All’aria aperta

Dal catalogo: “World Press Photo 2008”, edito in Italia da contrasto:

In alcuni stati americani la legge consente ai bambini di età inferiore ai 12 anni di cacciare, se accompagnati da un adulto in possesso di licenza. Tra le prede ammesse, tacchini e altri uccelli, conigli e piccoli mammiferi nonché cervi di una certa altezza. L’abolizione dei limiti di età nella caccia è il risultato delle campagne condotte da alcune organizzazioni di attività all’aria aperta che mirano a creare opportunità affinché i ragazzi scoprano già in giovane età attività ricreative diverse dai giochi al computer (immagino questo vada interpretato come videogiochi in generale e non solo al PC ndST).

Vai in giro per mostre fotografiche a Lucca e ti imbatti in un reportage di Erika Larsen con cui ha vinto un premio del World Press Photo 2008 (quest’anno ho visto la mostra un po’ in ritardo, purtroppo).

Ci vedi dentro ragazzini vestiti da cacciatori, con armi da fuoco e prede morte tra le mani. Dietro hanno paesaggi freddi, quasi glaciali. Guardando le foto i videogiochi non ti vengono in mente. Poi leggi la nota descrittiva e un po’ ti inquieti perché c’è un’irruzione inaspettata e il senso di quello che stai guardando cambia radicalmente. All’inizio ti passano per la testa soltanto riflessioni retoriche e quindi decidi di tenertele e non trascriverle per decenza. Poi concepisci qualcosa di più complesso ma ti rendi conto che quelli che stanno guardando la mostra con te difficilmente ti potrebbe capire. Loro non sono, probabilmente, dei videogiocatori incalliti e stanno leggendo le foto in modo completamente diverso dal tuo. Allora ti tieni il senso di leggera angoscia e te lo porti dietro immaginando, come fosse un morphing, il passaggio tra lo sparare in un mondo virtuale e lo sparare nel mondo reale e di come qualcuno preferisca il secondo al primo. Immagini quei bambini alzare un fucile vero e fare fuoco per abbattere un cervo con il compiacimento di chi li ha armati. La retorica torna a rimbalzarti in testa, quasi non le resisti perché un po’ non te ne frega niente, un po’ vorresti sbottare. Poi ti accorgi che la mostra ti ha offerto foto migliori, ma per motivi tutti tuoi queste sono quelle su cui ti sei soffermato di più e, soprattutto, che i sorrisi compiaciuti di quegli angioletti in guerra ti riguardano direttamente e, in un certo senso, la loro esistenza ti giudica.

Foto di: Erika Larsen

Lotta continua (reprise)

Ho letto tutti i commenti di questo post e mi è venuta voglia di rispondere a un bel po’ di persone. Ma la vita è breve e ho deciso di dedicare all’argomento un altro post più generale, così da alimentare ulteriormente il dibattito e da fare felice chi afferma che su Ars Ludica si stanno scrivendo troppi post anti-casual (questa non è neanche troppo sottile)…

Il fatto che il post linkato non fosse un post anti-casual, antropologicamente intesi, non andrebbe neanche specificato. Era un post contro una certa visione dei videogiochi, che non corrisponde esclusivamente con quella di chi preferisce i videogiochi passatempo (o time wasting, per dirla all’ammeregana) a quelli più impegnati (mai parlato di FPS o avventure grafiche in quel post… almeno non nello specifico).

Ora, il problema non è Giulia Passione per qualsiasi cosa in sé e il suo contraltare, qualitativamente parlando, non è certo Crysis. Anzi, forse il secondo è meno profondo per certi aspetti… Ma cerchiamo di essere seri. Il problema sollevato dal post era quello di capire come vuole proporsi l’industria dei videogiochi e se ci tiene veramente ad andare oltre lo stereotipo di produttrice di giocattoli tecnologici. L’arte non era neanche citata nel testo perché la ritengo poco interessante per il discorso e perché sinceramente parlare d’arte inerentemente ai videogiochi non ha senso se non si capisce cosa vogliono gli utenti stessi.

Non per niente il primo videogioco della storia fu un casual game, a volerlo ridurre alle categorie oggi più in voga, ovvero una simulazione di scacchi: interfaccia semplice, poche regole, ma una grande complessità di fondo. Ecco, ritengo che un buon casual game sia quello che ha una grande complessità di fondo, nonostante la semplicità ostentata.

Prendiamo ad esempio il casual game per antonomasia: Tetris. Sei pezzi da combinare per creare e abbattere delle linee orizzontali, cercando di non far riempire il pozzo di gioco pena il game over. Semplice, lineare, molto diretto, alla portata di tutti, ma non per questo poco profondo nel suo svolgersi, a prescindere delle configurazioni cosmetiche.

Ecco, non contesto la meccanica dei casual game in sé, ma se mi viene permesso, vorrei contestare l’immagine che l’industria sta dando di sé. Da una parte abbiamo dei prodotti con cagnolini scodinzolanti da accudire, bebè a cui cambiare il pannolino e Giulie da traghettare oltre l’amplesso. Dall’altra parte abbiamo personaggi iperormonizzati che fanno i fighi in ogni occasione e che si prendono fin troppo sul serio, cercando di sostituire le polluzioni notturne degli utenti (oppure vogliamo parlare di eserciti che si scontrano in modo assurdo seguendo meccaniche sempre identiche da anni… perché no? Ma, soprattutto, perché pretendete che siano sempre gli altri a farlo?).

