Prima riflessione su videogioco/sogno

I diversi luoghi, reali e immaginari, <> dal diurno o notturno alla spazio onirico, si trasformeranno in nuove realtà e regole di linguaggio” – Salomon Resnik, Il teatro del Sogno, p. 53

Più lo scontro si acuisce, più la visione del mondo si semplifica e la contrapposizione viene mostrata in tutta la sua pornografica brutalità. Il videogioco replica e favorisce il mito, lo moltiplica, lo rende meno intangibile e in continuo divenire: non più soltanto qualcosa che si guarda, ma qualcosa che si controlla e di cui ci si nutre. Morti gli dei il consumo si fa religione e al videogioco fra tutti sembra essere stata assegnata la teorizzazione del mito della guerra, l’io eroico ed egotico che domina rimuovendo i fattori di disordine e ogni minaccia alla sua sopravvivenza.

Tutti i fattori di sofferenza e di realtà vengono rimossi e rimane solo il momento eroico, costretto a perpetuarsi lungo tutta la durata del gioco.

Il videogiocatore diventa quindi la sua ombra rendendo il muovere/si e lo sparare la massima espressione di quel delirio che l’atto stesso del giocare presuppone, a causa della sua natura meccanico-performativa e del suo essere la strutturazione di un sistema di regole prima ancora che un programma.

L’immagine simbolo di questo stato di dormi-veglia è lo scenario ripulito di un RTS, lì dove la vittoria è certa e del nemico non c’è più alcuna traccia. L’erezione cessa, la maschera cade per un istante, almeno fino alla mappa successiva. I nemici non esistono che come entità anonime e distanti. Spesso sono delle semplici condensazioni di fattori, a volte anche discordanti, che interpellano e solleticano la cultura del giocatore senza lasciare diritto di replica.

Quello videoludico, più di qualsiasi altro medium e più della guerra stessa, ha bisogno di estremizzare i concetti di “mostro” e di “nemico”, per poter esistere, in modo da non far mai cessare la suadente perversione del richiamo al massacro. L’unico modo per rendere tutto lecito è quello di svuotare ogni possibile forma di coscienza

Ragazze e Videogiochi

Che i videogiochi siano un passatempo maschile, come il calcio o le moto, è uno stereotipo ancora molto diffuso in occidente.
In questa affermazione c’è del vero, ma non per una intrinseca “mascolinità” del medium, ma semplicemente perché, tendenzialmente, tendono (tendevano?) a essere programmati da ragazzi per un’utenza di ragazzi.
Ciò era, comunque, certo più vero in passato; oggi, considerato anche l’enorme successo che i videogiochi si sono guadagnati col tempo, le cose non sono più così. Ma si sa, le vecchie idee sono dure a morire.
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Le ore

Finalmente è uscito il film di Metal Gear Solid 4. Ora speriamo che esca anche il gioco, che lo sto aspettando con trepidazione.

Scherzi a parte, conosco l’ultima opera di Kojima soltanto per numeri, e quelli mi limiterò a commentare, partendo dall’affermazione di un recensore di Wired: “My clear time for Metal Gear Solid 4 was 18 hours, and more than half of that was spent watching”.

Mi ha inquietato. Più di 9 ore di filmati su 18 totali di gioco?

L’idea di videogioco d’autore è così pervertita? Ovvero: è un autore di videogiochi chi non fa videogiochi? Il complesso d’inferiorità nei confronti del cinema è così marcato che ci esaltiamo per la bellezza dei filmati di MGS 4 arrivando a considerarlo “arte” solo per questo? Proprio come un film, del resto…

Ovvio emozionarsi davanti ad un film emozionante, altrimenti sarebbe un fallimento. Non contesto la “regia” delle sequenze cinematiche di Metal Gear Solid 4 perché ne ho viste troppo poche, ma contesto senza mezzi termini l’idea che un videogioco in quanto tale possa essere giudicato “arte”, o semplicemente bello, in relazione ai filmati che contiene. Ovvero mi sembra assurdo che si stia commentando e valutando MGS 4 soprattutto sulle fasi non giocate.

