https://www.youtube.com/watch?v=EoLt3jY_wgk
Archivio Mensile: Ottobre 2010
Saira
Prodotto e sviluppato da Nifflas | Piattaforme PC, Mac | Rilasciato nel 2010
La versione testata è quella PC
Saira è un videogioco sull’esplorazione solitaria. L’autore, Nifflas, è specializzato nella creazione di mondi piccoli e affascinanti che si offrono alla contemplazione ammirata grazie alla loro essenzialità e alla capacità di evocare atmosfere pregnanti con pochi mezzi. La sua poetica riguarda la solitudine del videogiocatore, sperduto in ambienti ostili ma affascinanti, come accadeva nei due Knytt, suoi capolavori freeware dei quali Saira è il seguito ideale.
Dove sono finiti tutti?
La protagonista è rimasta sola e deve esplorare l’universo alla ricerca del motivo della fine del genere umano. Dalla sua ha un’agilità invidiabile che le consente di spiccare balzi incredibili e di arrampicarsi sulle pareti. Sparsi per i diversi pianeti ci sono dei terminali, ognuno con un puzzle da risolvere per andare avanti. In caso si scoprano indizi, è possibile fotografarli per tenerne traccia, creando una specie di taccuino visivo. Le ambientazioni sono piuttosto ingegnose e tendono a sfidare continuamente il giocatore, portandolo a spingere al limite il sistema di controllo per realizzare evoluzioni apparentemente impossibili.
Gli stessi minigiochi dei terminali possono raggiungere livelli di difficoltà elevatissimi e sono abbastanza vari, anche se in alcuni casi finiscono per distrarre dalla fase esplorativa e spezzano troppo l’atmosfera. Saira è indubbiamente un bel gioco, ma paga il prezzo di una minore compiutezza rispetto ai Knytt, soprattutto dal punto di vista artistico. Sono proprio le aggiunte e alcune specificazioni a renderlo meno affascinante, privandolo di quell’indeterminatezza che lo avrebbe reso grande. Dare un nome alle cose le priva del mistero che le avvicina all’essenza del divino.
Articolo già apparso su Babel 23
Mark Leung: Revenge of the Bitch
https://www.youtube.com/watch?v=IdkP8LAQPs4
Chillingo svende, qualcuno esulta pure
E’ stata resa pubblica la notizia che Chillingo, il noto publisher per Apple, Android e J2ME ha venduto per appena 20 milioni di dollari ad Electronic Arts. Si, appena.
In molti hanno considerato la notizia come un segnale stimolante che certifica che i soldi su mobile si possono ancora fare, forse scordando che l’indie ed il casual gaming si è sedimentato da molto tempo (ad inzio millennio e, modestamente, io c’ero) e che PopCap e BigFish non sono certo due start-up appena nate ma due competitor di tutto rispetto, persino per un colosso come EA, che aveva provato a contrastarle, con pessimi risultati, acquisendo il terzo player mondiale: pogo.com, azienda che poche settimane fa è stata definitivamente dissolta.
In realtà analizzando la salute delle start-up che hanno cavalcato questa nuova mini-bolla (ormai esplosa da circa un anno, peccato per chi è arrivato troppo tardi) c’è di che essere scettici: quasi tutte sono sul mercato a prezzi irrisori.
Facciamo un paragone: Zynga, il publisher leader dei web games, è in crisi. La bolla Farmville è scoppiata da tempo, gli utenti sono in calo vertiginoso, ci sono scandali su abusi della privacy, nessuno sa come estrarre soldi dai numerosi iscritti ai loro giochi, eppure Zynga vale venti volte più di Chillingo, con un numero di prodotti che, a paragone, è irrisorio.
Chillingo ha un catalogo di quasi 300 prodotti che, considerando nullo il valore della società, per EA sono valsi circa 65K$ l’uno. Ovvero lo stipendio lordo annuo di un informatico in USA (e secondo IGDA anche di un programmatore di giochi piuttosto bravo). Nel prezzo di vendita di Chillingo però c’è altro: ci sono i suoi dirigenti, i suoi dipendenti, le sedi, le sedie, qualsiasi attrezzatura di proprietà dell’azienda. Spesso si tende a trascurare queste cose ma sono valori molto alti. Realisticamente, forse il valore medio per titolo si aggira attorno ai 30-40K$. Considerarla una svendita, forse, è essere misericordiosi.
