Corto è bello?

GOW-PaywarePortal ha riportato in auge un discorso aperto mesi fa da Major Nelson (quando ancora non aveva dovuto ricorrere alla chirurgia plastica per farsi togliere i tatuaggi) circa la reale importanza della longevità nei futuri giochi. In realtà, quei discorsi parlavano di longevità ma intendevano durata. Bisogna sempre ricordare che essi sono due aspetti del tutto distinti e scollegati. Portal è un gioco breve ma, essendo essenzialmente un puzzle game con pochissimi enigmi, anche poco longevo. Call of Duty 4 è un gioco piuttosto breve, ma con una longevità molto alta grazie alla componente multiplayer.
La prospettiva di giochi che durino molto poco è appetibile per i developer: i giochi moderni richiedono parecchio impegno economico per creare quelle sequenze cinematiche in-game che sono diventate uno standard di fatto, quindi non aspettiamoci troppi Uncharted, a meno che qualcuno non capisca che l’importante per il game developer dovrebbe essere sviluppare il gioco, non reimplementare da zero la tecnologia che c’è dietro ogni santa volta.

Ecco quindi uno scenario futuro che inizia a vacillare anche considerando bei giochi del passato prossimo già prodotti in quest’ottica. Prendiamo un grosso hit dell’anno scorso: Gears Of War. Durata breve ma ancora superiore alle 5 ore profetizzate da Nelson e pappagallate dai developer\producer di mezzo mondo. Nonostante ciò il risultato è stato una storia condensata in 8 ore di gioco frenetico, poco chiara, sconnessa, a tratti del tutto incoerente. Tanto da richiedere una cospicua espansione al lancio della versione per PC, orientata ad un pubblico forse un po’ meno consumistico di quello console e oggi più che mai molto attento al rapporto qualità\prezzo.

Per altri titoli vale comunque l’opposto: Doom 3, Quake 4, Prey, Tomb Raider, F.E.A.R., Half Life 2, Far Cry (la lista è virtualmente infinita), sono stati titoli con pochissimo da dire, stiracchiati alla meno peggio in più o meno piacevoli ripetitive sessioni\fotocopia. L’importanza nella giusta misura è fondamentale ma bisogna considerare che accorciare i giochi citati avrebbe forse sottolineato di più l’intangibilità e la mancanza di dettagli in quanto narrato. Che sarebbe successo se parte del tempo di gioco fosse invece stato usato per dettagliare maggioremente gli avvenimenti, piuttosto che introdurre stringhe di ripetitivi fill-in? Magari alcuni di essi non si sarebbero fermati poco oltre il break even.

Bisogna inoltre considerare che alla riduzione di durata nei titoli in previsione per il futuro, non corrisponderà un proporzionale abbassamento dei prezzi, quindi il rischio concreto è quello di pagare 60 euro per 5-6 ore di gioco, una proposta tutt’altro che allettante. La risposta prevedibile dei consumatori sarà un ricorso ancora maggiore all’usato ed è sempre più probabile che i developer inizino ad adottare in maniera massiccia sistemi di attivazione anche per titoli non multiplayer per arginarne il fenomeno (vedi Bioshock o Two Worlds). In molti stati americani c’è già un lungo processo di identificazione e burocrazia per acquistare media usati (è diventato più difficile di comperare un’arma nuova), voluto fortemente dalle major e spalleggiato dai senatori e dai governatori locali che traggono profitto dal mercato dell’intrettenimento. Chi vuole intendere intenda.

Il problema economico giace proprio sul piano della miopia delle multinazionali del videoludo: i giochi hanno durate, costi e aspettative variabili, un po’ come avviene per i libri. Con i libri, tuttavia, i prezzi non sono omogeneizzati verso uno standard di mercato, come succede invece per l’home video ed i videogiochi. Sotto questo aspetto, il paragone con l’industria cinematografica è sbagliato e controproducente, specie ora che per una console è possibile commercializzare sia lunghissimi RPG come giochi orientati esclusivamente al multiplayer con costi di produzione, aspettative di vendita e longevità del tutto differenti. Si sta sicuramente cercando di porre un limite a questo aspetto utilizzando il digital delivery ma discutibili politiche di DRM ed i prezzi ancora non proprio adeguati ad un mercato usa e getta non hanno fatto maturare molto un modello che era partito con l’idea dei micro-pagamenti ed oggi si ritrova a far pagare alcuni contenuti più di un titolo da scaffale in offerta speciale.

In realtà ci sono già le prime avvisaglie che alcune di queste scelte sono sbagliate. Passato il secondo Natale per la 360, le aspettative non sono state proprio eccellenti: poco più di 13 milioni di console vendute contro le 18 prodotte (ricordiamoci che circa il 33% è stato dedicato al rimpiazzo di quelle difettose, una pratica che continua a costare a Microsoft ancora milioni di dollari ogni mese) e una soltanto marginale crescita degli utenti Live (siamo passati dagli 8 milioni di profili dell’anno scorso ai 10 di quest’anno). Evidentemente la profusione di titoli payware a prezzo elevato del 2007 non è stata proprio bene accetta dalla massa dei consumatori e piuttosto che far esplodere la user-base ne ha causato una contrazione, proprio al secondo Natale a pieno regime, quello che di solito decreta una crescita quasi esponenziale nelle vendite delle console leader di mercato, grazie anche ad un catalogo di giochi più ricco.

In conclusione, se si pensa che la soluzione al problema dell’abbandono di un titolo dopo pochissimo tempo di gioco sia la sua durata, si è fortemente fuori strada. Il problema sta nella stagnazione dei generi e nella scarsa originalità. Aspetto che la riduzione nelle durate non farà che peggiorare, visti i limiti temporali imposti. E’ un dato di fatto che giochi orientati al riuso o semplicemente basati su un’ottima e solida storia sono oggetto del desiderio dei videogiocatori per anni, indipendentemente dalla loro lunghezza, anche se sono ancora pochi i publisher che insistono pesantemente sul modello commerciale a lungo termine. Portal è sicuramente un esempio di opportunismo narrativo, facilitato dall’essere un puzzle game: in quello scheletrato di script (per molti entusiasti geniale, ma forse solo un pretesto per non far sentire troppo il peso di un demo a pagamento), c’è un escamotage per non raccontare una storia.

E’ pericoloso pensare che il mondo sia pronto a molti altri capolavori basati sulla magistrale presentazione della loro assenza di contenuti.

