Dragon Age Origins

Sviluppato da Bioware| Distribuito da Electronic Arts | Piattaforme: PC, Xbox 360, PlayStation 3 | Pubblicato 2009| Sito ufficiale

Nota: l’articolo è stato scritto provando le versioni PC e Xbox 360 (quest’ultima solo per notare le differenze nell’interfaccia).


Dragon Age Origins è la morte del concetto di gioco di ruolo all’occidentale, probabilmente la sua massima espressione ma anche la negazione della possibilità di spingere oltre una formula che appare ormai immota. Nella sua perfezione evidenzia tutti i limiti derivati dai compromessi che si sono abbattuti sul genere nel corso degli anni. La necessità di sottomettere il genere a logiche di produzione nemmeno troppo sotterranee ha prodotto il capolavoro di un certo modo di esprimere il fantasy nei videogiochi, in copula diretta con l’estetica de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson, da cui copia moltissimo, a partire dalla maggior parte delle inquadrature dei filmati che creano una liason inscindibile con un immaginario ben stagionato e facente parte della retorica culturale dominante, più che della sua messa in discussione. read more

Perso nelle nevi

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Wayne non è un personaggio, è un cliché, al massimo una metafora.

Wayne è l’umanità tutta, ancora una volta cattiva ed invadente, ricacciata indietro dagli Akrid e costretta a battersi per una palla di ghiaccio nello spazio, ultima sua speranza.

Wayne è una metafora perché la sua energia vitale, eternamente in calo e sottolineata da una colonna sonora industriale, incalzante, quasi monotona, rappresenta la precarietà stessa della sua specie appesa con disperazione ad una non-vita su un pianeta inospitale ed ostile.

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Il mondo circostante sembra quasi non avere valore. Monocromatico, immerso nelle nevi, nulla in esso è interessante se non il rosso acceso degli Akrid, al tempo stesso un segnale di salvezza e dannazione per la razza umana. Il contesto è annullato, al massimo è archittettura funzionale per l’ennesimo scontro con la prossima architettura di carne pulsante che ci vuole morti, fuori dal pianeta, via. Gli ambienti ostili esprimono l’urgenza di fondo che permea nel gameplay: non c’è tempo da perdere, bisogna agire, procedere, valorizzare al massimo le limitatissime risorse a disposizione. Sopravvivere.

Gli ambienti sono vasti, monumentali, come le creature che affronta Wayne. Lui ed i suoi simili spariscono confrontati con gli scaloni immensi, con le montagne quasi lovecraftiane, le caverne che albergano creature da incubo. Incedere negli spazi aperti è lento per sole questioni di prospettiva e proporzioni. Tutto sembra vicino, tranne scoprire che tra noi e il prossimo, gigantesco, obiettivo ci sono distanze sconfinate ed insidie inimaginabili.

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La lotta è impari. Sempre. Anche armato sino ai denti, Wayne è costantemente ad un passo dalla morte, accerchiato dai nemici più piccoli, minacciato da guardiani colossali anche quando un esoscheletro potenziato lo illude di star avendo la meglio. Se poi riesce a guadagnare un attimo di calma sarà il Pianeta stesso a reclamare la sua vita, con il suo inarrestabile gelo che consuma tutte le creature viventi. Tranne gli Akrid.

Seppure con le sue pecche, Lost Planet rimane uno dei più indimenticabili e simbolici action game per le console di nuova generazione, semplice nell’idea, quasi criminale nell’economia della realizzazione, maturo negli stilemi e nell’art direction, un esempio tipico del game design giapponese più classico.

Vintage Games

Titolo originale: Vintage Games
di Bill Loguidice e Matt Barton
edizioni Raganella, 2009

2bc956fAvevo letto l’edizione inglese di Vintage Games e l’avevo trovato interessante e ben fatto. Quando ho saputo che sarebbe stato tradotto in italiano e che sarebbe stato il titolo d’esordio di una novella casa editrice, edizioni Raganella, sono stato doppiamente contento perché ho pensato che forse anche nel nostro paese esiste un pubblico desideroso di approfondire i videogiochi e che c’è qualcuno che spera di intercettarlo.