Molti dei titoli di Chillingo hanno costi di produzione più alti di tale cifra perché, in definitiva, sono ottimi prodotti. Quello che la gente non sa è che Chillingo è un publisher mobile e spesso “compra” giochi già finiti da terzi, nella fattispecie team di indie developer che hanno speso da qualche mese a qualche anno a formarsi ed autofinanziarsi per arrivare ad avere un prodotto presentabile, perché nel mobile solo i dilettanti scommettono sui concept (anche se ci sono rare eccezioni): c’è troppo poco tempo, le idee sono troppo basilari ed i rischi sono troppo alti per scommettere su qualcosa che ancora non esiste e non può essere venduto domani.
In definitiva Chillingo (nella veste dei suoi proprietari e top manager) da questa acquisizione avrà sicuramente guadagnato qualcosa, avendo girato gran parte dei rischi imprenditoriali agli sviluppatori stessi. Tuttavia la vendita di Chillingo arriva dopo una serie di strategie (forse più scelte di fede) rischiose e poco condivisibili (e chi segue il forum sa bene come la penso): la scommessa su iPad (e la rocambolesca ritirata da tale direzione) si è rivelata infruttuosa ed ha sottratto al publisher risorse preziose che potevano essere investite con maggior anticipo nella promozione su Android, tanto che molti developer hanno scelto la promozione autonoma su tale piattaforma proprio per l’indecisione del publisher. In realtà la scommessa su iPad è costata cara anche ad Apple: con un solo keynote l’azienda ha perso il 6.5% del suo valore proprio grazie agli obiettivi non mantenuti per iPad ed AppStore, che ora è ufficialmente in implosione. Altro evento prevedibile e gestibile, ancora ben lontano dall’essere una crisi, almeno per chi ha 160 prodotti di primo piano in listino.
Rimane poi la questione industriale: perché vendere ad un publisher che fa altro ed ha appena finito di maciullare un colosso come pogo.com? E’ chiaro che in Chillingo la fiducia sul futuro dell’azienda non c’era: nessuno venderebbe una gallina dalle ova d’oro dopo solo una covata.
[Diario] Io e il Multiplayer: una storia (d’amore?)
Casa di Cugino, Tirana, Albania, 1999
Hai 10 anni, collezioni ancora figurine e, chissà perché, ti sei innamorato di Pam Grier dopo aver visto il film Jackie Brown, anche se già allora l’attrice aveva superato i 40 e aveva un di dietro grande quanto la sua carriera. Vai a far visita ai tuoi parenti oltre l’Adriatico, e mentre i tuoi genitori parlano di affari di famiglia (niente mafia, che pensate?) osservi il tuo cugino preferito, che per semplicità chiameremo Cugino (oh mamma, una citazione!), giocare al PC con Commandos, Blade Runner e Starcraft. Dopo due giorni, a tua zia viene compassione e ordina a Cugino di insegnarti a giocare. Dopo 10 minuti incomincia l’abuso nei miei confronti da parte dei “Koreani” nel server unico Starcraft su Battle.net (non c’era ancora la differenziazione regionale, che bei tempi…).
Dopo 5 partite (per un totale di 15 minuti di gioco, fate voi la media) ti alzi e cedi il posto a Cugino, non perché senti l’indelebile bruciore della sconfitta (ok, in realtà è proprio per questo), ma perché vuoi continuare a vedere le cariche nucleari, i ghost, i battlecruiser e gli arbiter combattere in megabattaglie, caotiche e colorate: bastano anche solo le luci e le esplosioni a divertirti.
Internet Cafè “Pravda”, Tirana, Albania, 2000
Nonostante il cibo scarseggiasse, nel 2000 Tirana era uno dei più grandi centri di rete dei Balcani. Centinaia di ISP non regolari (probabilmente nascosti nei bunker Komunisti disseminati sulle coste di Durazzo) sfruttavano illegalmente la rete telefonica abbandonata dallo Stato, e quando questa non bastava i gestori affittavano 3-4 pale e riallacciavano le vecchie linee telegrafiche usate durante la guerra. A questa invasione di informazioni corrispose un’invasione di centri internet e Internet Cafè, tant’è che alla fine del Decimo Piano Quinquennale (in 40 anni di dittatura) il regime dichiarò orgogliosamente che si era raggiunta la sconcertante cifra di un centro per famiglia. Ovviamente, come da tradizione Politburiana, i dati presentati erano stati falsati per corrispondere alle aspettative della pianificazione: in realtà infatti si era arrivati ad offrire due centri internet per famiglia.