Final Fantasy XII

Square Enix | Playstation 2 | JP marzo 2006 | EU febbraio 2007

Comincio questo articolo mentre Final Fantasy XII si sta grossomodo giocando da solo. Miracoli del combattimento in tempo reale, del sistema Gambit, e di un tipo di nemico che pare fatto apposta per l’auto-livellamento, il Necrophobia, che ogni tanto ci fa la cortesia di scindersi in due; esistono poi nemici davvero ideali, e sistemi di automatismo praticamente infallibili, scoperti e collaudati dalle solite menti geniali sprecate prestate al videogioco.
FF12 - impostazioni gambit per Basch
Il sistema Gambit guida il combattimento in base a una serie di condizioni e relative azioni da voi impostate per ciascun personaggio, dalla basilare “Nemico più vicino -> Attacca”, alle usuali “Alleato con HP < 40% -> Energia” e “Alleato in status K.O. -> Reiz”, fino a raffinate impalcature che possono portarvi a sconfiggere alcuni temibili boss senza mai toccare il pad. Detto così suona noioso, ma vi assicuro che questo sistema di combattimento è quasi il sogno di ogni programmatore; e di ogni giocatore di Final Fantasy che ormai non ne può più di eseguire meccanicamente sempre la stessa serie di azioni (attacca, cura, apri una birreria).

Le opzioni/condizioni di Gambit non sono tutte disponibili fin dal principio, ma vanno trovate in giro per il mondo o comprate nelle apposite “gambitterie”; così come dovete acquistare le magie nelle “magicherie”, le tecniche nelle (indovinate?) “tecnicherie”, e fortunatamente le armi le trovate nelle armerie e gli scudi non nelle scuderie ma nei negozi di protezioni. Vi avviso che non metto becco sulle scelte di traduzione, secondo me fanno simpatia. Ora, avete appena fatto shopping e volete abbrustolire i cattivi con la magia “Fire”, infilzarli con la spada “Trucidiavolo”, e appenderli al muro con la tecnica “1000 aghi”? Spiacente, ma prima di fare ciascuna di queste cose dovrete acquisire la relativa licenza. Le licenze si acquisiscono su un’apposita scacchiera (replicata per ogni personaggio) spendendo nientemeno che Punti Licenza, che otterrete insieme ai punti esperienza sconfiggendo mostri. La scacchiera all’inizio è oscurata, e potrete vedere e acquisire solo le licenze contigue a quelle già possedute; il che è vagamente seccante, se avete intenzione di creare personaggi specializzati (visto che, ahimé, di per sé anche in questo Final Fantasy sono tutti sostanzialmente intercambiabili).

FF12 - scacchiera delle licenze di Ashe

Sei personaggi, questa la massima estensione che può avere il vostro party, ma con solo tre personaggi alla volta (più un eventuale “ospite”) presenti sul campo di battaglia; i personaggi “in panchina” possono all’occorrenza (e immediatamente, senza tante tragedie come risalire su qualche aeronave e parlare con qualche losco individuo) entrare in gioco al posto dei “titolari” e, mentre fuori gioco, possono essere oggetto di “attenzioni” da parte degli alleati. La cosa, non lo nascondo, agevola molto l’esperienza di gioco: se il vostro party in campo viene spazzato via, avete altrettanti personaggi pronti a prendere posizione e, magari come prima cosa, a resuscitare coloro che sono passati a miglior vita, virtualmente prolungando all’infinito le possibilità di riuscita di un combattimento o, più spesso, di fuga; “virtualmente”, perché non sempre le cose sono così facili, ma a titolo personale sono contento di non aver dovuto buttare delle ore di gioco perché un tenero coniglietto aveva l’abilità speciale “scoreggia” che toglieva 3000 punti vita in una botta sola a tutto il party e io, prima di imbattermici, non lo sapevo; questa è ovviamente un’iperbole, non ci sono coniglietti che scoreggiano in FF12; non che io sappia.

FF12 - foto di gruppo

Parlando di coniglietti, la maggior parte dei nemici ordinari che incontrerete è scialba; i modelli di base saranno al più di una decina (ricordatevi che stiamo parlando di una esperienza di gioco che può tranquillamente raggiungere il centinaio di ore), e cambiano giusto (ma non troppo) le texture che li ricoprono. Sostanzialmente comincio a supplicare per un Final Fantasy, ma anche un rpg più in generale, in cui l’esperienza di gioco sia corta quanto volete, ma densa, e faccia quindi a meno di squallidi riempitivi come decine di ore di combattimenti tutti uguali. Fin qui le notizie cattive. Rispetto ai capitoli precedenti della saga, comunque, non esistono più i cosiddetti “incontri casuali“: la maggior parte dei nemici (salvo qualche rettile e qualche non-morto o fantasma) che popolano la mappa non sbucherà più dal nulla come le multe da autovelox, ma avrete modo di vederli da lontano, cercare di evitarli (ché per 15 punti esperienza non vorrete mica perdere 30 secondi coi vostri personaggi di livello 60, vero?), o al limite ignorarli correndo in modalità “fuga” – qui il vantaggio più grande del combattimento in tempo reale, l’azzeramento dei tempi morti di caricamento del campo di battaglia; anche se, una volta tirate le cuoia, i nemici impiegheranno un paio di secondi prima di “lasciarsi attraversare” per farvi recuperare il bottino (moltiplicate per centinaia di combattimenti e comprenderete il fastidio).

Passando ai nemici meno ordinari, troviamo gli immancabili boss, gli ormai tradizionali Esper, i ricercati, e i mostri rari.

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Bioshock – Riflessioni in ordine casuale

Prodotto da 2K Games| Sviluppato da 2K Boston/2K Australia | Piattaforma Xbox 360, PC | Rilasciato il 24 Agosto 2007

In superficie siamo in piena Guerra Fredda, ma anche sott’acqua le cose non vanno poi così bene.

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Bioshock non si perde in troppi preamboli: un incidente aereo, un faro come unico approdo possibile per non perire in mare, la discesa all’interno di una città misteriosa eppure molto conosciuta nell’universo di gioco (altrimenti come avrebbe potuto attirare tanti abitanti?).
C’è chi teorizza che un videogioco debba catalizzare l’attenzione del giocatore nei primi cinque minuti. Bioshock si nega a questa precetto e precede con una lentezza disarmante. L’inizio è una lenta descrizione di Rapture e del suo stato di degrado. Il giocatore capisce di trovarsi in una situazione anomala appena mette piede sulla superficie della città. Cosa l’ha ridotta in questo stato?
Rapture è l’utopia di un uomo paranoico e megalomane, è una forma di lotta dell’individuo contro la democrazia e il comunismo, i due blocchi che si andavano formando dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ovviamente lo sguardo è sul contemporaneo. Esplorare Rapture è come girovagare per la carcassa degli anni 2000. I suoi abitanti non sono umani, sono super-umani. Sono individui rinchiusi e distrutti da un sogno troppo grande per poter ambire a diventare realtà, degli egocentrici/eccentrici trasformati e resi schiavi da loro stessi. I plasmidi, l’Adam… sono solo metafore. Quando gli abitanti di Rapture parlano sembrano dei bambini che si lagnano. Ricordano com’erano prima, hanno ancora gli stessi desideri ma amplificati. I loro corpi sono stati trasformati dalla volontà di liberarsi dai limiti imposti dalla natura e dalla società. Il sogno di un uomo a cui si sono aggrappati in molti e che ucciderà tutti.

