[Retrocrap] Fuck-Man & Fuckman

Estate, tempo di Retrocrap a manetta dopo la lunga pausa che aveva segnato lo stop della rubrica per qualche mese. Quindi, get ready for the next fuck! Oh yeah!

Ho sempre pensato che i giochi erotici sul Commodore 64 fossero come una marmellata di rape: anche se si chiama marmellata, fa cagare. Gli enormi pixel dei sistemi a 8 bit mal si adattavano a rappresentare le forme del corpo umano e la maggior parte dei numerosi giochi erotici pubblicati sui diversi sistemi è considerabile alla stregua di spazzatura binaria. Fuck-Man e Fuckman non fanno eccezione.

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In Fuck-Man l’utilizzatore finale del videogioco deve guidare un ometto dall’erezione continua e prorompente per fargli raggiungere una ragazza da… sì, insomma… dai… ecco, Ghedini ci viene in aiuto: l’ometto (chiamato Fuckin’ Freddie… i genitori dovevano avere un grosso senso dell’umorismo) deve utilizzare finalmente l’ometta (chiamata Lolita… ma affidare sti figli a degli assistenti sociali pareva brutto?). Gli elementi che lo compongono sono: uno sfondo bianco su cui si stagliano i minuscoli e mal disegnati sprite dell’uomo e della donna nudi. Di frame di animazione nemmeno a parlarne. Per riuscire a superare i diversi livelli bisogna cercare di allineare i genitali dei due protagonisti. In premio si riceve una scritta seguita da un nuovo livello in cui il tempo a disposizione per l’accoppiamento si consuma più rapidamente rispetto al precedente e il protagonista maschile parte da una posizione dello schermo diversa (probabilmente casuale).

Ecco, se riuscite a eccitarvi con questa roba aspettate che vi passo un macigno con cappio con cui potete tranquillamente affogarvi nel più vicino specchio d’acqua, fosse pure una vasca da bagno. Probabilmente lo sviluppatore si era bevuto il cervello, non tanto durante la realizzazione del gioco, quanto quando decise che era accettabile immetterlo sul mercato.

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Ma veniamo a Fuckman, altro gioco erotico dal titolo identico al precedente ma senza trattino e con la “m” minuscola. Qui le cose si complicano: lo sfondo è formato da una griglia di quadratini e il giocatore è chiamato a guidare un pene che giganteggia sullo schermo. Lo scopo è raggiungere una sezione di corpo femminile con cui accoppiarsi. Gli unici ostacoli tra il pene e la gloria sono delle forbici che non vedono l’ora di castrarci e il fatto che le suddette sezioni di corpo siano in movimento. Volendo è possibile raggiungere una bocca che dà dei punti bonus. Il gioco si esaurisce dopo tre livelli, passati i quali le forbici diventano più veloci… talmente veloci che sono quasi impossibili da evitare, se non realmente impossibili (non ho approfondito).

Quello che stupisce di Fuckman è il ritmo lento, lentissimo dell’azione. Talmente lento che tra un movimento e il successivo è possibile finire un paio di incontri di Street Fighter IV oppure legare i capezzoli al ventilatore e farli girare un po’ cantando “Oh it won’t rain all the time.The sky won’t fall forever”, dando un senso diverso all’esistenza e alle ragadi.

Sono due giochi di merda, questo è indubbio, ma ci aiutano a capire che Dio non esiste. Sì, perché se Dio esistesse non avrebbe permesso che nella mente degli esseri umani ci fosse spazio per escrementi simili, oppure avrebbe fulminato gli sviluppatori mentre stavano digitando il codice di cotante porcherie. Invece niente: Dio non solo ha permesso che portassero a termine lo sviluppo, ma anche che il resto del genere umano rischiasse di imbattercisi girando su internet. Dio, mi senti? Dio! Questa me la lego al dito! E che diavolo! Mi eri molto più simpatico quando distruggevi le città, salavi le donne solo perché ti avevano visto all’opera e suggerivi a un tuo fedelissimo di mettere le corna alla moglie per avere un figlio, per poi fargliene avere un altro in vecchiaia costringendolo a cacciare il primo e obbligandolo a offrirtelo in sacrificio, salvandolo a pochi secondi dallo sgozzamento urlando “scherzone” (poi dicono che le bestemmie sono offensive…).