Vintage Games è un testo informato che affronta la storia dei videogiochi partendo da singoli titoli particolarmente significativi. Secondo gli autori:

…non c’è modo migliore di studiare gli oltre cinquant’anni di evoluzione dei videogame che leggere la storia dei più influenti di sempre (e possibilmente giocarci)”.

Il libro è suddiviso in venticinque capitoli, più altri nove bonus consultabili gratuitamente online (per ora ne sono stati tradotti soltanto cinque, per leggerli CLICCATE QUI), ognuno dei quali mutua il titolo da quello di un videogioco. Una suddivisione tematica e non cronologica (ad esempio il primo capitolo è dedicato ad Alone in the Dark, pubblicato nel 1992, mentre l’ottavo a Flight Simulator, pubblicato nel 1980) consente al lettore una lettura non lineare a seconda delle sue preferenze o della semplice necessità di consultazione, facilitata dal fatto che i capitoli sono sistemati in ordine alfabetico. Da questo è possibile desumere che anche che gli autori non hanno voluto creare nessuna gerarchizzazione, dando a tutti i titoli la stessa rilevanza relativa.

Ovviamente, se si fossero limitati a parlare di un singolo gioco per capitolo, avrebbero finito per realizzare una specie di raccolta di recensioni lunghe. Il loro intento è invece molto diverso: sfruttano quello che considerano come il titolo cardine di un genere per parlare del genere stesso, tracciandone la storia e l’evoluzione e indicando, lì dove è possibile, le fonti d’ispirazione culturali, per arrivare a parlare di tutte le derivazioni che ne sono nate, toccando spesso titoli molto recenti.

Nonostante la moltitudine di riferimenti, la lettura è scorrevole e piacevole, mai pedante o troppo pesante, anche grazie all’ottima traduzione in italiano che non peggiora il testo originale (si vede la competenza in materia di chi l’ha fatta).

Insomma, si tratta di un libro che vi consiglio caldamente di acquistare e leggere (regalatevelo per Natale al posto di quella porcata di Modern Warfare 2).

Per acquistarlo CLICCATE QUI.

PS. L’edizione italiana del libro è stata curata da Claudio Todeschini e Stefano Gaburri, due membri storici della redazione di The Games Machine e tra i fondatori delle edizioni Raganella.

Dove stai andando Shepard?

In questi giorni, complice una settimana di torcicollo che mi ha costretto a casa [leggasi: davanti al monitor con mouse e/o joypad in mano], riflettevo sul rapporto che intercorre tra la pratica del videogiocare e lo status di lavoratore sposato con donna non giocante. Voglio fare una piccola premessa: sono sicuro che le rappresentanti del gentil sesso, qualora dovessero leggere queste righe, non si offenderanno per essere state considerate come oggetto del discorso. Converranno infatti con me che, nonostante il numero di casual gamer femminili stia rapidamente crescendo, il loro peso sulla scena videoludica sia ancora statisticamente insignificante e, pertanto, passibile di essere arrogantemente ignorato.

Vignetta di Noah Kroese e Aaron Stanton (comic.gamesfirst.com)

Ma torniamo al titolo del post: Dove sto andando?. Mia moglie ormai me lo chiede spesso. Sono riuscito nel difficile compito di farle credere che ogni gioco abbia una storia da raccontare e che, in ogni momento, io stia compiendo delle azioni finalizzate al raggiungimento di un obbiettivo decisivo per l’evolversi della trama. La mia dolce metà, tuttavia, non è così ingenua da non capire che il raggiungimento di quella sporgenza non ha altro scopo se non quello di accaparrarmi un oggetto utile esclusivamente all’acquisizione di un altrettanto inutile achievement (ed il gioco di parole sono sicuro che verrà perdonato). Ma facciamo ancora un passo indietro e torniamo a quando lei, appena sposata, valutava il mio videogiocare come un’inspiegabile perdita di tempo. I momenti per stare insieme erano pochi, visti il lavoro e la frenesia tipica della nostra città e per me era difficile obbiettare ai suoi giustificabili rimproveri: “Se proprio dobbiamo stare davanti alla televisione, allora è meglio guardarsi un film! Almeno ci capisco qualcosa anche io!“. Come darle torto? Il mio videogiocare la escludeva, mettendola nella condizione di scegliere tra lo stare con me o lo spostarsi in un’altra stanza, perché tutto quel rumore la distraeva dalla lettura e/o dalla possibilità di ascoltare della musica. A lei non interessava muovere l’omino sullo schermo e io non ero intenzionato ad attendere che tra lei ed il mondo dell’intrattenimento videoludico strictu sensu, scoccasse il colpo di fulmine. I primi mesi di convivenza non sono stati facili per la mia affermata identità da addicted. Poi arrivò Mass Effect e la storia d’amore tra Shepard e Liara cambiò tutto.