Quante altre se ne potrebbero dire su Rapture? Il fascino di Bioshock nasce proprio da questo suo essere contenitore di molti significati; di essere interpretabile a piacere fino alla sfinimento.

Bioshock

Bioshock è anche una presa di coscienza, la negazione di molti precetti e di molti convincimenti che nel corso degli anni si sono incrostati nella cultura videoludica stabilendo delle priorità sbagliate nella lettura dei videogiochi. Gli Irrational sono riusciti a raccontare la storia di una città senza praticamente utilizzare filmati. Anche i diari audio che si trovano sparsi in giro per le stanze e i corridoi di Rapture sono un surplus d’informazioni, un modo per mettere in luce le sottotrame di una storia raccontata benissimo dalla città stessa. Nella rappresentazione non c’è un elemento fuori posto; una distrazione dalla visione complessiva. Senza “narrare” niente, Bioshock riesce ad essere più profondo e visionario di giochi ultra narrati (con continui stop dovuti a filmati e intromissioni da parte degli autori) come un Metal Gear Solid a caso o uno degli ultimi Final Fantasy. In che modo?

Probabilmente perché nei videogiochi il senso nasce dal rapporto che si instaura tra i diversi elementi che compongono lo spazio virtuale e il giocatore/attore. Solo in minima parte è possibile carpire senso dall’utilizzo di tecniche narrative derivate da altri media. I videogiochi non narrano in senso lineare, ma trasversalmente, mettono in scena un mondo virtuale, siano essi puzzle game o giochi di ruolo, che dovrà contenere la performance attoriale del giocatore. I videogiochi con una narrazione invasiva sono spesso il sogno frustrato di un regista che è finito a fare suo malgrado il game designer.

Negli anni si sono creati dei grossi fraintendimenti dovuti ad un’analisi superficiale del medium: la presenza di uno schermo come strumento di output privilegiato del medium videoludico, unito alla cultura di massa di fine anni 70/80, lo hanno subito fatto accostare al cinema, moltiplicando le depredazioni di parole e concetti da quel medium fino al paradosso di considerare migliori i videogiochi che più si avvicinano all’esperienza cinematografica. La tendenza generale, dovuta ad un complesso d’inferiorità ancora presente, è stata quella della comparazione continua dei videogiochi verso il cinema, fino ad arrivare al paradosso di gridare al miracolo davanti ad un Resident Evil perché adottò un taglio cinematografico delle inquadrature per ottenere determinati effetti drammatici (Alone in the Dark lo avevano rimosso un po’ tutti… ma si sa bene cosa non farebbero alcuni per affermare che tutto quanto di bello e di buono si è avuto nei videogiochi è venuto dal Giappone). Si è arrivati a considerare il giocatore una specie di regista che crea un suo montaggio, come se il fine di un videogioco sia la creazione di filmati. Smaniosi di assegnare al giocatore un ruolo più “alto” si è finiti per decentrare le analisi arrivando ad esaminare i videogiochi soltanto in relazione alla loro presunta cinematograficità e, dove questo non è accaduto, sfruttando sempre concetti ripresi dal cinema (ad esempio quello d’immersività) senza riuscire a dargli una collocazione definitiva.

Bioshock

La diffusione di questi preconcetti è stata favorita dall’atteggiamento della stampa specializzata che, non riuscendo a trovare una sua dimensione critica, si è aggrappata supinamente al confronto cinema/videogiochi rendendolo spesso, di fatto, un vero e proprio criterio di giudizio. Non starò qui a citare le volte in cui sono state intessute lodi di qualche gioco rapportandone l’esperienza a quella di un buon film. Ovviamente sono balle e un confronto del genere è più il frutto di una visione umorale dei due media che della capacità di leggere i videogiochi in senso critico. Si è voluta creare una specie di scala di valore emozionale, da usare per fare confronti; un po’ come quelli che giudicano libri e film esprimendo i propri gusti in base alle emozioni provate.

In Bioshock gli autori sembra che abbiano voluto sbattere in faccia al giocatore il suo status di “attore” e non di autore (l’incontro con Jack Ryan è paradigmatico in tal senso) rimarcandone più volte la subalternità, il suo essere un parassita di un mondo già immaginato da qualcun altro. Nel momento in cui si segue una storia si accetta di andare avanti anche soltanto se qualcuno ci dice “per piacere” perché, in realtà, non possiamo fare altro. L’unica vera scelta è giocare/non giocare. Le altre (armi da usare, plasmidi, salvare o uccidere le sorelline) rientrano in un campo di possibilità già previste. Possiamo però osservare Rapture, capirne l’essenza, leggerne le stanze, i suoi abitanti, partecipare al loro dramma. Possiamo rilevare una visione, quella di un qualcuno che ha creato qualcosa per noi e a cui possiamo accedere soltanto accettando un ruolo prepensato per noi.

Bioshock

A Man creates. A parasite asks, “where is my share?”

Le localizzazioni: Intervista a Emanuele “SHIN” Scichilone (Synthesis) parte 3

E siamo arrivati alla terza e ultima parte di questa intrigante intervista con Emanuele Scichilone, collaboratore di Synthesis e responsabile delle localizzazioni di alcuni tra i videogiochi più interessanti usciti negli ultimi anni. Se vi siete persi la prima e la seconda parte, rimediate clickando qui e qui! Non risparmiatevi con le domande (utilizzate i commenti), Emanuele vi risponderà appena ne avrà la possibilità!

