Players Podcast ep. 4 – Featuring Karat!!!

Come non segnalarvi un podcast di cui sono stato ospite? Se le stronzate che dico su Arsludicast non vi bastano, scaricate anche questo, ascoltatelo e sommate.

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In un episodio interlocutorio in attesa di una puntata con grossi ospiti in arrivo verso la metà di Aprile, Players si interroga sulla propria utenza. Feedback, commenti e discussioni sono il pane quotidiano di chi lavora con internet, allora perchè è così complesso instaurare un rapporto con l’utenza?

Partendo da uno spunto interno alla Redazione, andiamo ad esaminare la situazione di altre realtà, e discutiamo se e quanto sia importante sapere come l’utenza si interfaccia alle varie proposte – editoriali o meno – ai tempi di internet. Tempi in cui chiunque può dire quello che gli pare nel giro di pochi secondi e un paio di click.

In più, la consueta rubrica Players Roundtable, che vi presenta quello che stiamo leggendo/giocando/vedendo.

In streaming: http://www.playersmagazine.it/2012/03/30/players-podcast-episodio-4-discutere-su-internet/
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Gaming Effect Episodio 23

Sarà un episodio fortunato?
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Locandina episodio ventitré
remake sono ormai una presenza fissa sul mercato e il 2011 potrà essere ricordato come l’anno della riproposta in HD di numerosi titoli del passato.

Quali sono, però, i motivi che spingono una software house o un publisher a riproporre sul mercato titoli che ormai hanno alcuni anni sulle spalle, a volte con un degno trattamento e altre con un adattamento che può arrivare a snaturare l’opera originale?

Analizziamo il fenomeno, discutendo titoli per titolo quelli già disponibili, con un occhio di riguardo per ciò che ci aspetta nel corso del 2012.

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don’t take it personally, babe…

it just ain’t your story. Questo il titolo chilometrico, e volutamente scritto tutto in minuscolo, della Visual Novel pubblicata nel 2011 da Christine Love, forte dell’ottima accoglienza già riservata a Digital: a Love Story.

Dal passato recente, ci si sposta ad un futuro prossimo: è il 2027 e, mentre a Montreal hanno luogo proteste contro l’uso di potenziamenti cibernetici (no, un attimo, quello era un altro gioco), nella tranquilla città canadese di Lake City c’è un nuovo professore nel liceo privato locale: John Rook, un uomo che sulla soglia dei quarant’anni ha deciso di cambiare vita e darsi all’insegnamento. Si troverà in particolare ad avere a che fare con sette ragazzi e ragazze, con problemi e piccoli/grandi drammi annessi. A partire dal personaggio principale con un nome e un volto già definiti, l’impostazione è molto più vicina alle classiche VN, perdipiù in una cornice tecnica abbastanza scialba: i pochi disegni relativi ad eventi speciali, in particolare, sono piuttosto rozzi.

Dopo le prime battute di dialogo, però, appare l’elemento distintivo del gioco. Ufficialmente per prevenire fenomeni di cyber-bullismo, Rook ha accesso agli account dei suoi studenti nel social network in voga e può visualizzare i loro messaggi, pubblici e persino privati. Inutile dire che questa possibilità lo porterà a prendere più interesse nelle loro vite di quanto avesse preventivato. E qui risiede una prima falla di DTIPB: non è possibile evitare di leggere i messaggi. Se non lo si fa, ogni tanto il gioco si ferma e obbliga a consultarli prima di proseguire; la cosa diventa irritante quando tocca anche leggere delle discussioni su 12channel (un forum dove sono tutti “Anonymous”, ovviamente). Nell’ambito della storia svolgono una funzione metaforica, anticipando in modo criptico eventi successivi, ma non viene mai spiegato perché a Rook interessino in primo luogo, rendendole molto forzate.

