Medal of Honor [campagna giocatore singolo]

Prodotto da Electronic Arts | Sviluppato da EA Los Angeles e DICE | Piattaforme PC, Xbox 360, PS3 | Rilasciato il 15 ottobre 2010

La versione provata è quella PC

Afghani, popolo di pecorari e terroristi.

Giocando a Medal of Honor mi è venuto in mente il film Rambo III. Raccontava di un tizio, Rambo, che doveva salvare un altro tizio, il colonnello Trautman, caduto prigioniero di alcuni tizi russi. Ad aiutarlo nella sua impresa c’era una popolazione locale descritta come fiera e amante della libertà: i talebani, chiamati Mujaheddin (significato letterale: “combattente”, “impegnato nel jihad”) per fare felici le mamme occidentali. All’epoca i russi erano i cattivi, il muro di Berlino non era ancora caduto e chiunque si opponesse ai comunisti era descritto con tratti eroici. Sparargli oggi, nella stessa vita in cui li si è ammirati, non crea disagio ai più.

Medal of Honor inizia di notte, con un manipolo di uomini in viaggio nel territorio afghano alla ricerca del classico contatto pieno di informazioni. Si tratta di truppe speciali incaricate di preparare la strada all’invasione post 11 Settembre 2001. Tra un “fuck”, un “bravo”, un pecoraro e un “tango”, gli omaccioni subiscono un’imboscata e si ritrovano invischiati nella più classica delle sparatorie. Bang bang, bang bang. Cos’altro aspettarsi da uno sparatutto? Avanzare non è troppo faticoso, con i nemici che non rappresentano quasi mai un vero pericolo e con la possibilità di recuperare energia mettendosi dietro a una qualsiasi copertura e aspettando qualche secondo (provate: fatevi sparare su una gamba, rannicchiatevi dietro a una cassa e aspettate la guarigione miracolosa).

A rendere la vita più facile (facilissima) ci pensano i compagni di squadra, che ci dicono costantemente cosa fare (saranno stati reclutati su GameFAQs), dove andare e a chi sparare. In moltissimi casi ammazzano i nemici al posto nostro. Sono immortali. A noi non resta che seguirli e fare finta di partecipare. Ovviamente la visione che il gioco porta con sé è a senso unico: i talebani, i ceceni e i tassisti sono cattivi ed è giusto ammazzarli senza pietà. Loro sono tango e le aree devono essere clear, sennò è difficile costruirci un centro commerciale.

Anche i colpi del fucile di precisione sembrano scriptati.

Il livello delle forze in campo è sproporzionato. A nostro vantaggio. I talebani e i loro amichetti, a differenza di quelli probabilmente estinti di Rambo III, sono stupidi e amano farsi ammazzare correndo in campo aperto; oltretutto hanno la brutta tendenza a morire quando sono colpiti dai proiettili. I loro cecchini non ci vedono bene, per maneggiare gli RPG hanno selezionato tutti i membri del club degli orbi di Busto Arstizio e, in generale, danno fastidio solo quando compiono qualche azione programmata; sempre nel caso in cui al giocatore sia venuta voglia di prendere un’iniziativa personale invece di seguire la soluzione, pardon, gli ordini della squadra, che mettono al sicuro da tutti i guai. La situazione diventa decente nella modalità Tier 1, giustamente messa come extra per non indisporre i bambini che lo compreranno nonostante il divieto ai minori.

Nel profluvio di retorica militarista che trasuda da Medal of Honor è possibile distillare una specie di trama, con tanto di generale imbecille che dà sempre gli ordini sbagliati e di sottoposto che si ribella (ma non troppo) per salvare il culo ad alcuni dei suoi uomini finiti in mano al nemico. Portato a termine il gioco si viene ricompensati con una bella scritta che sembra partorita dalla penna di Bondi quando parla di Berlusconi: una specie di inno al sacrificio dei soldati. Bene, bravi, bis. Quelli che si lamentano dell’ambientazione troppo contemporanea dovrebbero farlo per la superficialità con cui viene trattato il conflitto, non certo perché offende i militari in loco.

I talebani non ne vogliono proprio sapere niente di ucciderci.

Arrivati alla fine (fortunatamente in poco più di quattro ore, per una decina di missioni) di questa visita guidata con tiro a segno, si rimane terrorizzati dal pensiero di un possibile seguito, magari con foto di soldati che danno da mangiare ai bambini o di talebani che lapidano le donne. Medal of Honor, dal punto di vista dei contenuti, è mera propaganda, roba che neanche Mel Gibson nei suoi film peggiori è riuscito a tirare fuori. Dal punto di vista ludico, invece, è un titolo scontatissimo che scimmiotta i Modern Warfare e che fa di tutto per non impegnare il giocatore, se non emotivamente. Certo, bisogna essere degli ingenui per lasciarsi andare e per considerare passabili tutte le sciocche semplificazioni adottate per permettere a chiunque di giocarlo;  poi, sarò strano io, ma se finisco contro delle rocce correndo a bordo di un veicolo vorrei subire delle conseguenze peggiori di una frenata repentina.