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– Hai mai doppiato qualche personaggio?
No, per carità. Ho il panico del microfono, nonché un’espressività nella recitazione pari a quella di un’ameba surgelata, senza parlare della mia dizione (“teribbile”)! Lascio questo lavoro ai professionisti, io di solito sto dall’altra parte della vetrata in studio. ^_^’

– Sono molto affezionato ad alcuni dei nostri doppiatori, però non posso che notare un eccessivo sfruttamento delle stesse ugole. I titoli localizzati e doppiati aumentano, ma le voci son sempre le solite. Il povero (e bravo) Melazzi lo accomuno ormai a troppi personaggi diversi (i miei preferiti da lui interpretati sono Max Payne e Gabriel Knight), rovinando in parte l’esperienza di gioco. Sono così pochi i doppiatori disponibili per i videogiochi?
Beh, in Italia c’è un’ottima scuola di recitazione e doppiaggio, probabilmente la migliore al mondo. A contarli tutti non credo siano proprio pochi, ma quelli veramente bravi non sono poi in realtà così tanti, soprattutto quelli che girano nel mondo dei videogiochi. Molti bravissimi professionisti sono rimasti, altri invece hanno preferito dedicarsi ad altre attività (pubblicità, direzione e altro ancora). Questo per dire che se uno è particolarmente bravo, viene scelto spesso dal cliente: è il caso del bravissimo Melazzi, ma anche di tanti altri capisaldi. Se in Mass Effect senti Moneta e Massironi nei ruoli di Shepard è perché, a fronte di averli proposti con altre voci altrettanto adatte, li ha voluti il cliente, forse proprio perché sono tra i migliori. Da questo punto di vista, vedo comunque un certo parallelo con i film o i serial televisivi più famosi, i quali vengono doppiati quasi integralmente a Roma. Se uno ci fa caso, le voci dei protagonisti sono sempre le stesse.
Synthesis ovviamente è situata a Milano e lavora principalmente con doppiatori del nord Italia ed è in costante ricerca di nuove voci. Infatti, nel corso degli anni, il nostro parco doppiatori è cresciuto enormemente e continua a farlo. Non mi sono messo a contarli, ma credo si aggiri intorno ai 150 professionisti. Ora stiamo valutando l’ipotesi di allargarci con le registrazioni anche a Roma, raddoppiando sostanzialmente il numero delle voci disponibili. Peccato che certi nomi risultino praticamente inavvicinabili per problemi di costi, solo in certe grandi produzioni ci si può permettere cachet 20-30 volte superiori il normale.

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– In passato è stato più volte detto che in Italia le localizzazioni sarebbero andate a scomparire, in quanto risultano investimenti che non danno frutti per via della pirateria che ha sempre colpito il nostro Paese. A quanto pare non è arrivato il momento di dire basta, mi sembra che il lavoro non vi manchi, dopotutto.
Il mercato dei videogiochi è un mercato enorme a livello mondiale e mi risulta in crescita anche nel nostro paese, ma credo sia giusto fare un distinguo. Negli anni passati è sembrato di stare un po’ sulle montagne russe. C’erano degli anni di lavoro intenso per le localizzazioni e degli anni di magra, di solito a cavallo con il cambio generazionale (passaggio da Amiga a PC, da PS1 a PS2, ecc). Inoltre, l’Italia è purtroppo con la Spagna un mercato nettamente inferiore rispetto a Francia, Inghilterra e Germania, tranne per alcune tipologie come i giochi di calcio, ma diciamo che in linea di massima un gioco qualunque mediamente vende molto meno nel nostro paese rispetto agli altri mercati europei, vuoi per una mentalità sbagliata (pirateria) vuoi per un costo finale eccessivo per l’utente medio. La questione tuttavia è molto semplice: se localizzare interamente un gioco costa troppo rispetto a quelle che possono essere le vendite attese (e non c’è solamente da considerare costo di traduzione e doppiaggio, vanno inseriti anche il testing, il marketing e tutta un’altra serie di spese collaterali), un publisher può decidere di limare questi costi solamente sottotitolando il gioco in questione o addirittura commercializzarlo solo in inglese, magari traducendo solo manuale e scatola. La realtà di fatto è che nessun publisher può permettersi di non localizzare certi titoli, sia per questione di immagine che per questione di commerciabilità: di immagine perché il mercato si sta spostando massicciamente sul full localization a priori (del resto, se ci sono due giochi di guerra e uno è completamente in italiano, le possibilità di vendita di quello in inglese sono minime), di commerciabilità poiché molti nuovi titoli sono per un mercato casual (ragazzi molto giovani, giocatori alle prime esperienze): in questo caso, una versione in inglese non avrebbe mercato.

– A volte ci si accorge di bizzarri errori, ad esempio mi viene in mente il doppiaggio di Black & White, di fattura molto scadente, in cui addirittura un personaggio femminile (aveva pure il reggiseno in vista) venne doppiato con voce maschile nella versione italiana (a differenza di quella inglese che aveva un’adeguata voce femminile). Come sono possibili sviste del genere?

Sì, ricordo il primo Black and White, fu pubblicato nel 2001. Il gioco non venne localizzato da Synthesis: all’epoca tutti i titoli di EA erano in mano all’ormai chiusa CTO, il distributore locale, traducevano e, mi pare, doppiavano internamente. A parte il pessimo risultato complessivo, non saprei dirti una ragione dietro a una svista così evidente. Posso solo pensare che ci furono dei disguidi a livello comunicativo o dei cambi in corsa, oppure un banale errore, o ancora che doppiarono senza l’audio originale di riferimento, ma non avendoci lavorato sopra, le mie sono solo ipotesi. Se ricordo bene il primo B&W fu anche l’ultimo titolo localizzato internamente da CTO. Fortunatamente, avemmo la possibilità di occuparci direttamente di B&W2.

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Cosa ne pensi dei vari stravolgimenti dei dialoghi e le censure applicate nelle conversioni dei giochi (solitamente) giapponesi per i mercati occidentali?

