Prodotto da Blizzard Entertainment | Sviluppato da Blizzard North | Piattaforma PC | Pubblicato nel giugno 2000
Tanto le grandi opere, quanto i risultati modesti frutto di lungo impegno e dedizione, portano con sé, costantemente, l’ombra dell’inutilità. Vale a dire la consapevolezza, od almeno il dubbio, della sproporzione tra l’attenzione assiduamente riposta e l’importanza, per noi, del risultato finale. Si dice che il capomastro che diresse la costruzione della piramide di Micerino, una volta terminati i lavori, avesse confidato al faraone il suo cruccio “Ora, che diamine dovremmo farcene?”. Il faraone non gradì, e lo fece sbranare dai coccodrilli del Nilo.
Lo stesso discorso si applica ad un videogioco come Diablo 2. Superato il primo impatto ed arrivati, nemico dopo nemico, atto dopo atto, allo svisceramento completo, esiste un’unica domanda intelligente che possiamo porci: vale o meno la pena di essere giocato? Quale sia la classe migliore da scegliere, le abilità da potenziare od il set di oggetti più pregiati sono, in confronto, problemi del tutto superflui. Anzi, fuorvianti.
La risposta sembra scontata. Alla base del gioco c’è sic et simpliciter il divertimento ed esso è un’esperienza del tutto legittima che vale la pena di essere vissuta, per motivi più che ovvi. Prova diretta del divertimento è la longevità, e D2, nonostante i non pochi anni passati dalla sua pubblicazione, mantiene ancora oggi una longevità ed una comunità di giocatori ed affezionati impressionanti. Questo nonostante un’assoluta linearità non solo del gameplay ma del concetto stesso che sta alla base di tutto l’impianto e che possiamo sintetizzare così: il giocatore uccide i nemici –> incassa i punti esperienza e magari passa di livello –> raccoglie oro ed oggetti –> compra ciò di cui ha bisogno vendendo il superfluo. L’esperienza ludica sta nel reiterare continuamente questo ciclo ed il software è studiato in modo tale da facilitare in questo il giocatore, a discapito di ogni pretesa particolare di originalità o credibilità. La trama è, nella sua banalità, un puro pretesto affinché il personaggio faccia proseguire la scia di sangue e persino il respawn (la ricomparsa casuale dei nemici già uccisi) risulta per nulla fastidioso, anzi funzionale al tutto. Una piattezza sottolineata dal fatto che nella stragrande maggioranza dei casi (tranne cioè che ai livelli massimi di difficoltà) non è richiesto al giocatore di sviluppare alcuna tecnica particolare, sia dal punto di vista psicomotorio (come negli FPS) che da quello tattico-strategico.
Quella del semplice “divertimento” è quindi una spiegazione poco soddisfacente, perché vago è il concetto stesso di divertimento (tanto più in questo caso) e la natura monotona del gioco ci porta a metterne in dubbio anche la possibilità. Riformuliamo quindi la domanda iniziale chiedendoci a questo punto in che cosa consiste il divertimento: che cos’è che effettivamente spinge a giocare, ma soprattutto rigiocare un titolo del genere. Tralasciamo tra l’altro, il discorso multiplayer (dove ancora molto di più ci sarebbe da dire), e concentriamoci invece sulla versione tradizionale, dove gli unici due attori sono il giocatore umano da un lato ed il software dall’altro.
Partiamo dal fatto che quello che in maniera un po’ aleatoria definiamo “divertimento” è in realtà un insieme poco chiaro di stimoli diversi, impulsi atavici ed interessi che il software è programmato per far affiorare nel giocatore e che permettono un numero indefinito di ripetizioni del ciclo di cui sopra. Questo è possibile considerando il tipo di interazione che avviene tra giocatore – personaggio – videogioco: essa non segue un’unica direzione. In un senso, il giocatore guida il personaggio il quale interagisce con il contesto presentato dal videogioco. Allo stesso tempo però, il videogioco è in grado di influenzare il giocatore, agendo sul personaggio (che resta pur sempre una sua creazione) e sfruttando la partecipazione, anche emotiva, che il giocatore è naturalmente portato a sviluppare. Ne sono prova i sentimenti di soddisfazione, rabbia o anche frustrazione che sorgono durante l’esperienza videoludica. Quel seppur breve ingiustificato sentimento di rabbia (meraviglia o sconforto) che si prova alla morte del proprio personaggio è una forma di “ingenuità” che mostra come il giocatore, pur senza immedesimarsi direttamente nel ruolo del suo personaggio, non è emotivamente impermeabile, ma anzi si lascia facilmente trasportare ed influenzare dagli stimoli che il software invia alla sua coscienza.