In effetti, del gameplay si è parlato pochissimo, relegandolo in un angolo quasi fosse un extra non necessario… quasi una curiosità esotica. Non nego il fascino della produzione in sé, e non nego che i filmati possano essere coinvolgenti, ma se la bellezza di un titolo qualsiasi è concentrata soprattutto nella sua “cinematograficità”, allora facciamolo recensire da Ciak e non chiamiamolo videogioco. Ho troppo rispetto per il medium videoludico da poter tollerare in silenzio un’umiliazione simile.

Ma forse mi piace semplicemente chiamare le cose con il loro nome. È da quando ho giocato con Metal Gear Solid 2 che ho la certezza della vera ambizione di Kojima, ovvero dirigere un film. Anzi, dirò di più: Kojima sembra quasi infastidito dal dover concepire le sezioni giocate con cui condire i filmati. Non per niente Metal Gear Solid 2 aveva un gameplay stealth decisamente mediocre, basato su una concezione bidimensionale dello spazio superata da anni. Si fosse chiamato “Parappa the Assassin” e fosse stato monco dei filmati avrebbe ricevuto valutazioni molto differenti.

E invece, per l’ennesima volta, stiamo qui a discutere di bei filmati dimenticandoci completamente il medium che abbiamo davanti, come se la cinematograficità fosse un valore assoluto da perseguire e non un abuso da evitare. Insomma: al cinema ci sono arrivati decenni fa a stroncare i film troppo teatrali o troppo letterari… chissà l’intellighenzia videoludica quando arriverà a capire che bisogna tentare di staccare il cordone ombelicale che tiene attaccato il medium videoludico al medium cinema, piuttosto che esaltarsi ogni volta che viene annodato intorno al collo del bambino rischiando di strozzarlo.

Metal Gear Solid 4: Guns Of The Patriots

Pubblicato da Konami | Sviluppato da Kojima Productions |Piattaforma Sony Playstation 3

War has changed”

Così apre Solid Snake, rinnovato narratore delle vicende in medio oriente, campo di battaglia in cui inizierà la sua ultima missione. E’ lui, che con la voce roca e provata, ci informa dell’attuale situazione mondiale, sulle note di una struggente canzone dal sapore orientale. Già, senza mezzi termini Kojima e la sua troupe ci informano sin dal principio che questa sarà davvero l’ultima missione di Solid Snake. Dopo aver ultimato il gioco e sopito l’adrenalina, sono riuscito a ricomporre il puzzle che finalmente giunge al completamento, chiudendo un ciclo (cosa mai avvenuta coi precedenti episodi, a dispetto di quanto detto da Hideo Kojima).

Guns of the Patriots è la fiera del fanservice, senza per questo essere poco coerente o eccessivamente ruffiano. In questo ultimo e avvincente episodio ci sarà concesso fare di tutto, come a dire “prendete questo regalo, prima dell’addio”. I rimandi alle precedenti missioni si sprecano, sia nelle sensazioni provate che nelle situazioni affrontate e, non ultimi, nei soggetti incontrati. C’è spazio per quasi tutti, non preoccupatevi; il parco personaggi copre un po’ tutte le epoche che abbiamo vissuto, riservandoci anche qualche inaspettata sorpresa.