La verità è che in Italia qualsiasi cosa sia videogame o manga si dà per scontato che sia per un pubblico di minori. Questa non è la realtà negli altri paesi, o per lo meno nelle intenzioni degli sviluppatori di un progetto. Un gioco eccessivamente “violento” giustamente non deve essere venduto ai minori, ma impedirne la pubblicazione o censurarlo mi sembra un approccio sbagliato. Comunque, dipende tutto dal target cui si vuole mirare importando e commercializzando un determinato prodotto in Italia. Se un gioco è destinato a un pubblico tardo adolescenziale o adulto (over 16, direi), non vedo quale possa essere il problema – si tratta pur sempre di fiction e a quell’età credo che un genitore possa aver insegnato bene a un figlio cosa è finzione e cosa non lo è, e come filtrare certi contenuti che siano essi provenienti da un libro, da un film o da un videogioco. Ma se un determinato prodotto è destinato a una fascia di età inferiore (infanzia o pre-adolescenza), beh, bisogna andarci un po’ più cauti e capisco che certi contenuti possano essere limati o “ammorbiditi”. Mi spiego meglio: per fare due esempi banali, basta pensare a cartoni animati come Georgie o Orange Road (conosciuto da noi come “È quasi magia Johnny”)(uno degli anime più censurati dalle reti Mediaset ndJS). Temi come la droga, la morte, la violenza psicologica e i rapporti etero e omosessuali sono delicati e inadatti da proporre a bambini di 6/10 anni. Ecco perché nelle versioni proposte in Italia questi riferimenti in pratica sono scomparsi del tutto o estremamente ammorbiditi. Credo sia quello che è successo nei casi sopra citati. Ci sarebbe piuttosto da discutere sulla scelta a monte, dubito che chi li ha concepiti in Giappone avesse in mente di destinarli a bambini delle elementari, cosa che invece è stata fatta qui da noi. Non sono invece molto convinto del totale stravolgimento di nomi e cultura, addirittura con tagli completi e adattamenti strampalati se si incappa per esempio a riferimenti ad altre religioni, come il buddismo.

– Grazie per la tua pazienza e disponibilità, di sicuro hai contribuito a far luce su molti punti oggetto di dibattito sui vari forum e riviste.

Grazie a voi per l’interessamento. A presto!

Le localizzazioni: Intervista a Emanuele “SHIN” Scichilone (Synthesis) parte 2

Prosegue l’intervista a Emanuele Scichilone sul mondo delle traduzioni e doppiaggi dei videogiochi. Se vi siete persi la prima parte clickate qui!

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– Che requisiti occorrono per entrare nel mondo delle localizzazioni? Quanto credi sia importante la cultura media del traduttore per arrivare ad avere un buon lavoro?

Come traduttore, revisore o tester, di sicuro passione per i videogiochi, eccellente conoscenza della propria lingua madre (e intendo con solide basi grammaticali) e buona/ottima conoscenza dell’inglese (comunque migliorabile con la pratica). Personalmente ho iniziato con una conoscenza scolastica da scuola superiore, e poi è andata migliorando col tempo e la pratica (anche grazie al mio passato da redattore specializzato). La cultura media deve essere certamente di buon livello, ma uno di solito se la costruisce, tramite gli studi o appassionandosi a qualcosa. Personalmente non mi interessa se uno ha finito o no le superiori o ha una laurea con master in 12 lingue: deve essere sveglio e dare prova di sé sul campo. Chi vuole iniziare come traduttore freelance per Synthesis di solito sostiene un colloquio e fa un test.

– So che sei un appassionato di avventure grafiche d’altri tempi. Cosa provasti quando sentisti la “nuova” voce di Guybrush Threepwood in The Curse of Monkey Island?
La versione Italiana nel suo complesso la ricordo come non malvagia, mentre ricordo per esempio che la traduzione del secondo titolo lasciava parecchio a desiderare. Anche se il doppiatore di Guybrush è un indiscusso professionista, la voce scelta purtroppo disattese le mie aspettative, non la ritenevo adeguata per come me l’ero immaginata, ma può essere una mera questione di gusti (ebbi le stesse sensazioni – ndJS).

– Bioshock ha riscosso un enorme successo di critica, che probabilmente si è lasciata trasportare dai contenuti artistici del gioco, perdonando alcune magagne importanti quali l’eccessiva facilità e la scarsa varietà di nemici. Però su una cosa ci sono pochi dubbi, il doppiaggio italiano (oltreché la traduzione) è davvero ben fatto e non sfigura di fronte a quello originale (cosa che avviene davvero di rado), complimenti!

Grazie. Effettivamente siamo contenti delle critiche sia delle riviste di settore, sia degli utenti finali. Almeno per quello che abbiamo letto in giro.

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– Non ho ancora avuto modo di sentire il doppiaggio di Mass Effect. Suppongo sia stata una delle sfide più ardue che abbiate accettato, cosa puoi dirci in proposito? Credi sia venuto su bene?

Per ciò che ci riguarda è la localizzazione più grande dal punto di vista audio mai fatta finora. Come dicevo sopra circa 400.000 parole di audio, oltre 400 personaggi, oltre 50 attori usati. Avevamo un buon materiale di supporto (come documentazione di design e descrizione dei personaggi), un ottimo audio sorgente americano e un eccellente feedback e organizzazione da parte di publisher e software house. Ma, anche in questo caso, niente filmati né materiale visivo, tranne le bozze delle varie razze aliene e dei personaggi principali.
L’ho giocato e finito durante queste feste natalizie (finalmente un po’ di riposo! =)). Secondo me la localizzazione è venuta molto bene nel suo complesso. Nel mio perfezionismo e col senno di poi ci sono delle cose che avrei indubbiamente migliorato: Ashley è venuta bene come caratterizzazione (d’altronde è un soldato rompiscatole e piuttosto razzista), ma in qualche caso sale troppo di intensità risultando un po’ sopra le righe, soprattutto all’inizio. La voce, selezionata dal cliente, è azzeccata, anche se personalmente ne avrei preferita una un filo più morbida e matura (infatti ne proponemmo un’altra come prima scelta), ma devo dire che andando avanti nel gioco ne esce bene. La voce dell’ufficiale Pressley risulta un po’ troppo giovane rispetto al suo aspetto effettivo. D’altra parte il documento di design diceva che si trattava di un trentacinquenne, ma vedendolo nel gioco sembra più un cinquantenne. Ultima considerazione personale, alcuni dei personaggi minori suonano forse ancora un filo troppo fumettosi. è una cosa che vorrei cercare di limare con le prossime produzioni. Ma forse è solo una mia fisima.
Essendo il gioco enorme ci sono ovviamente delle piccole imperfezioni qua e là dovute a cambi in corsa e problemi di integrazione/testing (le più evidenti un paio di urla di personaggi secondari ancora in inglese tipo “Hold the line!”), un paio di sottotitoli non corrispondenti all’audio, anche se il concetto era lo stesso. Ho riscontrato anche un problema di integrazione inspiegabile per gli Hanar. Originariamente questi alieni avrebbero dovuto “comunicare” telepaticamente ognuno con una propria voce, a cui avrebbe dovuto essere aggiunto il classico effetto riverbero della trasmissione del pensiero. Difatti iniziammo a doppiarli così, poi per un cambio di design ci venne chiesto di ridoppiarli tutti con la voce sia del protagonista maschile, sia di quella femminile. In pratica il concetto doveva essere che l’hanar avrebbe dovuto usare la tua stessa voce per comunicarti i suoi pensieri. Invece, alla fine è stato integrato solo l’audio degli hanar doppiati dal protagonista uomo. Questo resta tuttora un mistero.
Comunque come detto il gioco è enorme e, oltre al nostro lavoro, c’è stato sicuramente anche uno sforzo immane da parte dei tester (altra società) e degli sviluppatori. Se poi consideriamo che le lingue coinvolte in Europa erano non solo l’italiano, ma anche francese e tedesco (full), oltre a polacco e spagnolo (solo in-game e sottotitoli).. ecco perché c’è voluto tanto per confezionare questo “colosso”. La traduzione invece mi è sembrata eccellente sotto tutti i punti di vista.