Commento: ogni volta che sento parlare di realismo davanti a giochi del genere, mi prudono le mani: al limite si dovrebbe parlare di stile grafico realistico e avere la decenza di frenare le parole. Per il resto è un giochetto, sia in termini di contenuti che di durata. Infatti sta vendendo molto bene.

Videogiocatore mainstream

Ho l’ansia di non riuscire a stare al passo. Nel week end ho finito Privates e Lost Planet, ho corso alcuni Grand Prix a F1 2010, ho scartato la confezione di Dead Rising e mi hanno riportato Mirror’s Edge, il cui disco ora riposa nel carrello della PS3. Il tutto in meno di 6 ore, visti i numerosi impegni che, volente o nolente, hanno colorato il mio week end in famiglia. La cosa buffa è che io, di lavoro, faccio tutt’altro: non dovendoci vivere, di videogiochi, dovrei approcciarmi al tempo trascorso in loro compagnia con un atteggiamento diverso. Eppure non riesco più a sedermi comodo sul divano e giocare. Sono in preda ad una frenesia dovuta a diversi fattori, non ultimi i tanti titoli lasciati a prendere polvere sulle mensole o la nevrotica tendenza a non volerli mai abbandonare una volta iniziati, sino ai ringraziamenti finali. Che spreco di tempo ed energie! Soprattutto considerato il fatto che, al passo, non potrei starci comunque, vista la penuria del mio budget mensile destinato all’intrattenimento videoludico. La realtà è che il sistema mi sta fregando e io glielo sto facendo fare indisturbato!

Troppi Demon’s Soul da vagabondare, troppi Uncharted da scoprire, troppi Call of Duty da sparare. Prendiamo Dead Rising. Un’esperienza niente male, vista l’originalità del gameplay e la miriade di cose che si possono inventare e sperimentare. Anche la trama, vi dirò, non ha nulla da invidiare al resto della produzione zombesca di casa Capcom. Ma come si fa a dedicargli il tempo che meritano le centinaia di sfaccettature di cui è pregno? Sul “comodino” mi stanno già aspettando altri dieci giochi dei quali è vergognoso che non abbia almeno provato la demo. Pensate ad Heavy Rain o Alan Wake. Avventure le cui peculiarità, per essere esperite con il massimo del godimento, devono necessariamente essere colte in prossimità della loro pubblicazione. Nel ritardare il loro completamento, il rischio non è solo quello di vederle invecchiare troppo precocemente, ma anche di cascare nella sempre più diffusa trappola dello spoiler (come accaduto a me durante l’ascolto di una puntata di Outcast Magazine, li mortacci loro…).

Da un po’ di tempo a questa parte, la strategia adottata è quella del: livello facile, niente side quest, bye bye Achievement o Trofei, tasso di replay pari a zero e filosofia del minimo sforzo, massimo risultato. La conseguenza di tutto questo è che ho smesso di divertirmi. Sono entrato in un loop da: “Visto che oggi ho iniziato Runaway 3, sabato prossimo posso cominciare DeathSpank, senza dimenticare che, se avessi tempo, c’ho ancora Super Mario Sunshine da finire!”. Vivere così non si può. Devo darci un taglio e cercare di resuscitare da questo vortice senza uscita che è il voler rimanere nella corrente dei ben informati.

Forse la cosa giusta da fare sarebbe quella di spegnere l’internet e tornare a scegliere il nuovo scatolato dal negoziante di fiducia. Lungo la strada potrei anche fermarsi dal Prevosto per sapere se la nuova Perpetua ha imparato a rammendare le coperte dell’altare, piuttosto che chiamare l’amico allevatore per farmi preparare sei uova ancora calde di cova e riempire la tanica di alluminio satinato con il latte della Lola. Rientrato a casa, sedutomi davanti al camino e salutata la moglie, intenta a setacciare il riso per la minestra, e la figlia, alle prese con il suo primo lavoro a maglia, potrei trovare la forza di accendere la console senza preoccuparmi del tempo che avrò perduto.