Dopo aver fatto un po’ di pratica grazie alla beta di Metal Gear Online, mi sono trovato subito a mio agio con le nuove aggiunte e modifiche apportate ai controlli di Snake, che hanno subito delle importanti rifiniture, agevolando l’esperienza di gioco senza frammentarla eccessivamente. Per la prima volta si potrà giocare anche in prima persona, muovendosi liberamente oltre che usare la mira automatica in terza persona (che non permette di colpire punti vitali, come la testa del nemico). Non dovremo più curare Snake come in Snake Eater, né tanto meno potremo fargli la barba come si vociferava tempo fa; sarà comunque presente il sistema di mimetizzazione già visto in MGS3, adattato all’immediato futuro ove si colloca questo nuovo episodio. Grazie all’octocamo, tuta realizzata da Otacon, potremo mimetizzarci in meno di un secondo, replicando l’aspetto esteriore del materiale su cui ci stendiamo, sicuramente più comodo che entrare e uscire in continuazione dal menu di gioco come facevamo in passato. Più avanti nel gioco, recupereremo anche la face-camo, che ci consentirà di estendere la mimetizzazione al 100% del corpo oltre che a prendere le sembianze facciali di altri individui (e qui potete immaginare come si sia sbizzarrito Kojima, nel “nascondere” simpatici bonus). Ad aiutarci nelle nostre missioni ci sarà il robottino MK-II, piccola replica del Metal Gear presente in Snatcher, avventura cyberpunk realizzata da Hideo tanti anni fa per vari sistemi. Questo simpatico aggeggio ci permetterà di intrufolarci in zone più difficilmente accessibili a Snake, sfruttando le sue piccole dimensioni e l’invisibilità. L’MK-II è provvisto anche di un opportuno cavo che può stordire il nemico o controllare particolari dispositivi elettronici. Otacon ci accompagnerà per la prima volta sul campo di battaglia, proprio grazie all’impiego di questo robot capace di salvarci la pelle in alcune scene e agire in prima persona in situazioni particolarmente delicate. A sostituire la stamina, introdotta con Snake Eater, arriva la “psiche”, barra che si consuma in particolari momenti di tensione e stress (altro valore parametrizzato, dipendente dalla furia del combattimento e dal livello di bracconaggio dei nemici) che fa perdere la precisione a Snake rendendolo più vulnerabile agli attacchi dei nemici. Parlando di questi ultimi, le nuove unità introdotte mostrano particolare carisma, soprattutto i commando Frogs (donne provviste di esoscheletri che permettono particolari acrobazie) e i mastodontici e agilissimi Gekkou, mech bipedi per metà organici, capaci di essere un vero incubo per il giocatore. Per chi si è sempre lamentato delle frequenti interruzioni generate dai numerosi dialoghi via codec dei precedenti episodi (in particolare in Sons Of Liberty), sarà felice di sapere che qui sono stati ridotti all’osso e spesso avvengono durante l’azione o i filmati d’intermezzo, senza nemmeno mostrare la classica schermata di collegamento (un escamotage già visto nel film di MGS3 presente sul terzo disco di Subsistence).

Ciò che mi ha entusiasmato meno è il comparto boss, vero fiore all’occhiello di quasi tutti i precedenti episodi (con qualche buffa eccezione). Questa volta fronteggeremo dei nemici i cui principi poggiano su tre elementi di base: la nostalgia (di Snake e del giocatore), la bellezza (della donna celata dietro la propria armatura) e la brutalità della guerra. Quattro bellissime donne (plasmate su modelle realmente esistenti) imprigionate in esoscheletri capaci di donar loro poteri speciali, senza alcuna misericordia. I loro nomi (e altri elementi) richiamano nemici già affrontati, spingendo il giocatore a ricordare le imprese passate, quasi come in un incubo senza fine. Trovo che i riferimenti al passato lascino il tempo che trovano, c’era davvero bisogno di insistere fino a tal punto? Anche le storie dietro a questi personaggi sanno un po’ di forzatura, in ogni caso nulla a cui prestare troppa attenzione, in quanto la loro esistenza ha significato solo all’inizio e poco dopo la fine di ogni scontro. A me sono serviti più che altro come punto di riferimento nell’avanzamento del gioco, ma non nego comunque l’intensità di alcuni momenti in un paio di scontri (soprattutto quello contro Crying Wolf e Screaming Mantis). Le emozioni forti comunque non mancano e trovano posto in alcune soluzioni mai viste in un videogioco, in cui la fusione tra cinematiche e azione ludica tocca livelli mai raggiunti prima.
L’armeria di gioco è quanto di più vasto e completo si sia visto mai in un action game. Drebin, onnipresente ed emblematico personaggio, ci fornirà i suoi servigi sin dal principio, come la vendita e modifica di armi e accessori, oltre che lo sblocco di gran parte della ferraglia che ruberemo ai nemici, legata all’ID del proprietario.