– È vero che il doppiaggio viene spesso realizzato senza vedere né il gioco, né i personaggi che si andranno a interpretare?

Purtroppo sì. Il gioco nella maggioranza dei casi non viene quasi mai fornito perché la localizzazione di solito inizia prima che ne esista una versione anche minimamente stabile (alpha) o perché publisher e sviluppatori fanno di tutto per evitare di farne girare copie anzi tempo; questo per ridurre al minimo possibili fughe di materiale. Ho sentito addirittura di team di sviluppo che per questa ragione non hanno internet nei propri uffici (e Valve ne sa qualcosa – ndJS).
Quello di avere un materiale di supporto migliore è un punto molto importante per noi e su cui insistiamo non poco con i clienti, soprattutto adesso che il cambio generazionale avuto con Xbox360 e PS3 sta spingendo in avanti il realismo e l’impatto cinematografico. Speriamo per quanto possibile che le cose migliorino, ma lavorare con il gioco ancora in sviluppo, una schedule e un lavoro in cascata di tutte le entità coinvolte (sviluppatori, producer, publisher, localizzatori, tester, marketing ecc.) non è mai semplice né lineare. Nel mio mondo ideale farei partire la localizzazione più tardi col materiale originale completo o quasi (testi, filmati, il gioco in mano), ma mi rendo conto che i publisher hanno bisogno di combattere l’importazione parallela e che non possono ritardare certe date di uscita per non perdere utili.

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– Perché il doppiaggio inglese è quasi sempre superiore a quello italiano? C’è un maggiore investimento? Gli viene attribuita maggiore importanza?

Penso per diversi fattori. Innanzi tutto il doppiaggio originale (al 99% in inglese) viene fatto in condizioni molto diverse rispetto a quello delle lingue localizzate. Gli sviluppatori partecipano attivamente alle registrazioni, si prendono tutto il tempo (spesso e volentieri i tempi di registrazione dell’inglese sono doppi rispetto a quelli di una lingua localizzata), forniscono sequenze di supporto e dirigono esattamente il doppiaggio originale come vogliono che venga. Il doppiaggio originale avviene ovviamente prima rispetto alle altre lingue, ma si prende tutto il tempo di fare i ritocchi necessari per ottimizzare l’aspetto qualitativo del lavoro, visto che poi le versioni usciranno tutte in contemporanea. Il doppiaggio delle lingue localizzate è invece, sostanzialmente, un cercare di riprodurre l’audio originale il più fedelmente possibile, in un tempo più ridotto, con un materiale a volte disordinato o incompleto e possibilmente ottimizzando i costi (quindi per esempio riducendo il numero di attori). Inoltre, poiché l’inglese viene registrato “fuori campo” (ovvero senza restrizioni di tempo), gli attori originali possono dedicare molte più risorse all’interpretazione. Le lingue localizzate generalmente devono rispettare i tempi dell’audio inglese per ragioni tecniche e spesso è necessario tagliare frasi o stringere sui tempi, fattori che non permettono una recitazione ottimale. Non per nulla, Bioshock è stato quasi interamente doppiato senza limiti di tempo, e la migliore qualità interpretativa si vede.

– Il lavoro di cui vai più orgoglioso e quello che vorresti dimenticare
Titoli a cui sono particolarmente affezionato sono: Blade Runner, Shadowman, Soul Reaver 2, Neverwinter Nights 2, Fahrenheit e Mass Effect… Mentre dopo tanti anni non riesco a digerire Metal Gear Solid… di cui facemmo solo la traduzione, ma non il doppiaggio audio, fatto in Inghilterra da altri… ci rimasi davvero male.

A domani per la terza e ultima parte!

Le localizzazioni: Intervista a Emanuele “SHIN” Scichilone (Synthesis) parte 1

Quello delle localizzazioni è sempre stato un argomento trattato poco approfonditamente, pur essendo una parte importante nella produzione finale di un videogioco. Ogni giorno sui forum di tutta Italia si discute sui problemi di traduzione e soprattutto ci si lamenta di produzioni multimilionarie che vengono macchiate da un doppiaggio spesso deludente. L’intervista che leggerete in questi tre giorni si prefigge lo scopo di approfondire l’argomento, aiutandoci a comprendere come funziona un processo di localizzazione e perché qualcosa può andare storto. Per questa intervista ci siamo rivolti a Emanuele Scichilone, persona estremamente preparata sull’argomento e che si è prodigata nel dare risposte davvero interessanti.