Commento: compreso il perché della crisi economica? Quelli che l’hanno causata sono cresciuti masturbandosi con questa roba.

Da ricordare: il trattino che distingue i due titoli.

Giudizio sintetico: Onan avrebbe gradito.

Avventure grafiche e leggende urbane

Space Quest IV 2Occorre sfatare un mito, ovvero quello per cui in tempi remoti le avventure grafiche affascinavano soltanto grazie alla storia e non per meriti tecnologici. Parlo degli anni ottanta e dei primi anni novanta. Beh, semplicemente non è vero. Parte del successo del genere era dovuto proprio all’eccellenza tecnica che rappresentavano, almeno su Personal Computer. Sembra paradossale, ma non lo è. Semplicemente all’epoca i giochi d’azione non erano graficamente eccezionali come lo sono ora, i PC, lungi dall’essere macchine da gioco di primo piano, non riuscivano a gestire il semplice scrolling dello schermo, mentre gli Amiga, pur cavandosela enormemente meglio in tal senso, non offrivano giochi della qualità visiva degni degli arcade. Quello delle avventure grafiche era uno dei generi che meglio si adattava ai computer e che più riusciva a mostrarne le potenzialità tecnologiche. Il motivo era molto semplice: la maggior parte delle adventure era formata da schermate fisse che potevano essere disegnate con maggiore accuratezza rispetto ai giochi con livelli più complessi formati da più schermate, come un platform o uno sparatutto, dove i limiti di memoria e di potenza di elaborazione (scusate la rozzezza di certi termini e correggetemi se scrivo qualche bestemmia) costringevano a semplificare gli sfondi e a usare elementi spesso stilizzati e ripetuti più volte per tutto il livello. Il 3D era ancora poco sfruttato perché i computer casalinghi non erano abbastanza potenti da gestirlo al meglio.

Uno degli elementi vincenti delle avventure grafiche era, quindi, proprio la bellezza del disegno in sé stesso, che corrispondeva al massimo tecnologico esprimibile all’epoca. Per fare un esempio, non fu Space Quest IV il primo videogioco a sfruttare massicciamente i 256 colori sullo schermo delle nuove schede VGA, con sfoggio inusitato di sfumature ed esaltazione associata da parte della stampa specializzata e degli utenti? Le avventure grafiche permettevano virtuosismi tecnici e un realismo nella composizione delle immagini che gli altri generi ancora non si potevano permettere, ne sognare. Basta confrontare una schermata del primo Monkey Island con una di Commander Keen, entrambi pubblicati nel 1990, per rendersene conto.

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Non per niente il calo d’interesse per le avventure grafiche si è avuto quando hanno smesso di rappresentare una vetrina tecnologica e sono state soppiantate dai nuovi generi emergenti, come gli FPS o i GDR tridimensionali, ovvero quando è avvenuto il passaggio definitivo dal 2D al 3D e, soprattutto, quando si sono affermati sul mercato gli acceleratori grafici, poco sfruttabili con titoli essenzialmente bidimensionali e che iniziavano a tradire la loro natura prettamente statica. Insomma, con l’emergere di nuove tecnologie, la bellezza delle singole schermate venne percepita sempre meno come un segno di eccellenza tecnologica, mentre la rigidissima struttura del genere divenne un peso che molti dei nuovi videogiocatori, a caccia di titoli più attivi e spettacolari, non gradirono affatto.

Attenzione, non sto dicendo che il fascino delle avventure grafiche risiedesse soltanto nella bellezza grafica, dico che era un elemento essenziale per renderle appetibili e che, quando è venuto meno, il genere si è dovuto rinventare le sue priorità per coinvolgere una vasta nicchia di appassionati che ne ha garantito il ritorno sul mercato, creando il mito romantico della narrazione come perno intorno a cui ruotava il successo del genere.

