da NCsoft-ArenaNet, Epic Games China, Titan Studio, Square Enix, Airtight Games, Microsoft Game Studios e Turn 10.

Sentiamo cos’ha da dirci!

Ciao, Li! Come potrai facilmente immaginare, molti giovani sognano di lavorare nell’industria dei videogiochi, cosa tutt’altro che facile, potresti raccontarci il percorso che ti ha portato al successo?

Ciao a tutti! Sai, come un po’ tutti i ragazzi sono sempre stato affascinato dall’arte, dai videogiochi e dalle nuove tecnologie, perciò, dopo aver studiato graphic design alla Towson University, ho deciso  di trasferirmi da Washington D.C. a Seattle per frequentare il prestigioso Art Institute of Seattle. Il corso di game design che ho seguito là mi ha fornito tutti gli strumenti e il supporto necessari per intraprendere una carriera nell’industria videoludica o cinematografica.

Un ottimo esempio di integrazione tra il mondo della scuola e quello del lavoro, dunque!

Sì, sin da subito ho lavorato come freelancer nel campo del web design, del marketing e della pubblicità., per poi passare al mondo dei videogiochi: il mio primo progetto AAA pubblicato è stato Forza Motorsport 4, mentre a breve usciranno Guild Wars 2 e a seguire altri titoli non ancora annunciati, di cui però non posso ancora parlare!  Attualmente sono impiegato presso Google e di tanto in tanto tengo anche delle lezioni in diversi college.

Com’è stato il tuo debutto nell’industria?

Questa sì che è una strana storia! Ero solo uno studente al secondo anno ed ero semplicemente andato a una specie di sessione di critica che avrebbe dovuto valutare i portfolio dei laureandi. Il mio professore di 3D mi invitò a partecipare, ma io pensavo fosse una missione suicida, non mi sentivo affatto pronto: dopotutto la commissione esaminatrice era composta da membri di ArenaNet a caccia di talenti. Fu così che mi ritrovai col mio portfolio stampato sotto braccio, in coda assieme a tutti gli altri. Insomma, per farla breve, hanno scelto proprio me e mi sono unito a un gruppo di dieci nuovi artisti presso ArenaNet!

Molti artisti tendono a specializzarsi in un singolo ambito, ma tu ti sei dedicato allo studio del 2D e del 3D allo stesso tempo, come hai fatto?

Credo proprio di dover ringraziare il pessimo clima di Seattle! Il brutto tempo ci spinge a essere una società piuttosto casalinga, il che è un ottimo incentivo allo studio! Avesse sempre fatto bello, mi sa che non avrei combinato niente di buono! Per tre anni sono riuscito a seguire un piano di studi da pazzi: mi facevo 8 ore di 2D di giorno e praticamente altrettante di 3D la notte. Spesso l’intera classe si riuniva e tiravamo fino all’alba per riuscire a finire i progetti assegnatici entro i tempi prestabiliti! Penso di non aver mai dormito più di 6 ore di fila!

Nel tuo portfolio si può notare un grande interesse per l’arte tradizionale. Quanto è importante per te la conoscenza dell’arte tradizionale nel tuo lavoro di artista digitale?

Una mia compagna di corso era appassionatissima di pittura a olio: quando si metteva a parlare dei suoi pittori preferiti, delle varie tecniche di pennello, dei colori, del processo creativo, eccetera, il suo entusiasmo era così contagioso che un giorno decisi di provarci anch’io! È grazie a lei che mi sono avvicinato al mondo della pittura e mi sono messo a dipingere. Ne sono influenzato al punto che nel tempo libero pratico di più lo stile tradizionale di quello digitale! Conosco molti artisti 2D/3D che si rifiutano categoricamente di dedicarsi all’arte tradizionale, perché la ritengono una perdita di tempo inutile e costosa. Al contrario, io credo che l’essere in grado di visualizzare quali tratti e colori vorresti vedere su una tela renda il tuo lavoro digitale non solo più veloce ma anche più vivo.