Passando all’aspetto prettamente tecnico, posso affermare che la qualità delle cinematiche è impressionante e si fondono alle parti giocate in maniera magistrale, senza mai spezzare l’azione o rovinarne il coinvolgimento. Peccato per le ombre in bassa risoluzione (si nota soprattutto nel primo atto) e per alcune texture affette dallo stesso problema. I modelli dei personaggi sono dettagliatissimi e le animazioni realistiche. Il tutto è accompagnato da un reparto sonoro da standing ovation. Ci è stato detto che il BRD è stato riempito al 100% per inserire audio quasi senza compressione, sarà che mi accontento di “poco” ma già i miei timpani godettero abbastanza con Snake Eater, cosa che si è ripetuta. Purtroppo è impossibile non notare evidenti cali del framerate, che raramente minano l’efficacia di alcuni intermezzi (tutti riprodotti in tempo reale, ad eccezione di un filmato del terzo atto, improponibile anche su un PC moderno). Anche durante l’azione capita di avere dei rallentamenti, ma è probabilmente lo scotto da pagare per godere di un’esperienza del genere (e già i maligni saranno pronti a spergiurare che su X360 sarebbe stato fluido, i flame sono all’ordine del giorno). Tornando ai nostri timpani, non posso che complimentarmi per il pregevole lavoro fatto nella composizione ed esecuzione della colonna sonora, adeguata al contesto e alla triste condizione del personaggio principale. Il doppiaggio della versione europea è lo stesso di quella americana, con le solite voci note dietro ai microfoni. Trovo che David Hayter (da sempre la voce di Snake) abbia fatto un lavoro eccelso, forse il miglior doppiaggio di tutta la saga. Grazie alla sua interpretazione, la sensazione che Snake sia invecchiato precocemente è davvero tangibile.

Per accorgersi che il team di Kojima abbia pensato un po’ a tutti i videogiocatori, basta andare nel completo menu delle opzioni di gioco. E’ addirittura possibile ridimensionare lo schermo a proprio piacimento, permettendo anche a chi che come me possiede uno schermo 16:10, di poter visualizzare il gioco con le giuste proporzioni e senza tagli. Insomma, nulla è stato lasciato al caso e per questo gli sviluppatori meritano un plauso. La vibrazione è sfruttata magistralmente come e più dei precedenti episodi, con una scenetta simpatica atta a tributarne il ritorno (non vi svelo nulla). Il motion sensing è usato in pochissime occasioni e senza particolare originalità.

Ora passiamo alla domanda che un po’ tutti si sono posti, estimatori e non della saga: Guns Of The Patriot, vale davvero il prezzo di una Playstation 3? La mia risposta è sì, ma con riserva. Se da un lato MGS4 offre un’esperienza visiva di prim’ordine (seppur non esente da magagne) capace di spremere la console come nessun altro gioco fino ad ora, a cui aggiungiamo un gameplay sicuramente migliorato rispetto al passato, dall’altro è evidente che chi non ha giocato i precedenti episodi farà davvero molta fatica a comprendere l’intera trama. Inutile girarci attorno, sappiamo benissimo che Metal Gear Solid è un ibrido film-videogioco: proprio per questo motivo, senza un buon riassunto delle precedenti “puntate”, giocarlo ha poco senso. Inoltre reputo la parte giocata assolutamente insufficiente per ciò che concerne la sua longevità, schiacciata dall’eccessiva presenza di parti filmate, gioia per i fan più accaniti e dolore per chi cercava un gioco con un ottimo bilanciamento tra gameplay e intrattenimento passivo. Se siete tra questi ultimi, vi consiglio di acquistare Metal Gear Solid The Essential Collection (non ancora disponibile in Europa), prima di pensare a MGS4.
Di certo il mio giudizio finale (globale, non aspettatevi un anacronistico e assurdo voto numerico) sarebbe stato ben diverso se le parti giocate avessero beneficiato di altre buone 5 ore nette, davvero un peccato.