[Retrocrap] Moonwalker

Prodotto da U.S. Gold | Sviluppato da Emerald Software | Piattaforme Amica, Atari ST, Commodore 64, ZX Spectrum, Amstrad CPC e altre | Rilasciato nel 1989

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C’era una volta un uomo nero che era diventato bianco. Qualcuno lo accusò di pedofilia per cacciarci un po’ di soldi, visto che il tipo in questione era molto ricco e decisamente eccentrico. Quest’uomo è morto pieno di farmaci. La gente comune, quella semplice che non si pone troppi problemi, quella che vive alla giornata, ma sì dai, tipo quella massa di coglioni che si incontrano per Via del Corso il Sabato pomeriggio, come sempre accade con i morti, non ha tardato a mostrargli tutto il suo amore; anche quelli che fino al giorno prima lo ingiuriavano e usavano il suo nome per condire le barzellette sconce. C’è gente che, senza conoscerlo, quando ha saputo che è morto si è fatta venire un infarto soltanto per partecipare attivamente al clima di commozione generale (si saranno detti che se gli dedica uno speciale Italia 1, sarà pur qualcuno per cui vale la pena farsi venire un colpo al cuore). In questo effluvio di sentimenti contrastanti, nessuno ha ricordato la sua colpa maggiore, quella per cui non esiste inferno adatto all’espiazione (altro che pedofilia): Moonwalker per Commodore 64.

Ora, si dà il caso che altri videogiochi con protagonista Michael Jackson non siano malaccio. Moonwalker per Megadrive, e la versione coin-op, sono degli ottimi titoli, pur diversi tra loro, che ancora oggi fanno parte dei sogni erotici di molti videogiocatori. Purtroppo lo stesso non si può dire delle versioni per computer a 8 e 16 bit che erano semplicemente agghiaccianti; non al livello del frullato di caccole che ho bevuto questa mattina, ma ci andiamo vicini.

La versione oggetto di questa recensione è quella per Commodore 64. Ci giocai all’epoca della prima edizione (ce l’avevo addirittura originale) e ora potete capire come ho fatto a diventare lo stronzo che sono (dieci minuti d’applausi, per favore). Avviato il gioco ci troviamo alla guida di uno sprite deformato e mal colorato che deve recuperare degli oggetti in un labirinto, ovvero una visione profetica di quello che Michael Jackson sarebbe diventato. A metterci i bastoni tra le ruote ci pensano degli strani tizi su carrozzelle e cavalli che dovrebbero essere dei fan. Problema numero uno: il labirinto è bello grosso e Michael Jackson è molto lento. Può correre, è vero, ma la corsa si esaurisce e sprecarla per esplorare significa trovarsi scoperti nel caso di un assalto nemico, poiché tutti i freak che girano per il labirinto sono più veloci di Jacko. Da qui deriva il problema numero due: per attraversare il labirinto ci vuole un sacco di tempo e bisogna impararselo a memoria, visto che è pieno di vicoli ciechi che obbligano a ritornare spesso sui propri passi. Ergo, quando si gioca è necessario tenere a portata di mano una carriola per reggere il peso delle palle gonfiate dalla noia più nera.

Noia che esplode quando si arriva al secondo livello, praticamente identico al primo, solo più incasinato. Ok, sopportiamo. Da bambino l’ho finito. Come diavolo ho fatto? Forse per la bella musica (le versione MSX e Spectrum non avevano nemmeno quella)? Come ho resistito? Ero io? Oppure ricordo la vita di qualcun altro che poi è diventato un tossicodipendente? Perché Michael Jackson ha permesso che la sua immagine venisse apposta su questa mondezza? Perché nessuno gli fa pesare una simile colpa ora che è morto? Esiste un girone infernale dei prestatori di faccia per giochi di merda? Non lo si può rievocare con un rito voodoo per dirgliene quattro?