Shepard e Liara
Screenshot della scena di sesso tra Shepard e Liara

. Dove stai andando?

. Ad uccidere la Matriarca Benezia

. Ma non è la madre di Liara?

. Sì, amore… ma se tu avessi seguito la storia, sapresti che…

In quell’occasione capii che la pratica del videogiocare poteva essere condivisa anche con un non giocatore, senza per questo inficiarne la natura single player. Mi spiego meglio. Compiere o meno un’azione capace di modificare la componente narrativa di un’opera, così come decidere l’allineamento che caratterizzerà il protagonista della stessa, sono scelte che possono essere facilmente prese di concerto, rendendo partecipe lo spettatore che in una qualche misura si sentirà parte attiva di quanto vedrà accadere su schermo. Ben più difficile risulterebbe ottenere lo stesso risultato in giochi più ignoranti come Gears of War o Wet, se solo si sottovalutasse il potere che qualunque forma di intrattenimento dotato di trama riesce a suscitare nelle persone curiose. Al pari di un film visto distrattamente o di un libro letto per passare il tempo in attesa della metropolitana, mia moglie ha imparato ad usufruire del mio videogiocare tanto quanto una normale casalinga utilizza Maria De Filippi come sottofondo alle sue faccende domestiche. Senza entrare nel merito della qualità offerta dai programmi della showgirl milanese, quello che mi preme sottolineare è che esperienze sviluppate appositamente per il singolo [non sto parlando infatti di party game], siano godibili anche se viste in una prospettiva come quella che vi ho appena descritto. A Mass Effect seguirono Fallout 3 e Bioshock, titoli anch’essi capaci di essere raccontati e non solamente giocati. Oggi, ad un anno dalla domanda fatta da mia moglie, le risposte sono state molte: dalla Gerusalemme di Altair alla Stalingrado di Vassili, passando per la Londra di Sherlock Holmes e la Manhattan di Peter, Ray ed Egon. Non sempre il risultato ottenuto è stato soddisfacente. Alcune volte queste storie erano interessanti, altre volte ci annoiavano… ma quella che non è mai andata perdendosi è stata la volontà di divertirci insieme, anche se il gameplay presupponeva la partecipazione di una sola persona. Il dibattito che gravita sulla possibilità di considerare i videogame come una forma d’arte interattiva è ampio, annoso e impossibile da trattare senza citarne le autorevoli fonti. Personalmente, però, ritengo necessario che l’opinione pubblica attribuisca alla pratica del videogiocare la stessa legittimità che solitamente riserva ad attività passive come quelle legate a pellicole e romanzi.

Vignetta tratta da "Maus" di Art Spiegelman
Vignetta tratta da “Maus” di Art Spiegelman

Forse, in quest’ottica, servirebbe un titolo che riesca a replicare, nel mondo dei videogiochi, quello che per il fumetto ha fatto il Maus di Art Spiegelman, “un patrimonio della narrativa novecentesca che ha ridato centralità al dibattito attorno a questo particolarissimo tipo di linguaggio fatto di parole e immagini: il fumetto” (la Repubblica). Penso quindi all’Heavy Rain di David Cage o all’Alice di American McGee, quest’ultimo paragonato addirittura al regista visionario Tim Burton. I loro titoli saranno capaci di cambiare la percezione che le grandi masse hanno del videogiocare? Forse no, ma mia moglie è curiosa e non vede l’ora che io li giochi per lei.