Metroid: Other M

Piattaforma: Wii | Uscito il: 3 Settembre 2010
Sviluppato da: Project M | Pubblicato da: Nintendo

L’ultima avventura di Samus Aran è arrivata quasi all’improvviso, inattesa e latrice di moltissime novità sulla serie più innovativa (ma anche meno popolare) di Nintendo. Dopo l’ottima trilogia di Metroid Prime, infatti, Nintendo si lascia alle spalle il pur riuscitissimo ibrido Adventure/FPS e torna alle origini con un platform 3D, sviluppato nientemeno che da un’emanazione del Team Ninja capitanato da Yoshio Sakamoto (l’ideatore di Metroid) e dai designer degli episodi per GBA: lo studio Project M.

Il setting della storia, che si colloca subito dopo l’epilogo di Super Metroid, vede Samus Aran venir attirata in una gigantesca astronave-laboratorio della Federazione, la Bottle Ship, da cui proviene un messaggio che fa riferimento al cucciolo di Metroid che le aveva salvato la vita durante l’ultimo scontro con Mother Brain. Sulla nave Samus incontrerà il suo ex ufficiale comandante, Adam Malkovich, e alcuni ex compagni di squadra. L’evento si tramuterà in un tumulto di ricordi, rimpianti e rimorsi quando le personalità forti di Samus e Adam entreranno in rotta di collisione per risolvere il mistero all’interno della Bottle Ship: è vero che la Federazione lavorava illegalmente ad armi biologiche?

Il ritorno alle origini della serie, che si rispecchia anche in un design dei mostri più cartoonoso e fedele alle iconografie a 8 e 16 bit, non avviene tuttavia senza un radicale stravolgimento nel canone del gioco: questa volta non saranno le ambientazioni e i lasciti di antiche civiltà a suggerirci il background narrativo del gioco. In Metroid: Other M Samus parla.

Questa semplice modifca ha impatti non banali per tutta l’epopea fantascientifica che con Prime aveva raggiunto le dimensioni e la coerenza di un vero e proprio universo da Space Opera: non si potrà più tornare indietro. Il mistero dietro Samus è del tutto svelato: non è più solo un’orfanella soccorsa dai Chozo, ora è anche un’ex marine spaziale con una tendenza all’insubordinazione e con grossi problemi di autostima ed accettazione. Ed è proprio su questo che verte tutto Other M: Samus ritorna ad analizzare il suo passato e i suoi rapporti con il comandante Adam Malkovich. L’esperienza la porterà ad una maturazione interiore, esplorando alcune complesse implicazioni risalenti ai precedenti episodi, come il rapporto quasi materno avuto con il cucciolo di Metroid.

Tutto sommato, questa versione più poplare e meno sofisticata di Metroid funziona: la storia, la cui regia e il cui stile narrativo sembrano presi di peso dagli ultimi capitoli di Resident Evil, si muove con fluidità verso un degno epilogo e i costanti colpi di scena tengono il giocatore letteralmente incollato allo schermo; nonostante il level design sia forse il più scialbo della serie ed il gioco sia pressoché lineare, almeno sino alla sua conclusione, che ci permetterà di tornare ad esplorare la Bottle Ship per localizzare tutti i bonus nascosti e affrontare qualche boss opzionale.

Mi sento in dovere di fare una grossa critica ai controlli, che funzionano benissimo solo nelle sezioni di mappa in cui il movimento è bidimensionale (o vincolato alle due dimensioni). La scelta della croce direzionale per i movimenti e l’utilizzo di soli due tasti non è sempre ideale e, se garantisce controlli istantanei e perfetti nelle sezioni platform, risulta difficile da digerire quando ci si deve muovere in profondità sullo schermo e ci si accorge che Samus è vincolata alle 8 direzioni canoniche. Certo, il fluido engine ed il gamplay iperspettacolare alla Ninja Gaiden regalano momenti memorabili, grazie anche ad uno scripting delle mosse e delle varie finish che ha quasi del maniacale; tuttavia togliere il controllo al giocatore non è mai un gran modo di regalare emozioni e Other M lo fa un po’ troppo spesso.

Oltre ai problemi col movimento, infatti, in Other M non è possibile decidere chi attaccare: il sistema di controllo stabilirà automaticamente chi colpire sulla base del contesto e della prossimità. Una scelta che funziona benissimo nel 90% dei casi ma che vi farà imprecare come dei turchi con l’orchite per il restante 10%.