Elencare i difetti di questo gioco è piacevole come cadere di culo su dei chiodi arroventati. Come descrivereste il genio che ha riempito il labirinto di corridoi larghi come i nemici, rendendoli delle trappole mortali spesso inevitabili? Cosa direste a chi ha deciso che ogni volta che si perde una vita bisogna ritornare all’inizio del livello? Eppure ce la faccio. È brutto ma si riesce ad avanzare, anche perché si inizia con un godziliardo di vite. Poi arrivano le fasi sparatutto e il mondo crolla. Mai visto niente di più lento e statico, roba che due vecchi che trombano sono più dinamici. È tutto così lento che tra un colpo e un altro riesco a pettinarmi le sopracciglia con un piede. Roba da perderci il sonno.

Commento: è che a noi Michael Jackon piace ricordarlo come il protagonista di quel piccolo gioiello che è il coin op della Sega, non come questo putrido mucchio di pixel scorreggiati sullo schermo.

Da ricordare: la colonna sonora e i mesi di stitichezza causati da sessioni di gioco più lunghe di dieci minuti.

Giudizio sintetico: it’s bad.

Drakensang

Sviluppato da Radon Labs | Distribuito da FX Interactive | Piattaforma PC | Rilasciato nel 2009 (IT)

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Drakensang è un bel gioco. Non ha quasi nulla che non vada in termini strettamente ludici. Eppure l’ho disinstallato alla fine del secondo capitolo (sono otto in totale). Lasciamo perdere la realizzazione tecnica, francamente poco meno che mediocre ma che non ha influito sulla sovvenuta necessità di smettere di giocare. La creazione del personaggio è promettente, con una scheda personaggio non proprio immediata da comprendere e un sacco di statistiche e abilità da considerare.

Ho creato un guerriero. Sono soddisfatto. Avvio l’avventura. Durante il caricamento viene letta una lettera di un certo Ardo, caro amico del protagonista, che lo invita nella città di Ferdok per parlare di affari della massima urgenza. I primi minuti di gioco li passo a prendere confidenza con l’interfaccia. Non ci vuole molto. Si respira un’aria famigliare. Il classico mondo fantasy. Parlo con il primo personaggio sulla strada, una guardia piuttosto scontrosa che mi introduce alla prima delle molte missioni che dovrò svolgere: come entrare nella città di Ferdok? Il passaggio è impedito per problemi di ordine pubblico. Ho bisogno di due persone che garantiscano per me.

Inizio a cercare. Incontro un’artista di strada con suo fratello. Lei è caratterizzata come una donna di mondo, una entreneuse spigliata e dalla lingua aguzza. Lui è un pagliaccio (lavorativamente parlando) scontroso e irascibile. Pare che l’uomo di Salina, questo il nome della donna, le abbia rubato un diadema. Se lo recupero sarà lei la prima a raccomandarmi. Giro ancora un po’. Trovo due novizi su un ponte. Il loro mentore, un potente mago, è sparito nelle profondità di una miniera. Per ottenere la seconda raccomandazione che mi serve devo ritrovarlo. Girovagando per l’area incontro un locandiere pettegolo, un’amazzone mascolina (la prima compagna di viaggio), un prete buono, un mercenario filosofo, un cacciatore che vive nei boschi, un cavaliere lunatico e così via.

Drakensang è un gioco bellissimo, lo ribadisco, ma soltanto se si è vergini. Come meccaniche di gioco di ruolo è molto sopra a un Oblivion o un Two Worlds qualsiasi. Il problema è che si nutre di stereotipi in modo talmente marcato da risultare insopportabile. I personaggi sembrano usciti dal manuale del perfetto narratore fantasy, non c’è mai una sorpresa, un colpo di genio, una variazione sul tema. Insomma, non c’è mai un accenno di fuga dal già visto.

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Almeno i primi due capitoli non si fanno mancare veramente nulla, tra la vecchia inacidita e il ladro seduttore e menzognero, c’è spazio per i topi giganti che hanno occupato un mulino e per una banda di ladri nascosta nella vicina foresta. La stessa trama puzza di già sentito e, ottenuto l’accesso alla città ci si ritrova con l’amico morto e alcuni quartieri chiusi a causa di una serie di misteriosi omicidi (qualcuno ha detto Neverqualcosa?). Sì, c’è anche la gilda del ladri. Non esiste una città fantasy senza una gilda dei ladri. Il problema principale del gioco è che non fa nulla per interessare. Veramente nulla. All’udienza con il principe non ce l’ho fatta più. Non avevo veramente motivo per andare avanti.

