Ho letto con interesse la lettera con la quale Alessandro Bottoni ha voluto condividere i suoi pensieri con i lettori di Punto Informatico; suggestiva la sua metafora, calzanti gli esempi di alcuni applicativi open source che hanno la loro ragione di esistere anche quando sono (e raramente non lo sono) cloni o versioni semplificate di qualcos’altro. E’ palese che nessuno studente avrà mai a disposizione cinquecento o svariate migliaia di euro per acquistare una licenza di Microsoft Office, S, Matlab; lo stesso studente potrà però attingere all’ottimo lavoro svolto dagli sviluppatori di OpenOffice, R, Scilab e Octave; esigenze analoghe, magari meno scientifiche, avrà anche l’utente quadratico medio, a cui più che un foglio di calcolo per il suo bilancio casalingo, e un word processor per stampare l’imprescindibile “Vietato lasciare biciclette nell’androne”, anzi, TUTTO IN MAIUSCOLO, non serve.
Chi scrive, per vivere, fa il programmatore (in una felice isola contrattuale di uno scenario generale di sfruttamento legalizzato) ed è libero dai talebanismi assortiti che rendono sempre colorite e inutili le discussioni nei forum: in genere, compatibilmente con il portafoglio, quello che usa è il software migliore, se non in assoluto, almeno per il suo modo di lavorare; acquista la licenza di ogni software commerciale che usa (per Microsoft Office 2007 ha approfittato della promozione per studenti, in quanto ancora iscritto all’università), e per quelli non commerciali si informa sempre sui canali di finanziamento volontario. Quando racconta, con la massima naturalezza, di come dispone dei suoi risparmi, con altrettanta naturalezza si prende anche del coglione dal “furbo” di turno. Lo scenario ipotetico prospettato dal Bottoni è fallace allorquando l’amico dell’aspirante tesista gli propone, in sostituzione di software commerciali, software gratuiti invece che, più realisticamente, gli stessi software commerciali piratati.
Il messaggio che non si vede passare mai è che anche uno sviluppatore ha bisogno di mangiare; per chi non dispone del Dizionario del Senso Comune, ciò vuol dire che ha bisogno di lavorare ed essere pagato equamente per il suo lavoro. Il mercato del software è così sfaccettato che non è possibile dire in generale se il modello vincente sia quello commerciale o quello open source: banalmente, dipende dal campo di applicazione (come particolareggiato da Alessandro Bottoni). Se da un lato un sistema operativo gratuito come GNU/Linux può avere i contributi anche (e soprattutto) puramente volontari di numerosi sviluppatori da ogni parte del mondo, perché essi stessi potranno trarre beneficio (anche economico) dall’avere a disposizione uno strumento completo e funzionante, adatto per numerosi utilizzi, dall’altro ci sono settori pur di grandissimo interesse pubblico (proprio ciò che il Bottoni ritiene essere la discriminante) in cui non è stata ancora dimostrata, aldilà di ottime prove di livello amatoriale, l’efficenza del modello di sviluppo open source.
Il principe di questi settori è quello dei videogiochi.
Se vi capita di tenere d’occhio lo sviluppo di qualche software open source, vi sarete senz’altro accorti di un denominatore comune: i rilasci frequenti, e le differenze minime tra uno e l’altro (in molti casi i rilasci non sono nemmeno frequenti, ma in altri le differenze sono più marcate). Se invece date uno sguardo al mercato dei videogiochi, ne notate il comportamento quasi fecondatorio: mesi e anni di sviluppo, per arrivare sugli scaffali col supporto delle fanfare del marketing, sperando di beccare “il periodo fertile” dell’acquirente e di convincerlo; se l’operazione non riesce nelle prime settimane, se non si scalano le classifiche di vendita, i milioni investiti sono come andati persi. Una parola del precedente periodo difficilmente fa parte del lessico di un progetto di videogioco open source: milioni; oggi i giochi costano milioni, e non sono alla portata nemmeno della più grande delle community.
