Ciò che ci rende videogiocatori è un’idea eterea, un rapporto morboso e patologico tra noi e quello che accade al di là di uno dei tanti schermi possibili. Muovo lo stick verso destra e il personaggio si gira verso destra. È logico pensare in questo modo. In qualsiasi videogioco muovendo lo stick verso destra qualcosa si deve spostare verso destra (o ruotare o fare altro… ma sempre in quella direzione), così come muovendolo verso l’alto qualcosa deve compiere un movimento in avanti o all’insù (astronavebiondomuscolosoantieroesparaparolaccedonninasexypocovestitaautovetturasportivaconturboincorporato… Fate voi…). Ad ogni movimento leghiamo una serie di reazioni possibili che anni di esperienza con questo medium ci hanno insegnato a considerare come naturali. Naturali? Che pessima parola. Diciamo che la nostra immaginazione ludica non può prescindere da questi schemi, logici quanto convenzionali. Mi sembra fin troppo scontrato dire che, tranne in alcuni casi specifici in cui alcuni schemi subiscono delle variazioni (ad esempio il ribaltamento dell’asse Y nei simulatori di volo), dovute ad esigenze particolari che di solito hanno a che fare con la verosimiglianza, lo schema mentale convenzionale condiviso viene sempre rispettato.
Non preferisco God of War a Onimusha (ad esempio) per una semplice questione estetica. In entrambi, trovandomi un nemico sulla destra, sposterò la levetta del joypad in quella direzione e premerò il tasto attacco per colpirlo con l’arma a disposizione. Non ho bisogno di abilità particolari per eseguire quest’azione e l’azione è sostanzialmente identica in entrambi i giochi. Quello che cambia è il risultato percettivo. Da God of War ottengo un output più soddisfacente che mi porta a preferirlo all’altro. Ovviamente la questione non è così semplice. Il concatenarsi di input e di output crea un ritmo preciso in ogni gioco. Serious Sam (uno qualsiasi) ha un ritmo differente rispetto a Doom 3, pur appartenendo entrambi allo stesso genere e richiedendo al giocatore di compiere le stesse azioni. La discriminante è sempre la stessa: non tanto quello che devo fare, ma quello che ottengo “facendo”. Se la risposta percettiva, se l’idea, l’illusione suscitata dal gioco riesce ad essere soddisfacente, allora posso andare avanti dando un senso all’atto stesso del videogiocare. Ovviamente in questo discorso entrano in campo mille variabili differenti, che partono dall’aspettativa stessa del giocatore toccano il suo background culturale (sia generale che specifico) e arrivano a considerazioni di tipo maggiormente sociale. Vedrò di tornarci sopra nei successivi articoli.
Pensa a quello che succederà con il controller del Revolution.
Certo, l’impostazione è la stessa (invece del solo dito, sposti la mano) ma la percezione che abbiano dovrebbe essere più naturale, in fondo spostare una leva analogica non equivale a spostare una spada, ad esempio.
Ma con un intero pad…
Spadaaaaaa :-Q__________
Mica c’avevo pensato, io -_-”’