Ci sarebbero altri difetti che andrebbero sottolineati, come i combattimenti asettici o il sistema di scasso che scassa a ogni cassa che va scassinata, soprattutto quando le serrature sono molto toste e obbligano a passare lunghi minuti a fare tentativi (fra un tentativo fallito e il successivo c’è un periodo di dieci secondi in cui il personaggio ha le mani tremolanti ed è inutile ritentare); ma si tratta sostanzialmente di dettagli rispetto alla questione principale, ovvero la banalità di fondo che lo permea in ogni pixel.

Ad aggravare la situazione ci pensa la lentezza negli spostamenti e la carenza cronica di interazioni interessanti. Ho citato il bandito che vuole farsi pagare per farci passare? Banalità più, banalità meno. Anche le missioni secondarie non sono interessantissime e solitamente si limitano a ripercorrere gli stilemi del genere come vai a cercare tizio, oppure recupera l’oggetto finito nelle fogne e cose del genere. E pensare che un titolo come Oblivion veniva salvato proprio dalle missioni secondarie.

Insomma, che altro dire? Sicuramente è un bel gioco fantasy, su questo non ci piove. Ma considerate che è come invitare a pranzo Jessica Fletcher e vantarsi di aver previsto il morto.

No More Heroes

Sviluppato da Grasshopper Manufacture | Distribuito da Ubisoft | Piattaforma Nintendo Wii | Rilasciato nel marzo 2008 (EU)

Spigoloso, abrasivo, irriverente.

Travis Touchdown ha due obiettivi, scoparsi la conturbante Silvia e diventare il Killer numero 1 di Santa Destroy.

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Alla luce del primo trailer (in cui si vede un Travis leggermente diverso da quello della versione definitiva del gioco) ci si sarebbe potuto aspettare di tutto dai Grasshopper, team capitanato dal funambolico SUDA 51, game designer che continuerà a far parlare di sé per molto tempo ancora. In effetti dopo il viaggio schizzato e psichedelico di Killer 7 c’era chi lo dava per spacciato e chi invece si aspettava grandi cose dai titoli a venire, come me. Definendomi un videogiocatore a 360° so apprezzare anche titoli in cui la fuffa prende il sopravvento sul gameplay, come nel caso del titolo appena citato. No More Heroes però, offre più sostanza.

No More Heroes su Ars Ludica
L’inizio di No More Heroes è dei più epici e devastanti: Travis irrompe nella villa del suo primo avversario con un’immensa moto, decapitando al volo due scagnozzi al grido di “FUCKHEADS!” sugli strilli di una chitarra distorta. Si può non amare un personaggio del genere? La violenza in your face di questo titolo è un pilastro portante per la fruizione dello stesso, pienamente gustabile solo nella versione americana (quindi attrezzatevi di conseguenza). Ciò che rende divertente e assuefacente NMH è la caccia ai boss; non vedremo l’ora di scalare la classifica per godere della sceneggiatura riservata ad ognuno di essi, data l’alta qualità delle cinematiche. Tutto il resto è semplice contorno perditempo, ma almeno c’è. Per poter fronteggiare i diversi Killer, dovremo versare una quota che aumenterà ogni qualvolta saliremo di grado, per raccogliere il vil danaro potremo dilettarci in diversi lavori part-time che a loro volta ci apriranno le porte a diversi omicidi ben più remunerativi e spesso tosti. Una buona parte di pecunia la spenderemo per comprare nuove beam katane, upgrades, aumentare i valori fisici di Travis e il suo parco mosse (che comprendono diverse popolari prese da wrestling, una delle passioni di SUDA51).
Il tutto si svolge a Santa Destroy, cittadina esplorabile in lungo e in largo come il più classico dei Grand Theft Auto, peccato ci sia ben poco da vedere e che le collisioni siano gestite davvero malamente. Il comparto grafico è innegabilmente povero, ma con tanta cura riposta nei personaggi principali che per quanto spigolosi sono caratterizzati pregevolmente sia nelle movenze che nella personalità. I boss in particolare hanno stile da vendere e pur concedendoci pochi secondi per conoscerli prima di farli a fettine, non ve li scorderete facilmente. Siamo lontani dallo stile astratto e schizzato di Killer 7 (che preferisco, esteticamente) e a volte lo scarso dettaglio e minimalismo sembrano quasi una scusa per averci messo davvero poco impegno nel curare la grafica di questo gioco. Tra l’altro la fluidità a tratti è incerta, quindi c’è molto da recriminare. Assolutamente piacevoli e ruffiani i vari richiami all’era 8 bit e in generale agli Eighties. A donare la giusta tamarraggine e carisma al gioco ci pensa la colonna sonora che spazia da pezzi elettronici a pezzi più aggressivi che confinano con l’heavy metal più duro passando per la musica da sala. Un doppiaggio curato e azzeccato completa i tratti caratteriali di ogni personaggio di rilievo, con menzione speciale per Travis e Silvia, quest’ultima dall’arrapante accento tedesco.