Il primo istinto su cui D2 fa leva è quello dell’accumulazione, l’ambizione umana dell’arricchimento (sia esso in vista di uno scopo o fine a sé). Vengono ripresentate tutte le situazioni e gli archetipi che nell’immaginario collettivo ricolleghiamo fin dall’infanzia al concetto di ricchezza: monete d’oro luccicanti, forzieri, cripte abbandonate, tombe profanate o profanabili, gemme di ogni fattura. Rispetto ai miti tradizionali che vogliono la raccolta del bottino come coronamento di uno scontro all’ultimo sangue tra l’eroe ed il custode di turno (il vecchio drago sputa fuoco od il feroce predone del deserto) in D2 i tempi sono molto più ristretti. L’oro è, in maniera ridicola, ovunque: dentro forzieri incustoditi e casualmente disposti nella mappa, sotto le rocce o addirittura sparso sul pavimento di improbabili dungeons. Nel caso di D2 l’obiettivo non sono la prova ed il suo superamento, ma la ricompensa in sé. Tanto più allora gli oggetti saranno unici ed altisonanti, tanto più gli avversari miseri ed anonimi. I nemici che vengono così facilmente sconfitti dal personaggio sono il “pretesto interattivo” con cui il videogioco sollecita nella coscienza del giocatore l’istinto all’accumulazione, usando come stimolo la ricompensa.
Il concetto di eroe che si evince da questo gioco ne rivela l’impostazione. Esso non ricalca più l’archetipo classico, il quale, secondo la tradizione agisce in vista di uno scopo ben preciso ed a lui in qualche misura estraneo: la liberazione di un personaggio rapito, la sconfitta di una minaccia per l’umanità, l’uccisione dell’acerrimo nemico. L’impostazione assolutamente egocentrica di D2 mette in ombra ogni figura che sia “altro” rispetto al protagonista. Egli è l’alfa e l’omega dell’esperienza ludica: tutto il resto è funzionale alla sua crescita ed al suo miglioramento. L’avatar dismette i panni dell’eroe senza macchia per diventare a suo modo capitalista: il suo ruolo non è sconfiggerne il nemico, ma ottenerne l’esperienza necessaria per passare di livello. Si combatte contro Diablo non con il desiderio di sconfiggerlo, ma con la curiosità di sapere quali oggetti lascerà sul campo e la bramosia di farli propri.
L’accumulazione non si riferisce esclusivamente all’oro ed alla ricchezza, ma anche ad ogni altro corrispettivo materiale oggetto di desiderio. Ai fini del gioco, l’equipaggiamento. Questi oggetti (armi ed armature magiche che incrementano le abilità del personaggio) fomentano l’accumulazione ma partecipano anche ad un istinto atavico del giocatore, quello del perfezionamento: l’ambizione al miglioramento mescolata alla soddisfazione per l’accrescimento della propria potenza. Combustibile del perfezionamento dell’avatar sono i punti esperienza e la soddisfazione per il miglioramento delle proprie abilità è causa di quel attaccamento maniacale al “passaggio di livello” che qualunque giocatore incallito di D2 mostra con l’andare avanti del tempo.
Lo scopo del software è rendere più longeva possibile l’esperienza di gioco e stimolare il giocatore a continuare la reiterazione del ciclo. Esso è quindi studiato in modo da pungolare continuamente la brama di accumulazione e di perfezionamento (qualcuno direbbe la volontà di potenza) del giocatore: continuamente lo gratifica e lo appaga, dandogli nuovi spunti per potersi poi nuovamente realizzare. Mette sotto il suo naso armi potentissime, ma difficili da trovare oppure gli mostra nuove abilità di combattimento raggiungibili superando una certa soglia di livelli di esperienza, soglia che tende ad alzarsi sempre di più.
Cos’è quindi il divertimento in un videogioco di questo tipo? Il vecchio sistema del compito e del premio, per quanto rinnovato da una patina videoludica. Finché il computer resta acceso, il giocatore è passivamente succube del software (ribaltando l’idea classica del rapporto uomo – macchina), in altri termini è piuttosto vittima che artefice di qualcosa. Vale la pena di essere giocato? Ammetto come la domanda fosse una provocazione. Il punto è piuttosto capire che il gioco è uno strumento di onanismo. Né più né meno. Al prezzo di qualche decina di euro, è in grado di concedere qualche soddisfazione dandogli in pasto tempo, attenzioni e partecipazione. Entusiasmi e gratificazioni però aleatorie, che iniziano e finiscono dentro al monitor e di cui, al giocatore, non resta nulla.