Visto che la storia procede in ogni caso e che le scelte più oneste sono spesso quelle in cui Rook finge di non sapere niente, lasciare al giocatore più libertà avrebbe donato maggiore interesse a una storia che procede su binari ben definiti: gli eventi principali sono sempre gli stessi, mentre le proprie scelte determinano se alcuni altri avverranno o meno. Si può decidere di essere il più professionali e distaccati possibile o no, per esempio accettando le avance di una delle studentesse. Il cast è discretamente caratterizzato, donando una genuina sensazione di conoscere gli studenti solo parzialmente tramite la loro attività online e le ore di lezione, anche se l’intreccio è da soap opera e nessuno è esente dal rischio di rendersi molto antipatico; sono comunque possibili adolescenti di un futuro vicino, bambini nati oggi che cresceranno fra tecnologia onnipresente, linguaggio della rete che andrà a diventare parte di quello quotidiano, e social network, destinati a diventare un’estensione importante delle loro vite ma anche a rendere più forti i dubbi sulla loro pervasività, e in generale sulla privacy, in questa era.

Tutto quanto di interessante viene costruito nei primi capitoli, però, crolla nella parte finale. Come se non bastasse un colpo di scena assurdo (più che altro per la reazione fin troppo composta di Rook allo stesso), arriva un personaggio minore che spara un pistolotto della grazia e sottigliezza di una martellata. Christine Love non ha mai fatto capire se tale discorso rappresenti un’utopia da lei desiderata – nel qual caso, a parere di chi scrive, peccherebbe di gravissima ingenuità – o voglia invece causare una reazione negativa mostrando una distopia vicina e da evitare. Al di là di questa interpretazione diversi altri elementi, come alcuni punti in cui cade in contraddizione con elementi stabiliti in precedenza, e una discutibile visione del ruolo dei docenti, fanno comunque sì che l’ultimo capitolo caschi e non si rialzi più.

È evidente come Love, con don’t take it personally…, abbia voluto cimentarsi con troppe cose e troppo grosse, per di più realizzando tutto in un solo mese. Ha tuttavia il merito di avere toccato temi interessanti e di avere fatto discutere in abbondanza su di essi al momento dell’uscita, anche quando non li ha trattati nel migliore dei modi. Con i sempre utili tasti Ctrl e Tab per saltare testo già visto al primo giro, sperimentare tutte le possibili scelte e i tre finali non richiede più di 3-4 ore, quindi l’esperienza è consigliata in ogni caso, per farsi una idea propria.

Per quanto non sia necessario avere installato e giocato Digital prima di DTIPB, farlo non solo permetterà di apprezzare i vari richiami, ma causerà un Easter Egg che coglierà sicuramente di sorpresa.

 

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Journey

Sviluppato da Thatgamecompany | Pubblicato da Sony Computer Entertainment | Piattaforma PS3 | Uscito nel marzo 2012

Non è pretenziosamente artistico come Superbrothers: Sword & Sorcery, non è ludicamente immaturo come i titoli di Tale of Tales, nessuno si è sciroppato pipponi esistenziali pre o post lancio per Journey e forse, proprio per questo, riesce molto più efficace di quella accozzaglia male assortita di giochi artistici che prima te lo dicono così poi ci credi.

Journey non prova ad essere arte, non annichilisce la razionalità con barocche verbosità testuali a malapena comprensibili o con sbilenche inquadrature postmoderne. Journey è un mondo di fantasia con delle regole di interazione ben determinate e chiare (si, ce l’ho con te The Path) che riesce a comunicare con il giocatore senza ambiguità e inutili abominazioni ludiche (e qui cade Sword & Sorcery).

Thatgamecompany è attentissima a non rendere mai il videogiocatore uno spettatore passivo, un difetto assai comune tra i giochi col piglio artistico. Il gioco piega al volere del giocatore tutto quello che c’è: cutscene, musica, ambienti, tutto segue l’avatar e non lo estromette mai dalla sua centralità, instaurando da subito un rapporto molto intenso. In quello che fa Thatgamecompany non c’è mai l’individualismo figlio di Facebook che bazzica presso certe sterili correnti dello sviluppo Indie: c’è mestiere, umiltà e professionismo. C’è una profonda presa di coscienza che arte, tecnica, multimedialità e creatività sono un tutt’uno, hanno tutte il loro peso e solo un’ottima coesione di queste componenti può evitarti di sconfinare nel genere dei DVD da sala d’aspetto. È un lavoro di squadra, non il parto di un ambiziosi praticoni senza mestiere.