– Ciao Emanuele, benvenuto sulle pagine web di Ars Ludica. Illustraci un po’ il tuo passato e soprattutto il ruolo che ricopri oggi all’interno di Synthesis.
Salute, grazie a voi per l’ospitalità e buon 2008 a tutti. Come qualche veterano ricorderà, mi sono buttato “lavorativamente” nel mondo dei videogiochi oramai 18 anni fa, nel 1990, come redattore per le riviste edite a suo tempo da Xenia Edizioni. Ho iniziato con Zzap! e The Games Machine, sotto la supervisione degli allora neo caporedattori Giancarlo “JH” Calzetta e Max Reynaud, per poi collaborare anche con Consolemania, PC Action e CD Magazine, di cui, per un breve periodo sono stato assistente prima e caporedattore poi. Nel ’90 avevo solo 16 anni, studiavo informatica alle superiori, ma soprattutto ero un videogiocatore cresciuto a pane e Vic 20 prima, e C64 e Amiga poi. Devo sicuramente a JH e Max le possibilità che mi si sono aperte, senza dimenticare Stefano Gallarini, mio mentore a CD Magazine, e Roberto Ferri, il direttore responsabile della Xenia Edizioni. Non li ringrazierò mai abbastanza per quel meraviglioso quinquennio. Nel 1995, su idea di Max Reynaud e insieme a un altro paio di ragazzi, lavorammo alla traduzione di quello che poi è stato un po’ il “progetto zero” per noi: X-Com di Microprose. Max fu molto intuitivo nel capire le possibilità che si stavano aprendo per il mondo delle localizzazioni e, forti dell’esperienza come appassionati videogiocatori e giornalisti di settore accumulata, insieme ad Andrea Minini (conosciuto anche come “Gorman” ndJS), sua controparte all’epoca alla rivista Z, fondò Synthesis nel tardo ’95.
Personalmente, a inizio ’96 ho tentato l’avventura dall’altra parte della barricata e per qualche mese ho lavorato a stretto contatto con alcuni amici (la Lightshock Software), ad alcuni videogiochi: Pray for Death per PC, pubblicato da Virgin Interactive, nonché Black Viper e Fightin’ Spirits, entrambi per Amiga 500/1200. Fu proprio lavorando a Pray for Death che rientrai nel mondo delle localizzazioni, un po’ paradossalmente a dire il vero. Curai storia e design del gioco, nonché scrissi i testi in-game e il manuale del gioco, ovviamente in Italiano. La versione inglese del manuale venne invece generata dai “writer” di Virgin e girata a Synthesis per la traduzione in italiano. Buffo no? Max me lo passò per tradurlo e io potei, fortunatamente, reinserire la versione originale dell’introduzione e delle biografie dei personaggi. Da allora ho iniziato a collaborare con Synthesis, e poi ho messo su la mia piccola società. Continuo a collaborare principalmente con loro e mi occupo di gestire e coordinare tutti i vari aspetti della localizzazione dei videogiochi (traduzione e doppiaggio principalmente), interfacciandomi con il cliente che commissiona il lavoro dal punto di vista delle comunicazioni ed esaudendone le richieste individuando le risorse necessarie a tale scopo: traduttori e revisori freelance o a progetto, studi di doppiaggio, doppiatori, direttori audio, ingegneri audio, controllo qualità, ecc.

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– Com’è composto l’organico di un team che lavora a una localizzazione completa per un titolo tripla A? Quanto tempo si impiega in media?
Un titolo tripla A è di solito legato a una grande produzione o in alternativa a un videogioco di notevole richiamo dal punto di vista commerciale, per esempio una licenza sportiva o cinematografica importante. Tuttavia non sempre AAA è sinonimo di gioco di grande qualità. La localizzazione d’altra parte è un processo che avviene oramai mentre lo sviluppo del prodotto è ancora nel “pieno”, e quindi sia le traduzioni sia il doppiaggio sono soggetti a numerosi aggiornamenti in funzione dei cambi apportati al materiale originale in corso d’opera. Le risorse e i tempi necessari dipendono dalle dimensioni dello stesso e dalle esigenze del cliente. Se il titolo è molto grande, per esempio, o i tempi di produzione ristretti in proporzione, un solo traduttore può non essere sufficiente, di conseguenza il responsabile del progetto (PM) identifica e assembla un team apposito di più traduttori, con di solito uno di questi a fare da riferimento per gli altri. Analogamente individua un team di più revisori (anche qui con un team leader di riferimento) che rileggono, testo originale a fronte, tutte le traduzioni, interfacciandosi con il responsabile della traduzione e del progetto. Quando si passa alla fase di registrazione audio, viene coinvolto il team dedicato, normalmente composto dal responsabile del reparto, un direttore audio e uno o più ingegneri del suono.
Synthesis fornisce sostanzialmente un servizio e cerca di soddisfare le esigenze del cliente sotto tutti gli aspetti (comunicazione, reattività, flessibilità, qualità dei servizi). È di solito il cliente che, in funzione delle dimensioni del progetto e delle proprie esigenze di marketing, detta delle tempistiche da rispettare: Synthesis semplicemente cerca di fornire il servizio migliore possibile nei tempi richiesti. Sempre a proposito dei tempi, c’è da dire che possono andare da poche settimane per dei quantitativi limitati di testo da tradurre e doppiare a molti mesi, proprio perché il gioco è in fase di sviluppo e soggetto quindi a molte modifiche, spesso anche ampie e strutturali. Le necessità del cliente poi determinano se una localizzazione viene confezionata in un arco di tempo concentrato (nella maggioranza dei casi) o se viene spalmato in un arco temporale piuttosto lungo (raramente a dire il vero).
Posso citare un paio di titoli che ho seguito personalmente per rendere forse l’idea:
Neverwinter Nights 2: circa 1.200.000 parole di traduzione complessiva, circa 5 mesi tra tutto, comprese le centinaia di aggiornamenti quotidiani, circa 200.000 parole di audio da doppiare, un mese di studio ed editing audio in parallelo; il tutto appunto in 5 mesi totali di tempo. Un solo traduttore sforna di media 3.000/3.500 parole al giorno, se è bravo e molto veloce può arrivare a 6.000. Facendo due conti, se traducesse NWN2 a tempo pieno a 5k al giorno ci impiegherebbe circa 11 mesi solo per quello.
Mass Effect: 650.000 parole di traduzione in 8 mesi e circa 400.000 di audio da doppiare in 6 mesi (se consideriamo solo le sei sessioni principali), il tutto spalmato nell’arco di circa un anno e mezzo, con diverse pause tra una batch e l’altra di traduzione e di registrazione.