Per onorare l’idea tutta nintendiana che un gioco per Wii debba per forza avere a che fare con il motion control, anche Other M deve scendere a compromessi con il Wiimote, regalandoci un pessimo sistema per la gestione dei missili. Puntando il telecomando verso lo schermo il gioco entrerà in modalità soggettiva, in cui sarà possibile sparare come in un normale FPS. Anche qui lo schema di controllo limitato al Wiimote richiede un sacrificio: quando si spara non è possibile muoversi. Questo limite non è molto importante quando si combatte con nemici normali, ma diventa alquanto didascalico e farraginoso con i boss: essi avranno pause molto lunghe nei loro pattern per permettere al giocatore di entrare in modalità soggettiva, identificare i punti dove sparare (evidenziati da un conveniente bersaglio rosso) e lanciare una bordata o due prima di tornare a schivare. Pessime le (fortunatamente poche) modalità in cui si giocherà a Duck Hunt, facendo il tirassegno a diverse cose che ci vengono lanciate contro.

Nonostante il grosso handicap dei controlli (con cui si convive ma che certo poteva essere risolto in maniera più elegante), il gioco fluisce costantemente in bilico tra un citazionismo esasperato e la spettacolarità un po’ tamarra tipica del Team Ninja. La difficoltà è piuttosto bassa, anche in virtù di una linearità che lascia pochissimo spazio all’esplorazione e all’acquisizione dei power-up. In questo episodio, infatti, Samus sarà completamente equipaggiata sin dall’inizio ma dovrà ricevere l’autorizzazione da Malkovich per utilizzare le armi più potenti, solitamente durante scontri o eventi topici.

In definitiva Metroid: Other M è un buon gioco ma rimane un senso di irritazione che si prova quando si pensa che poteva essere ottimo. Siamo di fronte ad una svolta epocale per la serie, una sorta di reboot spirituale: Samus parla, il suo background ormai è più che definito e sono stati introdotti personaggi secondari che presumibilmente continueranno a ricoprire un ruolo nel prosieguo della serie.

Monkey Island 2: Le Chuck’s Revenge – Special Edition

Sviluppato e pubblicato da LucasArts | Piattaforme Xbox360/Live Arcade (versione testata) Playstation 3/PSN – PC/Steam – Iphone | Rilasciato in  Luglio 2010

Monkey Island 2: Le Chuck’s Revenge è probabilmente la migliore avventura grafica punta e clicca mai creata e scriverne significa rivangare un momento importante nella mia vita da videogiocatore. Fino ad allora (1992)  spendevo il mio tempo libero giocando a titoli arcade tutti azione e niente cervello, e quando misi le mani sugli undici floppy disk della versione Amiga di Le Chuck’s Revenge, feci il salto di qualità maturando come videogiocatore.

Dopo il successo di The Secret of Monkey Island: Special Edition, era quantomeno scontato attendersi la stessa operazione per il suo celebre seguito ad opera del giovane team interno alla LucasArts, per cui procediamo con l’analisi del prodotto finale.

Guybrush Threepwood è sempre lo stesso impacciato pirata wannabe della precedente avventura che, forte della sconfitta di Le Chuck, si è arricchito a dismisura e si atteggia da eroe con barba incolta e pastrano blu. Il suo nuovo obiettivo è il ritrovamento di Big Whoop, mitico tesoro dall’inestimabile valore e avvolto nel mistero. Questo remake è una copia sputata dell’originale e nessun cambiamento è stato apportato alla struttura e alla trama del gioco, pertanto ci troveremo ad affrontare un’avventura punta e clicca di stampo classico con tutti i pregi e i difetti di tale genere. Inutile dire che a suo tempo fece grandi proseliti, ma è anche vero che alcuni degli enigmi assurdi e di difficile risoluzione non troverebbero posto in un titolo odierno. Per chi ha poca pazienza e scarsa inventiva è presente lo stesso sistema di aiuti già visto nel precedente remake. Monkey Island 2 vince grazie alla trama, l’ambientazione, la caratterizzazione dei personaggi, l’umorismo dei dialoghi e le fantastiche citazioni disseminate per tutta la storia, che si conclude con un finale che fa discutere molto ancora oggi, puro stile LucasArts scopiazzato (ma mai eguagliato) in lungo e in largo da vent’anni a questa parte. Ma ora parliamo della realizzazione di questo remake.

Cominciamo con l’analizzare l’aspetto grafico e la fedeltà nei confronti dell’originale. Guybrush e Elaine sono stati ridisegnati nuovamente (rispetto al precedente remake) con uno stile diverso che, se pure non è esattamente fedele, risulta quantomeno accettabile. I fondali sono stati replicati con cura, riuscendo nell’intento di non alterare l’atmosfera e il look dell’originale (anche se i pixelloni hanno pur sempre un fascino particolare che lascia un po’ di spazio all’immaginazione del giocatore), non sono presenti difetti o disomogeneità come nella precedente riedizione. Le animazioni di Guybrush hanno beneficiato di un ritocco non da poco, l’effetto scivolamento risulta ridotto grazie all’aggiunta rispetto all’originale di frame di animazione intermedi; il passaggio dalla versione nuova a quella classica è come sempre immediato e affidato alla pressione di un tasto; peccato davvero per l’assenza dell’introduzione originale con le scimmiette che ballano e Guybrush che le manda via, con i credits a seguire (è stata ripristinata con una tardiva patch, ma solo nella versione classica).