Journey esce così bene dal suo essere perfetto, una giusta commistione di interazione, musica ed estetismo, da non avere bisogno di una chiave di lettura. C’è chi ci vede la parabola della vita umana, chi quella della ricerca del significato della religione, chi una sarcastica, quanto diabolica, parabola del maschile che affronta mille prove per giungere al femminile. Un ulteriore fregio di maturità, come in Flow e Flower, è quello di non fornire un’interpretazione prefabbricata ad uso e consumo degli utenti che si illudono di essere i prescelti dal verbo (e quindi migliori). Non ce n’è bisogno perché un videogioco, in quanto interattivo e dinamico, non sempre ha bisogno di avere una rassicurante sinossi in cui incastonare a posteriori le esperienze che si faranno. Per quello c’è il cinema di David Lynch, qui ci si crea la propria esperienza così come viene.

Non si muore, non c’è punteggio (o forse sì: dipende dal significato che darete alla sciarpa), non ci sono livelli eppure il suo mondo semplice ma al tempo stesso complesso ti fa emozionare, divertire ed esplorare con una intensità piuttosto rara per gli standard odierni. Ci sono sequenze in cui la ricerca del dettaglio è palese, eppure non è mai offensiva verso l’intelligenza dell’utente, che non viene mai messo da parte per glorificare l’idea o l’ideatore.

Journey è anche unottima esperienza musicale, con temi che si intrecciano in base alle vostre azioni, che reagiscono al contesto, che donano consistenza al deserto visionario e alle rovine titaniche che il nostro avatar si troverà a percorrere.

Thatgamecompany ha anche dato una sua personalissima visione del multiplayer: nel cammino si incontreranno altri viandanti, apparentemente anonimi (in realtà ognuno ha un ideogramma assolutamente distintivo) con cui condividere il viaggio ed i pericoli. A fine viaggio (e solo allora) ad ogni ideogramma sarà associato anche il nome dell’utente PSN e potrete contattarli per condividere impressioni sulla vostra avventura.

Il gioco è molto breve (circa tre ore) ma si presta ad essere rigiocato più volte, perché ogni capitolo può essere affrontato in più modi. Il gioco mette a disposizione delle sfide (trovare oggetti, raggiungere un obiettivo apparentemente irraggiungibile) che vi faranno tornare più volte sui vostri passi, anche perché ogni capitolo è accessibile (e anche qui il come la dice lunga tra dilettanti e professionisti del genere) individualmente dopo aver completato il cammino almeno una volta, minimizzando il tempo sprecato tra i vari replay ma perdendo molto dell’esperienza progressiva che dà il gioco nella sua interezza.

Digital: a Love Story

Prima che Katawa Shoujo terminasse il suo lungo sviluppo, la palma delle Visual Novel occidentali che avevano ottenuto un certo richiamo apparteneva ai lavori di Christine Love. Per quanto non fosse la prima volta che si cimentava con Ren’Py, tool specifico per la creazione di questi giochi (meglio non entrare nella questione di quanto lo siano o meno), la notorietà è arrivata nel 2010 con Digital: a Love Story, che si distingue da qualsiasi altra produzione analoga per l’originale impostazione visiva, che va a condizionare anche quella narrativa.