The Legend of Kage 2

Sviluppato da Taito | Distribuito da Square-Enix | Piattaforme: Nintendo DS | Pubblicato 2008 | Sito ufficiale

chihiro-cmyk_psd_jpgcopyThe Legend of Kage è un coin op del 1985 che non ha mai goduto di grossa fama (peraltro giustamente visto che non è certo annoverabile tra i capolavori). Il gioco in sé non era male: un platform game con ninja piuttosto frenetico, ma che soffriva di alcuni difetti che non erano perdonabili e che quindi, come spesso accade, venne dimenticato. Nel 2008 la Taito, sotto l’egida di Square-Enix, ha deciso di dargli un sequel e di pubblicarlo su Nintendo DS. Il motivo del gesto inconsulto non è ben chiaro, forse la volontà di dare una seconda chance a un brand abbandonato? Forse uno degli sviluppatori ha un’amante che si chiama Kage e ha voluto dedicargli un’opera sotto mentite spoglie? Chi può dirlo. Rimane il fatto che The Legend of Kage 2 è uscito e non se n’è accorto praticamente nessuno (sarà un male?).

Avviato il gioco bisogna scegliere il personaggio da guidare (Kage o una certa Chihiro) e stare a guardare mentre viene rapita una sacerdotessa che serve a un tizio indemoniato per fare le sue cosacce da demone. Ovviamente non ci resta che partire al salvataggio, come nei bei vecchi coin op di una volta, quelli in cui ci si lasciava il sangue oltre che i soldi. Da bravi ninja, i nostri due eroi sono in grado di lanciare shuriken e di combattere corpo a corpo con un’arma apposita (una katana o una kusarigama). I nemici sembrano usciti da un catalogo di racconti giapponesi: ci sono altri ninja di vario colore (mi sono sempre chiesto come facciano a nascondersi quei ninja che indossano tutine rosse sgargianti… bah), degli uccellacci che non si fanno gli affari loro, dei cani che sono come gli uccellacci e così via. Alla fine di ogni livello, a parte un paio al termine del gioco, bisognerà affrontare il classico boss.
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[Diario] Cronache Zzappiane: Italici supereroi paladini del copyright

Diamo il benvenuto al mitico Danilo Dellafrana, appassionato di retrogaming, collezionista di riviste di settore e conoscitore di millemila chicche sui videogiochi più disparati. Ci omaggerà del suo sapere ogni qualvolta ne avrà voglia.

Ogni appassionato di videogiochi con una cultura retro quantomeno decente ricorderà il caso Giana Sisters: che abbiate vissuto o meno quel periodo ne avrete sentito parlare così tante volte che la metà basta. Forse però non tutti ebbero la fortuna di leggerne la recensione sul numero di Zzap! Targato luglio/agosto 1988. Eh si, all’epoca le riviste di videogiochi pubblicavano un numero unico per i due mesi estivi che veniva letto e riletto con il maniacale attaccamento del tossico che, privo della sua dose, trova il suo metadone nella logorante arte della rilettura ad oltranza. Bene, tale recensione, peraltro entusiasta, vedeva l’apparizione di un singolare, italico commento accanto a quello del buon Paul Glancey (oh, ma quanto gli assomigliava l’avata….faccina, all’epoca erano le “faccine di Zzap!”) .

Questo era scritto da colui che in seguito, durante lo stesso anno si sarebbe firmato come “Il caporedattore mascherato, il difensore del copyright”, l’alter ego del mitico Fabio Rossi, redattore d’annata extraordinaire. Sostanzialmente si lamentava del plagio effettuato da Trenz e soci ai danni della Nintendo, ovviamente citando Super Mario Bros. come opera lesa. Ce ne eravamo accorti tutti eh, addirittura i pirati avevano scritto un hack che sostituiva gli sprite di Giana e Maria con il baffuto idraulico nintendaro: le cassette pirata che tutti (si, anche tu) compravamo in edicola ne erano piene. Ma quello schietto e onesto commento, così spontaneo rispetto ai rigidi pareri di Rignall e soci ci piaceva.

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