Ho fatto l’esperienza di acquistare un gioco in via di sviluppo (closed source) con Mount & Blade. Mi sono divertito molto per un po’, ma alla terza release passata dal momento del mio acquisto mi sono reso conto, oltre alla seccatura di dover ogni volta ricominciare da capo per incompatibilità di salvataggi, di quanto poco incidessero sulla mia esperienza di gioco sei mesi di lavoro di un team di sviluppo, presumibilmente non comparabile come efficenza (probabilmente per via dell’organico) a quelli a disposizione delle più grandi software house; va da sé che per la maggior parte dei videogiocatori un videogioco non online per cui l’interesse duri più di 6 mesi è un caso più unico che raro (ma è vero che in settori di nicchia, come i simulatori di volo, può succedere). Lo stesso World of Warcraft ha bisogno, da parte di Blizzard, di un impegno massiccio e costante, con qualche bella espansione corposa rilasciata di tanto in tanto; la possibilità di rendere open source Saga of Ryzom è sfumata, ma sono convinto che se per più di una ragione sarebbe stato un esperimento interessante, per ancora più ragioni si sarebbe rivelato un fallimento per il modello di sviluppo del “mi ci metto stasera dopo aver messo a letto i bambini, ma non troppo a lungo che domani devo lavorare” applicato al campo dei videogiochi (in qualche progetto open source è stata una decisione sofferta, quella di assumere qualcuno come dipendente fisso della fondazione).
Se è vero, come riporta da Nolan Bushnell il Bottoni, che il videogioco non è solo un medium, va tuttavia ricordato che appunto è anche un medium. Ben diverso è un videogioco da qualsiasi altro software, in quanto oggetto fruibile e in genere per nulla utile. Un videogioco diverte, laddove un generico applicativo aiuta. E visto che siamo fondamentalmente degli ingrati bamboccioni, se proprio dobbiamo spendere dei soldi (e nessuno nei dintorni ci dà del coglione), preferiamo buttarli nella promessa di un mesetto-due di svago piuttosto che in due-tre anni di sicura produttività.
Nel campo dei videogiochi open source si hanno esempi di giochi graziosi che in 10 anni hanno avuto, al più, qualche rado bugfix; da quando è uscito Tetris, qualunque programmatore alle prime armi ha voluto fare la sua versione di Tetris; da quando la id Software ha rilasciato i sorgenti dei suoi gloriosi fps, abbiamo avuto una versione di Doom per ogni benedetta piattaforma; Lemmings e Puzzle Bobble, per dirne due di molti, hanno subito porting e clonazioni a profusione. Ci sono progetti interessanti nel circuito indie, ma seguono logiche compatibili con il mercato (non ultimo il fatto che qualche soldo lo vorrebbero anche racimolare). Ci sono anche progetti interessanti in campo open source; spesso però si concludono in un nulla di fatto, o se concretizzano qualcosa difficilmente possono reggere il confronto con i prodotti commerciali; non regge nemmeno più la scusa “su linux ci sono solo questi”, che portava indomiti talebani del software libero a fingere di divertirsi con giochini obsoleti, perché WinE e Cedega permettono di eseguire forse la maggioranza dei giochi commerciali che siano usciti per Windows (con effetti paradossali come giochi che funzionano su Wine e non su Windows XP).
La sostanza è che l’innovazione non parrebbe essere di casa in un videogioco open source (per quanto ben fatto, divertente, didattico possa essere); continuare a scrivere e riscrivere sempre le stesse cose può essere un esercizio interessante, non un core business; i game designer e gli ingegneri del software, oltre che gli artisti e i tecnici capaci, non crescono sugli alberi, e migliaia di menti *non* ne fanno una (di collettivo a volte c’è la stupidità, non l’intelligenza).
Ma il discorso fatto è in fondo ozioso: in un mercato che alletta con milioni di copie vendute (certo, per pochi fortunati), chi ha bisogno di lavorare gratis?