Cosa significa essere un artista per i videogiochi? Qual è il tuo ruolo?

Come tutti, agli inizi ho cominciato modellando dei prop.  Ricevevo dei bozzetti e il mio compito consisteva nel ricreare l’oggetto in 3D nella maniera più fedele possibile all’idea originale. In seguito, man mano che mi impratichivo, ho iniziato a lavorare sulla vegetazione, sull’illuminazione, sulla costruzione e l’abbellimento di interi ambienti e infine a produrre io stesso dei concept. Talvolta mi è capitato di dover creare degli effetti speciali o testare la giocabilità di alcuni livelli. Un buon “environment artist” deve avere molti assi nelle maniche per svolgere il suo mestiere al meglio!

Che consigli daresti a un aspirante “game artist” che volesse seguire le tue orme?

In qualsiasi campo, impegno e passione sono le uniche cose che contano. Che si  frequenti un’accademia d’arte o si impari da autodidatta, la morale è una sola… testa bassa e sgobbare!

Fare un sacco di errori! No, dico sul serio. Solo chi ne ha combinate di tutti i colori, e ha fatto tesoro dei propri errori, può definirsi un vero esperto del settore!

Bisogna saper fare gioco di squadra e imparare a lavorare assieme ai colleghi. Versatilità e spirito di collaborazione sono la chiave per il successo di qualsiasi team.

Poco importa che tu sia ancora uno studente o già un professionista: confrontati il più possibile con gli altri, esponendo costantemente i tuoi lavori a critiche spietate, e sii pronto a reggere il colpo. Bisogna avere la pellaccia dura per stare in questa industria.

Bere del buon caffè! Credo di non aver ancora incontrato un collega che non ne sia un estimatore!

Grazie mille per la tua gentile disponibilità!

Date un’occhiata alle altre opere di Li sul suo sito:  http://www.3dsynthesis.com/ !

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ArsLudicast 219: Indie Made in Italy – Reprise

 

Come già fatto nella prima stagione, ci occupiamo delle produzioni videoludiche dello stivale parlandone con persone addentro: l’ospite speciale della puntata Marco Di Timoteo, grafico e game designer di Studio Evil, ci parla dei progetti passati e futuri del suo studio, delle difficoltà affrontate, delle ordalie superate e della tendenza al veto di Gabe Newell e compagni, con particolare attenzione per l’attuale titolo Syder Arcade, shoot’em up di ispirazione antica ma sapiente. In seguito Simone Tagliaferri, affiancato da Alessandro Monopoli con la sua sapida aneddotica su feste organizzate da glorie che furono e imbrigliato dal tenebroso (senza “bel”) Vittorio Bonzi, elargisce una marchetta spudorata sullo studio DreamPainters e sul suo orrorifico (ma tutt’altro che orroroso) Anna, di cui tanto vi abbiamo già detto e mostrato – e che, per inciso, ci empie d’orgoglio. Completa il quadro un po’ di immancabile pianto sulla serva patria di dolore ostello.

Syder Arcade di Studio Evil è disponibile presso il sito ufficiale sopra linkato e tutte le piattaforme di Digital Delivery, con l’eccezione di Steam. È sano ed economico, fatelo vostro!

Scaricate l’episodio:

 

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Brano in Apertura: Medley con Promise  (Silent Hill 2) di Akira Yamaoka, arrangiato ed eseguito da Alessandro Monopoli.

Brano in Chiusura: Pints a Flowing  (Stronghold 3) di Robert Euvino.

Vi ricordiamo che se volete assistere come ospiti al podcastproporre un argomento di discussione, farci tantissimi meritati complimenti e insulti (meritiamo entrambi), o proporre un arrangiamento al Monopoli, potete farlo contattandoci a: arsludicast@arsludica.org o redazione@arsludica.org, oppure utilizzando l’apposito thread sul forum.

Se volete inoltre contribuire al nostro progetto potete fare qualche acquisto sul nostro aStore, garantendoci una donazione senza alcun costo aggiuntivo per voi.