Nonostante la saturazione del mercato Cugino riuscì, tra uno sgambetto, una testa di cavallo e un permesso del Partito Komunista, ad aprire un Internet Point nel campus dell’Università di Tirana; la concentrazione di giovani gli permise quindi di superare le aspettative di vita di un servizio del genere (che allora si aggiravano sulle 48 ore) e di costituire un’utenza abbastanza grande e, soprattutto, precisa e pronta nei pagamenti.
Le prime settimane furono un po’ difficili: insegnare l’uso del computer e di internet non è mai qualcosa di semplice (soprattutto in un paese dei Balcani: ma siamo seri? Chi vorrebbe mai vivere nei Balcani, dai), ma per fortuna dopo un mese l’attività si stabilizzò in un orario a due turni diviso in tre parti principali.
10.00 – 20.00: Chat, Messenger, Ricerche scolastiche, traduzioni, Commentari.
20.00 – 22.00: Porno.
22.00 – 02.00: Lan Party a Counter Strike.
(Lo so che c’è qualcosa che non torna: far rientrare chat e studio nella stessa categoria non è propriamente corretto, ma non è colpa mia se gli studenti albanesi hanno cattive abitudini)
Comunque fu in quelli ambienti malfamati, pieni di sigarette, tavoli da biliardo e mouse Razor, che incominciai a muovere i primi passi nel “Pro-Gaming”. Certo non fu facile, e come cantano gli Ac/Dc: “It’s a long way to the top”…
All’inizio fu veramente dura: uccidevo i miei compagni e rimanevo in inferiorità numerica per interi round, acquistavo equipaggiamento e lo gettavo a terra, vagavo alla cieca mentre i miei nemici mi seguivano alle spalle e operavano sul mio avatar innominabili sevizie; ma io fui testardo e risoluto, e dopo due settimane riuscivo o perdere compiendo 5 uccisioni e morendo solo 35 volte. Poi però mio cugino incominciò ad incazzarsi e installò un aimbot sul mio PC. Da lì in poi divenni invincibile.
Un sottoscala di un negozietto qualsiasi, Italia, 2005.
Ogni leggenda, all’apice della sua gloria, sulla cima del mondo, è costretta a confrontarsi con l’ultimo mortale nemico, l’avversario a cui tenta di sfuggire dall’inizio della sua vita, o meglio da ancor prima, dal momento del suo concepimento: anch’io dovetti affrontare quell’avversario, e ancora oggi porto su di me i segni di quel tremendo scontro.
Stavo nella cantina di un negozio di VG che aveva fatto fortuna tramite la vendita di immagini porno, copie del video Pamela Anderson & Tommy Lee e copie piratate dei migliori giochi PS2. Mi ricordo che qualche anno prima io stesso, presentando i primi segni di Fanboyite Microsofti acuta, mi rivolsi al negoziante, che per semplicità chiameremo Negoziante, per acquistare una ecs-bocs. Ovviamente Negoziante mi rise in faccia, proponendomi allo stesso prezzo una versione estesa del video di Pamela e 10 DVD pieni di porno. Io guardai quell’uomo vecchio e debole con la comprensione di un individuo saggio e lungimirante, poi però accettai la sua offerta e acquistai tutto.
Dicevamo, nella cantina di tale negozietto i gestori avevano allestito un gaming center niente male, con tanto di baretto e squinzia (o mamma, un’altra citazione) che ti serviva da bere. Come da tradizione animale, anche in questo territorio si erano costituiti dei branchi organizzati, famelici gruppi di predatori costretti ad accordarsi in una sorta di coesistenza pacifica per evitare il massacro reciprocamente garantito; così se entravi nella cantina dovevi appartenere per forza ad uno di questi tre gruppi, pena l’uscita dal retro:
– dovevi essere uno dei 12enni che avevano monopolizzato le pleistescion con PES;
– o dovevi far parte dei “Gun For Destruction”, il clan FPS più spietato dell’alto Salento, e dovevi giocare a Quake/Urban Terror/Mod-qualsiasi-di-quake-che-ci-stiamo-smaronando-con-il-gioco-originale;
– oppure dovevi giocare a World of Warcraft (se ho creato un anacronismo, sostituite WoW con un qualsiasi MMORPG, tanto per me sono tutti uguali).