Come per il precedente lavoro il doppiaggio mi è piaciuto abbastanza, non fosse che per la voce di Largo Lagrande che immaginavo completamente diversa. I brani riarrangiati hanno invece perduto incisività, risultando meno protagonisti rispetto all’originale. Peccato per il sistema iMuse (che gestiva le transizioni dei brani di stanza in stanza in maniera dinamica) non replicato fedelmente su console sia nella versione nuova che in quella classica, probabilmente per dei limiti relativi alla gestione dei midi.

Monkey Island 2 l’ho potuto gustare su tutti i tipi di piattaforme, grazie al meraviglioso SCUMMVM, quindi in occasione di questo remake ho preferito comprarlo per Xbox360 potendoci così giocare su un plasma da 46″ in poltrona. Avendo provato il demo del precedente, non posso che constatare un netto miglioramento dell’interfaccia di gioco che addirittura offre l’opzione per muovere Guybrush direttamente con il thumbstick, qualcosa che ricorda le prime avventure della Sierra!

Vera chicca per gli appassionati è rappresentata da due bonus, i meravigliosi artwork originali (quasi tutti di Peter Chan) e il commento audio dei tre padri di Monkey Island: Ron Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossmann. Durante l’avventura è possibile sentirli commentare su  particolari scene di gioco, ambientazioni, sviluppo e personaggi spesso divagando in aneddoti molto divertenti. Questa funzionalità avrebbe però dovuto essere gestita meglio: se si avvia un commento audio il gioco non viene automaticamente interrotto, rischiando pertanto di coprire delle scene di intermezzo; o addirittura il commento può venire troncato di netto se lanciato troppo tardi (ed è irriproducibile, a meno di non ricaricare un salvataggio precedente).

Spendiamo qualche riga anche per la localizzazione del prodotto nel nostro idioma. La precedente traduzione (esclusivamente testuale) generò non poche polemiche tra gli aficionados di vecchia data che conobbero il gioco tradotto dalla defunta CTO, la cui localizzazione (non proprio eccelsa, a mio avviso) non venne minimamente tenuta in considerazione nel remake odierno. In occasione del nuovo Le Chuck’s Revenge gran parte della traduzione italiana originale è rimasta intatta, con alcune revisioni qua e là per renderla più fedele alla versione in lingua madre (spesso intraducibile correttamente, per via di diversi giochi di parole), nel complesso un lavoro sicuramente migliore del precedente. Il mio consiglio rimane quello di giocare con la versione inglese.

Cliccate QUI per acquistarlo su  Steam al prezzo di 9,99 euro oppure QUI per averlo in bundle con il primo episodio alla modica cifra di 14,99 euro.

Sony PSP 2: Stuzzichiamoci un po’!

Kotaku ci fa sapere che manca circa un anno al lancio di PSP2, aggiungendo ulteriori dettagli sulle dotazioni dell’erede della prima console portatile marchiata Sony.

A quanto pare la PSP 2 sarà provvista di un doppio thumbstick e un touch pad posteriore che potrebbe funzionare un po’ come quelli presenti nei laptop odierni. Sony però non ha specificato se sarà supportato da tutti i giochi o meno, lasciando questa decisione a discrezione dello sviluppatore di turno. Lo schermo della consolina (oddio, comincerei a chiamarla consolona) sarà più grande di un pollice rispetto alla vecchia e probabilmente e offrirà immagini ad alta definizione (sulla falsa riga dei migliori schermi odierni, come quello dell’ultimo iPhone).

Si vocifera che il prototipo di PSP2 sia già nelle mani di diverse Software House da settembre scorso. Lo chiamiamo prototipo proprio perché ancora non rappresenta la versione definitiva e a quanto pare Sony sta lavorando sodo per estendere al massimo l’autonomia della batteria (ancora troppo breve) e ridurre il calore emanato dal dispositivo (a quanto pare attualmente il prototipo scalda troppo).

Kotaku suppone che questa piccola belvina possa uscire per l’autunno dell’anno prossimo, ma ad oggi non abbiamo alcun annuncio ufficiale in merito.

Attendiamo con trepidazione.