L’intera vicenda si svolge di fronte al monitor di un immaginario computer della Amie Microsystems, ovviamente ispirato all’Amiga, con tanto di workbench e scanlines (disattivabili), nell’anno 1988. In un’epoca dove il numero di utenti connessi all’allora nascente Internet si contava al massimo sulle migliaia e dove gli strumenti e i programmi per accedervi erano limitati, molte delle comunicazioni e scambio di informazioni si dovevano alle BBS, che giocano quindi un ruolo centrale in Digital, con schermate in grafica ANSI che rievocano con ancora più forza la nostalgia per quel periodo pionieristico – anche se dopo un po’ odierete a morte il suono di quel modem telefonico, fortuna che basta un clic sulla finestrella “now dialing” per tagliar corto.

Il protagonista, ovvero il giocatore (o giocatrice: il sesso della persona che si interpreta è intenzionalmente senza importanza), si diverte a girare per BBS mentre scambia messaggi con una certa Emilia, un contatto online con la quale, al momento in cui inizia la storia, si capisce stia nascendo qualcosa di più che amicizia, nonostante non sappia neppure che volto abbia. Tuttavia, proprio in un momento cruciale, l’intera BBS locale salta; la ricerca di Emilia porterà a scoprire come quel down sia parte di qualcosa di molto più grosso, senza però schiodarsi mai dal monitor. La vicenda trae anche ispirazione da un evento che scosse l’allora giovane Rete proprio nel 1988, ma parlarne costituirebbe già uno spoiler. Bisogna connettersi a varie BBS per poter ricevere e inviare messaggi, e ottenere così le informazioni e i programmi necessari a proseguire. Un blocco note memorizza in modo automatico tutti i numeri e le password utili per una consultazione rapida, anche se restano preferibili le buone vecchie carta e penna.

L’interfaccia, passata la prima sorpresa nostalgica, si rivela un po’ scomoda vista l’impossibilità di spostare le finestre, che possono finire per sovrapporsi e coprire quelle utili. Ci si troverà spesso a vagare per le BBS sperando di innescare un evento che porterà avanti le cose. Fatta l’abitudine, comunque, il punto più debole è la storia d’amore del titolo: troppo poco tempo viene speso per conoscere Emilia prima che le cose precipitino, perché ci importi davvero di lei; la breve durata, altrimenti utile a non trascinare le cose, in questo caso è deleteria. Per fortuna il resto è abbastanza interessante, a tratti persino avvincente, tanto che avrebbe potuto funzionare senza essere incentrato così pesantemente su Emilia.

Non è pienamente riuscito, ma Digital resta un ottimo esperimento per andare oltre i tipici schemi del genere. Aiuta il fatto che non pretende di andare a toccare temi pesanti o delicati quando non si possiede la capacità di maneggiarli al meglio, errore che Love ha commesso nei (pur interessanti) lavori successivi.

 

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ArsLudicast 212: Complessi di Inferiorità

C’è chi vorrebbe vedere i videogiochi come un media maturo, ma la dura realtà ci mostra un’industria che fa fatica a svincolarsi dai desideri dei fan, dai bisogni commerciali e da una critica inesistente quando non deleteria.

Che speranze hanno i videogiochi? Perché continuano ad imitare i film, invece di diventare un vero e proprio media interattivo? La speranza è tra gli indipendenti o tra i nomi famosi che vengono liquidati dalle software house per l’incapacità di evolvere? Quanta speranza ha quel ramo dell’industria che, chiedendo l’elemosina ai fan, si incatena ancora più delle aziende mainstream nel circolo vizioso dell’appagamento di fanboy viziati?

Al microsofono Matteo Anelli, Vittorio Bonzi, Simone Tagliaferri, Alessandro Monopoli e Rudin Peshkopia.

Vi ricordiamo che se volete assistere come ospiti al podcastproporre un argomento di discussione o, perché no?, proporre un arrangiamento al Monopoli, potete farlo contattandoci a: arsludicast@arsludica.org o redazione@arsludica.org, oppure utilizzando l’apposito thread sul forum!

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Brano in Apertura:
Game of Thrones Theme, di Ramin Djawadi, arrangiato ed eseguito da Alessandro Monopoli.

Brano in Chiusura:
Song of the Ancients Devola (Nier), di Keiichi Okabe.