Prodotto e sviluppato da Future Games | Piattaforma PC | Rilasciato nel settembre 2004
Nelle avventure più recenti sembra essere in voga il fatto di utilizzare “oggetti antichi”. In Runaway (Pendulo Studios) il giocatore non fa altro che trovare oggetti vecchi, cianfrusaglie dimenticate, per poi rispolverarli e riutilizzarli in maniera nuova e originale. Anche i protagonisti di Syberia e Amerzone (Benoit Sokal, Ubisoft) seguono le tappe e le orme di un viaggio antico, di un sogno già fatto da qualcun’altro, lasciato in sospeso per anni e poi ripreso di colpo. Sono dipendenti da oggetti e macchinari più vecchi di loro, macchinari che sono ostacoli che il giocatore deve ritrasformare in mezzi utili e indispensabili per il suo viaggio. La stessa saga di Myst fonda tutta la sua filosofia su questa meccanica dell’antico oggetto ostacolo/mezzo, dando al giocatore il compito di effettuare il passaggio tra due fasi. In tutti questi giochi, il viaggio, la trasformazione degli oggetti, fanno quasi parte della atmosfera onirica, del sogno che può essere inteso anche come obbiettivo da raggiungere (l’isola dei Mammut, oppure la montagna degli uccelli bianchi). Anche Black Mirror si basa su questa struttura ma, a differenza dei giochi citati, il tutto assume un’identità da incubo più che da sogno. Il giocatore è continuamente immerso dall’antico, tanto che non sembrano esistere locazioni moderne; tutto è vecchio, gotico, ancestrale, quasi minaccioso. Non a caso una delle prime locazioni che si visitano è l’ala del castello in rovina, dove tutto sembra precario, dove tutto il vecchiume delle pareti sembra perennemente in procinto di cadere, dove persino i muri sembrano una minaccia. Ecco, le locazioni di BM sono così, luoghi vecchi, non rassicuranti, luoghi oscuri, e anche i giardini deserti danno una sensazione di minaccia.
L’oggetto antico arriva anche qui, dai più semplici oggetti dell’inventario (vecchi libri, macchine fotografiche dell’anteguerra, pezzi del gioco degli scacchi…) fino ai macchinari sotterrati nelle catacombe, nelle chiese, nelle cripte. Ancora più minacciosi i macchinari che custodiscono non più frammenti di sogni, ma frammenti di incubi, di vecchie maledizioni, e di segreti che dovrebbero rimanere tali. E tutta la minaccia si concretizza nella possibile morte del protagonista (usanza quasi persa nel campo delle avventure grafiche), poco importa che questa morte sopraggiunga in maniera quasi casuale (basta un’azione ingenua per morire), tutto fa parte dell’incubo nel quale si è immersi. Anche qui il protagonista ripercorre un viaggio, un incubo fatto da qualcuno prima di lui, e percorre tappe ancora più antiche.
Qualche mese fa, su TGM, Dario Ronzoni scriveva in uno speciale sulle avventure grafiche: “Passati i tempi dell’ironia, dell’erotismo, dei puzzle cervellotici, la nuova frontiera delle avventure sembra risiedere nell’analisi dell’animo umano”; ed è vero, infatti se in Syberia il giocatore non fa altro che guidare Kate Walker nella scoperta dei suoi desideri reconditi, in BM il giocatore accompagna Samuel Gordon, nell’abisso del suo io, nelle tombe dei suoi antenati cosi somiglianti a lui, nei meandri del suo passato.
Ma c’è forse qualcosa che non funziona in ciò? Il problema è proprio che funziona tutto troppo bene, la trama fila liscia e lineare, i meccanismi per quanto vecchi non si inceppano, funzionano ancora. Siamo qui, non abbiamo scelta se non quella di affrontare un incubo o un sogno di qualcun altro. Come i protagonisti, anche i giocatori seguono un percorso a tappe senza la libertà di sgarrare, di non avere un ordine; tutto va affrontato in sequenza e anche l’interfaccia, costituita da un semplice puntatore forma di punta di lancia, non cambia se non nel colore rosso (un richiamo all’inevitabilità della violenza?). Cosa c’è che non funziona in BM? Niente, neanche il finale: semplice, immediato, rozzo e spiazzante, come le trappole che uccidono il protagonista poco prudente, quasi che queste morti non fossero altro che molteplici finali alternativi a quello alla fine dell’incubo, e credetemi se vi dico che alla fin fine sono la stessa cosa.