Ovviamente, per evitare atteggiamenti infantili, io mi alleai con i dodicenni.
Un giorno, all’improvviso, entrò un tale nel centro: mocassini, pantaloni beige, camicia e occhiali da sole, un pro-gamer insospettabile travestito da manager. Guardandolo mentre volteggiava nella stanza, ricordai le parole che pronunciò mio nonno, sul letto di ospedale, prima di entrare in sala operatoria per un bypass cardiaco: ”Attento nipote, il Male si nasconde nel gregge e camuffa se stesso agli occhi degli altri; quando meno te lo aspetti, quei diavolacci di pecorai si avvicinano da dietro e …”. Mio nonno era la persona più saggia che avessi mai conosciuto.
L’uomo squadrò la stanza e si avvicinò a me con sorriso cordiale: “Ehi bello, come stai? Tutto a posto?”
Risposi guardingo: “Ehi Francè, tutto bene? Tutto a posto a casa?”
“Tutto bene, senti, ti va di fare una partita a Warcraft 3?”
Il mio cuore si fermò.
Ecco il mio passato che riaffiorava dall’oscurità, quel demone targato Blizzard si presentava ancora da me, richiedendo il conto di una vita giocosa passata tra Lan Party, dolori e gioie del multiplayer. Mi concentrai sui miei piedi per evitare che tremassero, alzai lo sguardo verso quell’uomo maledetto e gli risposi con un sorriso: “va bene”. Sapevo di aver passato il punto di non ritorno.
Ci accomodammo su due PC liberi e avviammo il gioco, mentre Francè settava le modalità e la mappa, vidi passare la mia vita davanti ai miei occhi, gustando una minima parte di tutte quelle fantastiche esperienze che avevo trascorso davanti a PC e PS1: io che giocavo a Sin, io che perdevo a Sin, io che modificavo le statistiche dei vari ISS Pro o Kick Off per creare uber Albanie in giro per memory card e hard disk di mezza Lecce, io che cercavo di installare BOTs in mod di Half-Life… e poi apparì quello sporco quarto d’ora di Starcaft; scossi la testa e mi concentrai sullo schermo: non sarebbe finita in quel modo, questa volta ero pronto, niente mi avrebbe fermato.
Dopo cinque minuti la schermata “Hai perso” invase lo schermo del monitor; a centimetri di distanza i miei occhi sbarrati facevano da specchio a quel messaggio di disfatta: ancora una volta il demone Blizzard mi dimostrò la sua cruda natura e la sua enorme potenza, non avrei mai potuto rivaleggiare con lui.
Salutai Francè con un malinconico: “Bella partita, ora devo andare, ci sentiamo domani” e lasciai lo scantinato sconfitto, distrutto e ormai senza una ragione per continuare.
Camera Mia, Italia, 2010.
Ogni campione è costretto ad una scelta, alla fine della sua carriera: tentare quell’ultimo combattimento e vincerlo contro ogni aspettativa o ritirarsi a vita privata, lasciando che i riflettori si posino su giovani pieni di spirito, tenacia e voglia di vincere.
Io personalmente scelsi la seconda opzione: abbandonai server e internet point per rifuggiarmi nell’anonimato del gioco multiplayer su console: come ogni campione, tentavo di ritrovare qualche fremito o qualche ricordo della mia vita passata. Tutto ciò purtroppo era difficile: casual gamer e voci pre-adolescenziali non offrivano né la competitività ne le soddisfazioni dei mostri sacri dei tempi passati, quindi mi dovevo accontentare di svogliate sessioni in cui vincevo a mani basse e con troppo distacco.
Ad un certo punto della serata un certo [iPWN] P00nHunter mi manda un messaggio, interrompo la partita a COD e lo leggo svogliato.