Nel mezzo c’è un limbo.

L’opinione pubblica contesta il secondo modello, non certo migliore del primo in quanto a immaginario, ma sicuramente più appariscente in senso negativo, ovvero potrei affermare che si tratta dell’altra faccia della medaglia: dei giocattoli per maschi che vogliono sentirsi maschi non dissimili dai giocattoli con cui si fa impersonare una mammina a una bambina. È un po’ la distinzione di genere che esiste tra il giocare con i soldatini e il giocare con le bambole.

Quello che contestavo nell’articolo precedente è questo aver ridotto (o non aver mai provato a sollevare da) i videogiochi al livello intellettuale di giocattoli per bambini, siano essi Picross o Gears of War 2. Qualche eccezione c’è, ed è a esse che si lega la speranza non tanto di una svolta dell’industria, quanto che si presentino di tanto in tanto altre eccezioni intorno a cui costruire qualcosa di diverso.

Dead Space

Sviluppato da EA Redwood Studios | Pubblicato da Electronic Arts | Piattaforme Xbox 360, PS3 (versione testata), PC | Rilasciato nell’Ottobre 2008

Brutta, la vita di un ingegnere. Sbattuto qua e là dai propri colleghi, trattato come uno zerbino dai propri superiori, spedito in trasferte di lavoro a distanza di anni luce. Isaac Clarke è un ingegnere, uno talmente frustrato dal suo lavoro e dal fatto che non scopa da mesi che ha letteralmente perso il dono della parola, e si limita semplicemente ad obbedire ed eseguire qualsiasi ordine e richiesta gli vengano dati. Isaac, poveraccio. Il suo ultimo incarico lo ha portato a far parte di una piccola spedizione che aveva il compito di offrire manutenzione ad una nave spaziale mineraria, la USG Ishimura. Fortuna vuole che a bordo della nave ci sia la sua dolce metà. Sfortuna vuole che la suddetta nave abbia più di un semplice problemino di manutenzione, ma che sia occupata da qualche forma di vita non esattamente ospitale.

E’ l’incipit di Dead Space, shooter-survival horror targato EA e sviluppato dagli studi di Redwood. read more

Lotta continua

Tanti anni a lottare per cercare di far capire al mondo che i videogiochi non sono soltanto roba da bambini e che non sono la causa di ogni atto di violenza giovanile, tanti anni passati alla ricerca di un modo per valorizzarli, cercando di definirne quel qualcosa in più che non si vede, quel sotteso pieno di potenzialità che non viene sfruttato e… arriva la Nintendo a sputtanarti tutto.
Le line up natalizie di Wii e DS sono da brividi. Entrare in un negozio di videogiochi e guardare la parete dedicata a una delle due console mette l’angoscia. È tutto un accudire cani/gatti/bambini/cavallette, un cucinare con passione e un risolvere puzzle che, spendendo 1/50, si trovano in formato cartaceo dentro qualsiasi pubblicazione di enigmistica. Il Nintendo DS si salva solo grazie a qualche remake di titoli storici, mentre il Wii fatica ancora a trovare un senso alla sua esistenza ludica (ovvero l’ha trovato… è che noi speriamo ancora possa cambiare). Ma queste sono lamentele da comari…

Il problema vero è che le due console Nintendo hanno fatto fare all’industria un bel salto all’indietro, almeno dal punto di vista strettamente ideologico. Se la prima PlayStation era guidata dal concetto di videogioco come esperienza e la seconda aveva mantenuto la stessa filosofia (inseguita dall’Xbox), l’ultima generazione di console sta riaffermando un concetto vecchissimo che di rivoluzionario non ha proprio nulla, dato che è lo stesso con cui la nonna N vendette il NES risollevando l’industria nella metà degli anni 80: il videogioco è un giocattolo e il suo pubblico d’elezione è il bambino… al massimo il nonno che gioca con il bambino… e al massimo la mamma che vuole dimagrire o sentirsi mentalmente giovane (notate che il papà è quasi escluso da questa visione del marketing… in effetti non esistono giochi tipo, non so, Giulio Passione Calcio o Monta il tuo Elicottero e Vivi Felice Dimagrendo).

Dopo una lotta invero neanche tanto strenua, schiacciati dai costi di produzione dei giochi, arrivati a livelli folli, e vista la via scelta dal mercato (che sta premiando la filosofia della Nintendo), anche la Microsoft questo Natale sta cercando di vendere la sua console alle famiglie, travestendola da oggetto per tutti, con cui riunirsi davanti al caminetto in allegria cantando con Lips. Fortunatamente, a differenza delle console Nintendo, non mancano giochi più “seri” (passatemi il termine, anche se non mi piace affatto), ma il degrado è evidente e il balzo all’indietro è notevole.

Anzi, forse in questo modo sarà più facile sdoganare i videogiochi (ma ce n’è ancora così tanto bisogno? Qualcuno crede veramente che i critici si placheranno?), ma il rischio è che il risultato si raggiungerà dopo averli fatti diventare “intellettualmente innocui”, ovvero dopo averli privati di buona parte della loro natura.