Lego Indiana Jones: Le Avventure Originali

Sviluppato da Travellers Tales | Pubblicato da Lucasarts | Piattaforma PC, Xbox 360, Nintendo DS, Playstation 3, Wii, | Rilasciato nel 2008

Lego Indiana Jones: Le Avventure Originali è Lego Star Wars in salsa Indy con grafica next gen. A partire dalla strutturazione dei livelli (sei per ognuno degli episodi cinematografici) le somiglianze sono talmente tante che si fa prima a descrivere le differenze: la frusta come oggetto feticcio al posto della spada laser, un solo protagonista per tutti i livelli nonostante i numerosi comprimari, enigmi più inerenti al diverso contesto e… basta. Per il resto il gameplay è rimasto sostanzialmente invariato, il che non è propriamente un male visto che i due Lego Star Wars erano molto divertenti, nonostante l’inevitabile aspetto fanciullesco.

Si salta da una piattaforma all’altra, si riparano oggetti formati dai mattoncini lego, si affrontano boss e, inevitabilmente, si raccolgono monete di lego di diversi colori distruggendo i vari oggetti di lego degli scenari. Non mancano i segreti, che permettono di accedere ai numerosi extra disponibili nell’università del professore Jones, ovvero lo scenario-limbo che fa da raccordo fra le tre serie. I livelli vanno completati una prima volta per la modalità storia ma, se si vogliono trovare tutti i segreti, vanno riattraversati nella modalità libera con i personaggi adatti per risolvere tutti gli enigmi.

Come già successo con le due trilogie di Lucas, anche in questo caso i Travellers Tales sono riusciti a catturare a pieno lo spirito delle pellicole, nonostante la rilettura in chiave ironica delle diverse sequenze. L’unica assenza di rilievo è quella dei nazisti, trasformati in un generico e anonimo esercito di militari di non si sa bene quale nazione. Necessario farlo per non turbare i più piccoli? O forse la Lego non voleva associare il suo marchio alle svastiche? Chissà…

Dementium: The Ward

Sviluppato da Renegade Kid | Pubblicato da Gamecock Media Group | Piattaforma NDS | Rilasciato il 31 Ottobre 2007 (USA) – 26 Giugno 2008 (JAP)

Vorrei continuare il discorso iniziato ieri circa lo sfruttamento delle potenzialità della piccola console portatile di Nintendo, introducendovi un’opera non ancora pubblicata in Italia ma che ha goduto di riscontri positivi nei mercati di competenza. Mi riferisco naturalmente a Dementium: The Ward, survival horror tridimensionale con visuale in prima persona che raccoglie vari topoi del genere senza affannarsi a cercare un qualche fattore distintivo in termini di ambientazione o trama.

L’avventura si sviluppa in un sinistro ospedale psichiatrico apparentemente abbandonato, popolato da grottesche creature respawnanti di non chiara eziologia ma di chiarissimi intenti assassini, animato da una simpatica bambina che non avremo mai modo di conoscere perfettamente ma che ci causerà svariate preoccupazioni (più auto indotte che effettive, a dire il vero). La storia ha come protagonista un povero sfigato affetto da amnesia e, dunque, con un passato da ricostruire a suon di flashback e riferimenti impliciti vari, fortemente deciso a sopravvivere all’inferno che lo circonda. Insomma, il canovaccio è il solito polpettone psicosplatter, invero piuttosto deficitario in quanto a longevità (ma ormai sembra una moda anche questa).