“Sono un moderatore Xbox e ti informo che stai per essere bannato per aver usato un controller custom con il fuoco automatico, arrivederci e buona giornata”.
Rabbia e delirio incominciarono ad impadronirsi di me, mentre alle mie spalle apparivano il mio angelo e il mio diavolo personali: alla mia destra Master Chief, con il fucile in mano, mi esortava a finire la partita corrente esortandomi con il suo proverbiale “Finish the Fight!” mentre alla mia sinistra Bobby Kotick, intento a contare i soldi strappati alla EA tramite una causa sui diritti di pubblicazione di Brutal Legend, mi spronava ad acquistare azioni Activision dato che presto avrebbe annunciato l’uscita di altri 4 titoli del franchise Call of Duty (compreso Cooking Warfare, il cui obbiettivo era sottrarre vendite ad un ben noto titolo di una ben nota azienda giappo).
Ignorai tutti e due i miei spiritelli e seguii P00nHunter in ogni partiva in cui entrava: lo seguivo e lo uccidevo, lo seguivo e mi dilettavo nel tea-bag del suo corpo inanimato, intaccando la sua volontà con messaggi di odio e di disprezzo. Lui cercò invano di chiedere pietà, implorandomi di lasciarlo e di continuare per la mia strada, ma io non desistetti e lo braccai per una mezz’ora intera, vincendo ogni scontro, vedendo il suo avatar cadere esanime ad ogni pressione del grilletto del mio pad.
Alla fine se ne andò disconnettendosi e io rilasciai la mia rabbia, appoggiai il mio controller modificato Auto-Fire e andai a letto, non dovevo cadere nella tentazione di tornare nell’arena, non potevo farlo: dovevo starmene qui, buono buono a rimurginare sul mio passato.
O forse no ?
Dark Void Zero
Prodotto da Capcom | Sviluppato da Other Ocean Interactive | Piattaforme PC, Xbox 360, PS3| Rilasciato nel 2010
La versione testata è quella PC
Naturalmente, un manoscritto. O, meglio, il codice di un videogioco mai pubblicato per il vecchio NES. Gli sviluppatori di Dark Void Zero copiano una tecnica letteraria condivisa da molti grandi autori per presentare il loro prodotto, venduto per diversi sistemi al prezzo di un paio di cappuccini con cornetto, affidandosi all’espediente della cartuccia ritrovata. Pensato come prodotto d’appoggio a Dark Void, la versione Zero, rigorosamente presentato in un 2D stile 8 bit, ha ottenuto lo strano risultato di oscurare la fama del fratello maggiore pur essendo tecnologicamente inferiore.
Potremmo metterci a cercare motivazioni nel fascino che i vecchi titoli ancora esercitano sui vecchi giocatori o nel fatto che Dark Void, quello 3D, faccia veramente schifo ai cammelli senza gobbe. Personalmente ritengo importante il fattore tempo a disposizione (ma non voglio che lo prendiate come una regola; è solo un appunto personale): Dark Void Zero si finisce in un’ora, offre una sfida difficile ma abbordabile ed è rigiocabile più volte essendo un titolo in cui conta soprattutto l’abilità.
Mettiamoci anche l’effetto nostalgia e il vedersi ripiombare indietro di qualche lustro e capirete perché siamo in molti a vedere di buon occhio operazioni del genere, che forse non aggiungono nulla al mondo dei videogiochi (in fondo Dark Void Zero è un platform con jetpack in cui bisogna esplorare tre livelli alla ricerca di pulsanti da premere e mostri da uccidere) ma che neppure pretendono nulla e che, quindi, non vanno a incanalarsi nell’odioso discorso di magnificazione tecnologica che accompagna l’uscita di tutti i titoli maggiori; e tutto questo pur provenendo da un publisher mainstream come Capcom.
A pensarci bene a piacere è anche la dimensione umana dell’intera produzione e la maggiore libertà realizzativa che ne consegue a livello ideale (che è anche una forma di libertà mentale per il giocatore, non stressato dalla necessità dell’evento), tanto da renderlo qualcosa di estemporaneo, anche se non originale, in un panorama stantio e asfittico come quello dei videogiochi tripla A.
Articolo già apparso su Babel 23