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Il gameplay è un po’ ripetitivo nei combattimenti, che alla fin della fiera si basa sulle stesse combo per diverse ore di gioco (con delle varianti in base alla katana imbracciata), il tutto però poggià su una fisicità e un sonoro che regalano sempre momenti di esaltazione grazie alle esplosive dipartite dei nemici, a seguito di chirurgiche decapitazioni e amputazioni varie, completate da piogge di sangue e monetine. Non vi stancherete mai! Il Wiimote è usato in maniera intelligente e per niente invasiva e aiuta a enfatizzare le mosse più violente e quelle finali, insieme ai vari suplex che apprenderemo nel corso del gioco. Divertenti alcuni part-time job, in cui il Wiimote è assoluto protagonista. La trama è banale, ma i siparietti riservati dagli intermezzi sono imperdibili. Travis è un personaggio tutto d’un pezzo noncurante dei colpi di scena che lo coinvolgono personalmente e noi lo condurremo verso il giardino della follia. Il finale di NMH mi ha lasciato con un malvagio sorriso in viso e con tanta voglia di mettere le mani sul seguito già annunciato mesi fa. La mia speranza è che venga rifinito un bel po’ per offrire un’esperienza di gioco migliore e più varia. Nell’attesa consiglio soprattutto ai giocatori più navigati di dargli una chance, raccomandandovi di nuovo la versione USA completa di tutti i suoi sanguinolenti contenuti.

So, buy this game and head for the garden of madness!

Il difficile rapporto con i classici

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Il rapporto con i classici è sempre conflittuale. Ci sono state epoche che hanno eletto i testi antichi a motore culturale, assurgendoli a miti inviolabili e cercandoci dentro temi e regole per i testi moderni. Basta pensare alle tre unità aristoteliche per rendersi conto di quello che dico.

In tempi recenti, dissacrata la visione dei classici come portatori di chissà quali verità, aperta la cultura al mondo e, soprattutto, scoperta la necessità di vendere più merda possibile, l’arte tutta ha messo sul piedistallo la polluzione notturna, abbandonando programmaticamente ogni punto di riferimento e gettandosi nel vuoto. Qualcuno chiama questa tendenza post-modernismo. Altri, più realisticamente, commercio. Se devi vendere qualcosa a qualcuno devi fargli credere che sia la migliore possibile e che la “bellezza” della cosa in questione dipenda soltanto dai gusti personali i quali, guarda caso, corrispondono spesso a quelli degli addetti marketing delle multinazionali.

Nel mondo dei videogiochi la tendenza alla dissacrazione dei classici non esiste, ovvero non esiste nemmeno un concetto ben definito di classico. Poiché è solo una questione di gusti, ognuno ha i suoi classici e tutti siamo più felici e incoscienti. In questo modo è possibile non solo stabilire che non esiste niente di meglio che il presente, letto sempre come il migliore degli sviluppi possibile, superabile soltanto dal presente successivo, il quale afferma e calcifica la stessa formula, generando un loop di ottimismo tecnologico ottuso e acritico, ma anche ridurre lo sviluppo storico del medium a una mera cavalcata tecnologica che, di progresso in progresso, segnerebbe sempre un ipotetico e irragiungibile punto di arrivo, rivoluzionario rispetto all’immediato passato, che ben presto si cerca di far sparire dalla memoria collettiva in quando necessariamente superabile.