L’interazione avviene sul touch-screen e, mediante il pennino, si può accedere ai menu oppure muovere lo sguardo. Alle frecce direzionali il compito degli spostamenti, mentre i tasti dorsali fungono da grilletti.
Gli ambienti sono riprodotti con sufficiente resa grafica e stupefacente cura per i dettagli, se si pensa alla limitata dotazione hardware a disposizione. Le scene sono poco illuminate, molte sono totalmente immerse nell’oscurità, e dunque durante l’intero gioco bisogna ricorrere a una torcia elettrica per non sbattere contro un muro o finire nelle fauci di uno zombie. L’alta direttività del fascio di luce proiettato non permette mai di avere piena consapevolezza del divenire del contesto, e l’impossibilità di impugnare un’arma allo stesso tempo dona un piacevole senso d’inquietudine. Tale stato d’animo viene acuito e trasformato in ansia vera e propria per merito di un sonoro tanto semplice quanto indovinato: l’inesorabile regolarità del battito cardiaco fa da contraltare a improvvisi mugugni, crepitii, strofinii che preannunciano l’incontro con entità malevole a breve termine. L’intero impianto si ispira così ai meccanismi di Silent Hill: le tenebre come la nebbia, i rumori come i segnali della radio, i nemici privi di qualsiasi segno di intelligenza.

I meriti di Dementium: The Ward risiedono, insomma, in una realizzazione tecnica che sfida i limiti imposti dalla piattaforma, dimostrando l’effettiva possibilità di trasportare con dignità più che sufficiente il genere horror su DS. Peccato per la pressoché totale mancanza di originalità, ma almeno uno sguardo è altamente consigliato.

Occasione perduta o semplicemente fuori portata?

Il 13 Novembre 2003 Nintendo confermò per la prima volta in via ufficiale lo sviluppo di una console portatile che non avrebbe dovuto (almeno secondo le prime intenzioni) sostituire il GBA ma affiancarvisi. Man mano che nuovi dettagli venivano allo scoperto, l’alone di curiosità si faceva sempre più ampio e sempre più fitto: se da un lato il doppio schermo apriva orizzonti videoludici sino a quel momento insondati dall’altro non pochi analisti si rivelavano titubanti sulle reali possibilità di una macchina che non si posizionava esattamente all’avanguardia tecnologica. Oggi, forte di 71 milioni di unità vendute in tutto il mondo, il Nintendo DS tiene saldamente in mano lo scettro di dominatore assoluto del mercato degli handheld.

Il primo anno e mezzo di vita fu straordinario per via dell’immensa mole di concept sperimentati: la ludoteca del DS abbondava di produzioni di pregevole fattura e, soprattutto, colme di idee fresche. Come non ricordare l’emozione dietro all’ingenuo Pac-Pix, il sorriso sull’arte elettronica di Toshio Iwai e del suo Electroplankton, il tripudio di colori del rosaceo Kirby?
A un certo punto, però, Nintendo e molti osservatori capirono quale dovesse divenire il filone principe da seguire per raggiunge un’audience finalmente vastissima. L’incredibile successo di titoli come Brain Training, che pur nella loro semplicità si rivelarono capaci di catalizzare l’attenzione di milioni di casual gamer, indusse le compagnie a pensare che la chiave del successo fosse inseguire i gusti effimeri delle platee di videogiocatori dormienti, sopiti, potenziali. E avevano ragione.

Uno sguardo al catalogo più recente del DS mi lascia un senso di vuoto, un senso di disorientamento. Le miriadi di cloni, di fotocopie scialbe senz’anima di Catz, Dogz e Horsez costituiscono il comun denominatore. Viene da pensare che la rivoluzione nintendiana, almeno sulla piattaforma portatile in oggetto, sia consistita banalmente nel sostituire uno status quo di aridità con un altro, che anche l’industria sia pervasa da corsi e ricorsi storici, e che le cose non cambieranno nuovamente sino a quando qualcuno non comincerà a reclamare, piagnucolando, un qualche tipo di difference. Ad una prima fase seminale non è susseguita una di maturazione.

Riflettendo meglio, però, sorge un dubbio quasi amletico: devo parlare di occasione perduta o i miei sono i semplici vaneggiamenti di un videogiocatore che per la prima volta nella sua carriera ludica si trova dinanzi ad un’offerta completamente al di fuori della sua portata? Forse è questo il vero successo della differenziazione dei generi, dei gusti, cioé il sentirsi totalmente alieni da un certo insieme di contenuti. Bisogna solo lamentarsene un po’ meno.