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– Potresti descriverci brevemente le varie fasi di un processo totale di localizzazione per un titolo tripla A?
Di norma a monte del nostro lavoro c’è una fase preparatoria da parte del publisher il quale, tramite il proprio reparto localizzazioni e un producer interno che segue tutto lo sviluppo del prodotto presso i developer, mette le basi per far partire la localizzazione nelle diverse lingue. A quel punto il publisher passa la richiesta al fornitore (Synthesis). Come detto si comincia con un’analisi del materiale ricevuto per individuare le risorse necessarie e le possibili problematiche, questo a fronte anche delle richieste del cliente, il quale oltre ai tempi, detta le condizioni e i formati in cui desidera ricevere il materiale. A ogni modo di solito si inizia con la traduzione del testo in-game e dello script audio, e in quella fase si costruiscono o si recuperano dei glossari di riferimento. Per capirci, se per esempio il gioco è basato su D&D 3.5 si fa riferimento al materiale cartaceo esistente per tutta la terminologia ufficiale, ma poi viene costruito un glossario ad hoc per tutti i termini e i nomi specifici del gioco. A inizio progetto, di solito, il cliente fornisce il materiale di supporto disponibile, come ad esempio il design e le biografie dei personaggi principali, la trama e quant’altro. Quando la fase della produzione audio si avvicina, riceviamo il materiale relativo: dapprima il casting originale US o UK per poterci portare avanti nel selezionare le voci italiane adatte, e successivamente il database dei file audio originali, i video se disponibili e tutto il materiale di supporto che possa servire a organizzare il doppiaggio. Si controlla quindi che il materiale audio fornito e lo script audio corrispondano perfettamente e in tal caso si può procedere con le registrazioni e la post produzione del materiale registrato. Sembra incredibile, ma spesso e volentieri nel materiale sorgente troviamo file audio che avanzano, altri che mancano, parlato che non corrisponde al testo dei copioni… Ogni nuovo progetto è una sorpresa e può portare mille e diverse problematiche da dover affrontare.
I tempi di registrazione variano non solo in funzione della quantità, ma anche della tipologia di registrazione necessaria: un audio, infatti, può essere fuori campo o può necessitare di restrizioni temporali particolari, magari col rispetto delle lunghezze dei singoli file audio e delle pause interne per ogni frase, per arrivare al sync labiale in caso di sequenze video prerenderizzate di stampo cinematografico (se disponibili). L’editing audio post registrazione spesso si traduce sostanzialmente nel tagliare e nominare i file audio come i sorgenti di riferimento, pulirli da eventuali click e rumori, e normalizzare/equalizzare i volumi in modo da renderli uniformi. A volte ci vengono richiesti anche la post produzione effetti (tipo effetti radio, eco, riverberi, ecc) e il sync labiale alle sequenze video, o il mix con musiche ed effetti, ma queste ultime sono sempre più rare perché spesso localizziamo quando i filmati non sono ancora disponibili.
Una volta consegnato il materiale al cliente, gli sviluppatori pensano normalmente all’integrazione nel gioco e quindi si procede con il testing e il debugging. Molti publisher hanno squadre di testing interne o usano società terze specializzate in questo tipo di servizio. Synthesis fornisce ovviamente anche un servizio di testing, che tra l’altro sta cercando di espandere, ma in proporzione sono molto pochi i giochi di cui facciamo la localizzazione che abbiamo poi la possibilità di testare.

– Chi sostiene i costi della localizzazione (parziale o completa che sia) di un videogioco?
Il cliente che commissiona il lavoro (di solito il publisher, a volte il distributore locale). Ritengo che gli accordi economici a monte poi tra il publisher, lo sviluppatore e il distributore locale cambino a seconda di chi sostiene i costi.

– Quanto è determinante il supporto che si riceve dai publisher e dagli sviluppatori in fase di traduzione?
È sempre stato importante, ma adesso è vitale. Una volta i giochi erano di dimensioni più contenute e le versioni localizzate uscivano con un certo ritardo rispetto alla versione UK o US, quindi si lavorava su materiale più definitivo e in condizioni decisamente migliori. Adesso che invece le dimensioni dei giochi sono aumentate progressivamente, i tempi di lavorazione paradossalmente sono stati anticipati e ridotti perché i publisher mirano sempre più spesso a un’uscita in contemporanea in tutto il mondo, o per lo meno in tutta Europa, soprattutto per combattere la pirateria. Quindi, sempre più raramente abbiamo filmati definitivi a disposizione su cui poter lavorare come se stessimo doppiando un film, e quasi mai iniziamo la traduzione di un gioco con testi finalizzati. Anzi, è oramai diventato non solo un lavoro continuativo e a catena, ma anche in cascata. Per tanto, migliore e maggiore è il supporto che publisher e sviluppatori ci forniscono, migliore è il servizio che possiamo fornire.

A domani per la seconda parte! 😉

Sinking Island: Un’indagine di Jack Norm

Il ritorno di Benoît Sokal non poteva passare meno in sordina. A differenza dell’ingente budget investito in pubblicità per la sua precedente avventura grafica (Paradise, flop inaspettato), questa volta nulla è stato fatto per promuovere il nuovo titolo della White Birds Productions, prima avventura a sfondo giallo per il buon Benoît, facendolo passare quasi inosservato. Questo titolo, dalla media longevità, gode di una realizzazione alquanto altalenante: se da un lato abbiamo dei fantastici fondali realizzati con maestria (dopotutto è proprio questo che si cerca in un’avventura di Sokal) e animati egregiamente, dall’altro lato abbiamo i modelli poligonali dei personaggi realizzati con molta approssimazione e che stridono abbastanza con il resto (specialmente se confrontati con gli artwork che appaiono ogni volta che si discute con loro). A peggiorare il tutto, la versione nostrana gode di un doppiaggio ai limiti della denuncia che quasi sfiora la palma del peggiore nel genere (ancora detenuta da The Moment Of Silence); un vero peccato, soprattutto perché essendo un’avventura investigativa, i dialoghi occupano una fetta importante del tempo di gioco. E pensare che i precedenti lavori di Sokal hanno sempre avuto doppiaggi degni.

Sinking Island su Ars Ludica

Le cose da fare non sono poi molte, la struttura di gioco si riduce ad un chiedi chiedi generale a tappeto a tutti i residenti dell’imponente costruzione in cui è ambientato il gioco e quei pochi enigmi (un paio) che incontrerete saranno di facile soluzione. Alla luce di queste prime righe, il gioco pare da bocciare senza remore, beh in verità non è così e vi spiego perché. L’ambientazione è estremamente suggestiva, la trama è intrigante, seppure abbastanza classica per il genere, i personaggi coinvolti sono tanti e sarà molto interessante scoprire ciò che nascondono con il procedere delle tre giornate di gioco. Sì, perché il gioco offre la possibilità di simulare lo scorrere del tempo (una feature interessante ma che si può disabilitare), concedendovi 3 giorni di tempo (proporzionali allo scorrere del tempo nel gioco) per risolvere il caso e lasciare l’isola con il colpevole in manette. A questo aggiungiamo il personal police assistant, uno strumento davvero ben realizzato, fulcro dell’impianto ludico, che permette di confrontare e relazionare tutte le dichiarazioni, foto, indizi e prove raccolte, aiutandoci a comporre un puzzle che alla fine ci porterà a scoprire l’assassino. In sostanza, ciò che più conta nella struttura di gioco è fatto davvero bene.

Sinking Island su Ars Ludica

In conclusione, se riuscite a passar sopra al doppiaggio (io ce l’ho fatta con difficoltà, ma alla fine un pò ci si abitua) e non avete paura di lunghi dialoghi con un po’ di pixel hunting a condire il tutto (ma alla fine in quale avventura punta e clicca degna di questo nome manca?) e magari siete anche fan di Benoît Sokal, questo gioco può valere il prezzo (pieno, circa 40 euro) che costa.