“È che devono pur vendere”, direbbe un mio amico appassionato di musica a cui l’industria riesce a vendere sempre nuovi pezzi di mobilio, con la mirabolante promessa di sentire il suono sempre più ‘puro’, ma, in realtà, dandogli in pasto le stesse canzoni di sempre.

Ovviamente è importante porsi il problema opposto: ma guardando troppo al passato non si rischia la morte per asfissia da celebrazione dei classici?

Basterebbe leggerli e non celebrarli, ovvero creare un flusso critico di informazioni e non una linea retta parallela all’asse X.

Il nodo è nel flusso, nel creare punti di riferimento comuni senza volerli per forza leggere in riferimento al presente presente, ma mettendoli in relazione tra loro e dandogli forza per il loro rappresentare dei valori culturali condivisi, ma non monolitici, invece di vivere cercando di prenderli a testate, oppure pregandoli di essere musa divina, che poi sono entrambi modi per dargli un ruolo degradante che non meritano, ovvero per farli morire.

Un classico dovrebbe essere parte viva del flusso, fuori da giudizi critici superficiali e mirati a un certo tipo di pubblico. Per ottenere un simile risultato c’è (ci sarebbe) bisogno di una stampa e, più in generale, di una critica attenta a non svilire il medium videoludico (per rimanere nel nostro campo), quando ad ampliarne i temi e i problemi che solleva, a raccoglierne i valori cercandoli nella sua storia, oltre che nel numero dei poligoni mosso o nel fatto che i giocatori più giovani riescano a comprenderli senza fare il minimo sforzo, come se sforzarsi sia negativo a prescindere.

Bit Boy!!

Sviluppato da Bplus| Distribuito da WiiWare| Piattaforme Nintendo Wii | Rilasciato nel 2009 | Sito Ufficiale

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Bit Boy!! è una specie di Pac-Man con protagonista un cubo, che si propone di illustrare la storia dello sviluppo tecnologico del medium videoludico dai sistemi a 4 bit fino a quelli a 128 bit, proponendo lo stesso gioco adattato alle diverse tecnologie. Si inizia dai 4 bit, con una grafica dai pixel grossi, una manciata di colori, pochi sprite sullo schermo e livelli molto piccoli, si passa per gli 8, i 16, i 32 e i 64 bit, per arrivare ai 128 dove i labirinti sono più definiti, i nemici meglio modellati e si può finalmente usare il sensore di movimento del telecomando Wii per saltare. Interessante che nel passaggio dai 16 ai 32 bit il gioco diventi tridimensionale, ma completamente ingiocabile a meno di selezionare l’inquadratura generale, che permette di visualizzare tutto il labirinto in una singola schermata, tornando a una bidimensionalità di fatto.

Gli elementi che definiscono il genere dovrebbero esservi noti: ci sono dei labirinti, ci sono degli oggetti da raccogliere e ci sono dei nemici da evitare. Invece delle pillole il protagonista è dotato di un attacco rotante che elimina i mostri nei dintorni. Ogni sequenza tecnologica è composta da sei livelli, per un totale di trentasei complessivi.

Purtroppo, tolti gli elementi metavideoludici, il gioco è quello che è, ovvero un mezzo disastro. Paradossalmente i livelli rudimentali funzionano meglio. Il fatto è che gli sviluppatori, concentrati sull’idea di fondo del gioco, hanno dimenticato di curarne gli elementi più strettamente ludici e i livelli avanzati sono fin troppo frustranti (non in termini di difficoltà), con nemici abbondanti nel numero che girano a caso per i corridoi, labirinti mal disegnati e pieni di vicoli ciechi e una generale lentezza nella risposta del personaggio agli input che compromette buona parte dell’esperienza di gioco. Fortunatamente finisce presto e costa poco.

Roba da retromaniaci che manca di raffinatezza nell’esecuzione. Peccato.